Mentre tutti, soprattutto i critici, ripetono il solito
mantra “Il vero cinema americano oggi come oggi è quello delle serie tv, il
cinema non ha più un peso nell'immaginario”, Robert Zemeckis continua
indisturbato a inventare per il cinema un senso sempre nuovo. Per quanto
anche questo straordinario Beowulf passerà inosservato come lo fu
Polar Express, Zemeckis non solo si appropria delle nuove tecnologie in modo da
inventarsi un'inedita unicità dell'esperienza in sala (smentendo le
cornacchie che da decenni ritengono di poter spedire il cinema in soffitta),
ma inserisce il tutto in una visione assai ampia, capace di inghiottire
tutta la Storia, quella con la S maiuscola.
Sì, perché dietro la storia del guerriero venuto da lontano per salvare il
regno da una maledizione senza fine, e che diventerà sovrano a sua volta
capace di scelte più coraggiose del coraggio stesso, c'è una chiara parabola
metastorica. Si tratta, in sostanza, della solita teleologia cristiana: il
sacrificio di Beowulf compie “messianicamente” la Storia vista come infinito
susseguirsi di disgrazie, come negatività trasmessa funestamente di
generazione in generazione. Beowulf insomma redime il Potere stesso dalla
necessità di estromettere un rimosso destinato perpetuamente a saltare fuori
e a fare danni. Non deve più, come il re precedente, fronteggiare l'informe
mostro che il re stesso ha generato in una scappatella con il femmineo
demone rintanato nella caverna. A Beowulf tocca invece combattere
l'incarnazione stessa del potere, vale a dire un drago (comunque sempre suo
figlio), incarnazione appunto del sigillo a forma di drago che garantisce
nelle mani del sovrano il possesso e l'esercizio del Potere. Se prima di lui
la sovranità si teneva in funzione grazie a questo rimosso confinato altrove
(il demone, il mostro), ora questo rimosso viene a galla: Beowulf sente, sa
e dice chiaramente che tutto il Potere che ha in mano in realtà non è suo,
perché è frutto di un patto col femmineo demonio che ha concupito anche lui.
Disgustato davanti alla pantomima dei teatranti che a corte cantano una
gloria non sua, Beowulf (Amleto?) si sacrifica nell'impari lotta con il
figlio drago (di nuovo: il potere “in quanto tale”, la sua forma stessa),
scegliendo di morire, più che “da” uomo, “come” un uomo. Va dall'altre parte
della barricata, le frecce che un tempo comandava di scoccare ora gli
piombano addosso, provenienti dal lato un tempo “suo” del fronte, e si batte
con un nemico che non può battere (il drago) palesando la propria “umana”
inadeguatezza, che sarà la sua morte ma anche quella del drago, che cade a
terra solo quando il nostro “post-eroe” gli strappa il cuore non armi in
pugno, ma a mani nude.
Non è più tempo di eroi perché il rimosso viene a galla, e intende
rimanerci. Ma la cosa assume anche altri, più generali connotati. Ai tempi
del vecchio sovrano, in questo film sovraccarico di espliciti simboli
fallici, c'era da un lato un femmineo demone dentro una grotta richiamante
palesemente il sesso femminile; un demone che non potevamo vedere se non
attraverso un opaco riflesso sopra uno scudo, perché in quella fase del film
potevamo solo aderire, in soggettiva, ai suoi stessi occhi. Dall'altro lato,
a Corte, impazzava un principio “fallico” (il potere appunto), con svariate
allusioni in questo senso culminate con la scena in cui Beowulf ammazza il
mostro informe: in tale scena, Beowulf è nudo e il suo pene è di volta in
volta “vistosamente” coperto da qualche elemento del set che “casualmente”
vi si frappone. Lo si è visto in mille film, ma mai come in questo caso il
meccanismo è così deliberatamente reiterato e sottolineato. Perché, come ci
ricorda la psicanalisi, il fallo è tutt'altra cosa rispetto al pene, il
significante del potere (il fallo) è tanto più presente quanto il suo
contraltare che è il pene è assente, o meglio, non si vede. Insomma: il
potere funziona precisamente come esclusione di un rimosso che in sostanza
altri non è che la visione stessa. Il femmineo demone occhiuto, la cui
liquidità (abita nell'acqua e muta a piacimento la propria forma dentro
l'acqua) non può non simboleggiare la mellifluità del digitale.
Ma è proprio questo rimosso che con Beowulf viene a galla. Beowulf sa, a
differenza del predecessore (che lo sapeva ma faceva finta di niente) che il
suo potere è determinato innanzitutto da ciò che esclude. Il suo sacrificio
ridefinirà la funzione del sigillo del Potere (il drago) il cui segno
inghiotte tutto il film, anche narratologicamente (la lunga ellissi da
Beowulf-giovane a Beowulf-vecchio è un carrello ravvicinato sulla corona,
che termina proprio su quell'effigie): verrà raccolta dal suo “scudiero”,
che in riva al mare vedrà l'amico nell'abbraccio mortale del solito demone
femmineo. Ma, per l'appunto, lui riuscirà a guardarla negli occhi, da
lontano, resistendo alla malia della “sirena”, e ricominciando la Storia
ribaltandone il presupposto, esorcizzando l'esclusione del visivo in uno
sdoppiamento, occhi davanti agli occhi, alla luce del sole.
È appunto qui che assume senso il grandissimo lavoro di Zemeckis con la
“performance capture”, la rielaborazione digitale in animazione dei
movimenti degli attori “veri”. Un procedimento che permette, vanificando en passant la distinzione stessa tra profilmico “vero” e ricreazione animata
(perché un residuo di verità profilmica, pur astratto, c'è ed è innegabile:
è il movimento stesso, piuttosto che corpi o figure), la più incredibile
libertà di movimento per l'occhio della macchina da presa (o chi per lei),
infinita libertà di attraversamento del set sguinzagliata in ogni direzione
e con qualunque velocità. Oltre ad essere, come si accennava all'inizio,
un'”esperienza” in senso potenzialmente “neocinematografico”, davvero una
possibile nuova frontiera per il cinema in sala, l'enorme libertà di manovra
dei movimenti di macchina connota l'occhio della macchina da presa come,
innanzitutto, letteralmente penetrante. Penetra uno spazio che non è
semplicemente quello virtuale dell'animazione (perché appunto si è detto
come di realissimo ci sia il movimento), e in questo modo supera
immediatamente, dal primo istante, la distinzione tra l'occhio e il fallo
che Beowulf (sia film che personaggio) si affanna dialetticamente a superare
nel corso della storia.
L'occhio fluidissimo di Zemeckis, insomma, ci spiattella davanti agli occhi
la visione stessa, facendoci guardare negli occhi, come allo scudiero del
finale, la sua stessa potenzialità liberata dalla “separazione” che è il
voyeurismo, e non più delimitata dal principio fallico per esclusione, ma ad
esso sovrapposta.
E in questo faccia a faccia piazza buona parte del nostro drammatico (ma
forse ricco di potenzialità) essere al di fuori della Storia, in un limbo
astorico dove l'occhio, cioè lo Spettacolo, è letteralmente dappertutto.
04:12:2007 |