GREENAWAY/SHAKESPEARE:
A CONFRONTO
Mettere a confronto "La Tempesta" di William Shakespeare ed il film di
Greenaway è come inoltrarsi in un vasto labirinto dal quale risulterebbe
arduo trovare via di fuga, e non meraviglierebbe scoprire che, al
termine del tragitto, come in un nastro di Moebius, la fine coincida con
l’inizio.
Troppi sono i rimandi che Shakespeare fa a sé stesso ed alla poesia,
così come Greenaway ed il suo film rimandano al testo originale e
all’arte cinematografica. Basterebbe prendere in considerazione la
figura di Prospero: se in lui è possibile riconoscere una sorta di
autoritratto del poeta (se non addirittura, nel passo ormai celebre “Le
nostre feste sceniche son finite…” [IV,i] un congedo definitivo dalla
scrittura), è inevitabile sovrapporre questo personaggio anche alla
personalità di Greenaway, artista di nota voracità intellettuale.
Il regista, peraltro, è riuscito a realizzare un’opera estremamente
personale rimanendo comunque fedelissimo al testo originale, riuscendo a
far propri anche le intenzioni e le ispirazioni di Shakespeare. L’unica
libertà che si concede è quella di interrompere, di tanto in tanto, lo
svolgimento della vicenda, con le descrizioni dei libri che
costituiscono l’intero sapere di Prospero. Del resto, nel cinema di
Greenaway, gli esseri umani appaiono come monadi non congiungibili ad
altri individui, capaci quindi di entrare in contatto esclusivamente con
oggetti, numeri, lettere dell’alfabeto, nomi. Inevitabile quindi che il
regista mettesse in evidenza il rapporto Prospero (Uomo)/libro (Sapere)
anche concedendosi delle licenze. Quelli che ci vengono mostrati sono
libri estremamente ‘vivi, custodi non esclusivamente di idee (e parole)
ma, fisicamente, di stoffe, metalli, fiori, costituendo così tomi
universali, autentici archivi organici di tutto il conoscibile umano,
divenendo così oggetti eterni, come sembra essere il Prospero di
Shakespeare.
Ambientando la vicenda su di un’isola, e popolandola di creature magiche
e soprannaturali, lo scrittore crea un mondo al di fuori del tempo e
dello spazio reale facendo risaltare l’onniscienza e la forza del
protagonista, rendendolo quasi sovraumano. Ciò sembra essere tipico
anche del cinema di Greenaway: tutto il passato si mescola in un nuovo
tempo (quello del film), estraneo a qualsiasi contemporaneità e moda. Se
non si fosse così abusato di quest’espressione, potremmo parlare di
‘neobarocchismo’ per definire meglio l’universo che il regista mostra,
creato non solo attraverso le maestose scenografie, ma anche ricorrendo
all’applicazione della computer grafica rendendo possibile la
sperimentazione e l’incrocio di nuovi mezzi per spingersi oltre i
margini dell’inquadratura, oltre l’unicità narrativa che un’immagine può
offrire, oltre, quindi, il tempo. Greenaway coglie in pieno la
caratteristica del teatro scespiriano, se concordiamo con il fatto che
le vicende di Shakespeare non si muovono, di consueto, “secondo una
linea parabolica di eventi concatenati tra loro, ma si dispongono
piuttosto a ventaglio, secondo linee e piani diversi,a volte paralleli”
(A. M. Zazo, in W. Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate,
Milano, Oscar Mondatori, 1998, p. XLIII).
E sono appunto i piani su cui viaggiano il testo teatrale e quello
filmico, rimanendo non sempre paralleli, ma sovrapponendosi, ampliandosi
a vicenda. Greenaway ha voluto concludere la pellicola con una sorta di
epilogo, mostrando il libro che si è completato soltanto grazie alla
messa in scena dell’unica opera mancante, "La Tempesta" appunto,
esplicitando così la funzione di regista-deus ex machina che Prospero
aveva assunto fin dall’inizio della vicenda, e che nel testo teatrale
rimaneva forse più in ombra.
A questo punto Greenaway si sovrappone a Prospero, sotto il quale si
celava già Shakespeare: la macchina da presa carrella lungamente
indietro svelandoci tutti gli attori che applaudono (applaudono loro
stessi o noi?), guardando lo spettatore, come avessero assistito ad una
rappresentazione, ma chi guarda è ben lungi dall’uscire di scena ma,
mediante tale soluzione, viene rigettato, per dirla insieme ad Alonso,
nel “più strano labirinto in cui mai un uomo abbia messo piede” (V, i).
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