Il regista che forse più di tutti è riconoscibile per la sua tendenza a
costruire storie in forma di romanzi epici realizzati a costi di
produzione elevatissimi è sicuramente Francis Ford Coppola; il fatto che
abbia iniziato la propria carriera nella leggendaria "Factory" di Roger
Corman potrebbe aiutare a capire come questo regista riesca ad
affrontare con l’intraprendenza che lo distingue progetti estremamente
diversi che abbracciano opere come
Apocalypse now e
Il padrino, ma anche film
spesso etichettati come opere ‘minori’, solo perché confezionate con
budget ridotti ed aventi apparentemente caratteristiche proprie dei
B-movie (ad es. Rumbe fish).
In quest’ultima categoria di film potremmo far rientrare anche
La conversazione, che
Coppola scrisse e diresse nel 1974 e che realizzò con i fondi della sua
casa di produzione, la Zoetrope.
L’intera vicenda sembra avere funzione ipnotizzante, sui personaggi e
soprattutto su Harry Caul (Gene Hackman) e un’approfondita analisi
dell’opera potrebbe prendere il via dalla lunga sequenza centrale che
più ci illumina sugli avvenimenti narrati, sul paranoico e privatissimo
carattere di Harry.
Il festino che Harry tiene nel suo laboratorio insieme a dei colleghi e
ad un paio di ragazze si tramuta nel trionfo della logica che avvolge i
professionisti dell’intercettazione: l’intercettare/essere intercettati
(quindi, ampliando il concetto, lo spiare/essere spiati) è la regola che
vige anche tra i personaggi.
Usando questo precetto Coppola riesce non solo a tessere una sottile e
stimolante tela di citazioni e rimandi (basti pensare come questo
concetto si colleghi a numerosi film diretti da maestri come Hichcock,
De Palma e Lynch, i quali hanno costruito sul ‘guardare’ e sul ‘sentire’
le loro più riuscite opere), ma inserisce coerentemente il proprio film
(quindi l’intera vicenda) in un periodo storico in cui l’ossessione
della cospirazione trova ragione di esistere (nasce in quegli anni,
infatti, quasi un vero e proprio genere sulla cospirazione:
Azione esecutiva di D.
Miller, 1972, I tre giorni del
condor di S. Pollack, 1975,
Tutti gli uomini del presidente
di A. Pakula, 1976, e così via).
Proprio quando Harry diventa ‘lo spione spiato’, cioè l’obiettivo dello
scherzo di cattivo gusto dei suoi amici, sembra acquistare più coscienza
sulla sua triste e doppia condizione di carnefice/vittima. Per questo
Coppola, durante l’intera durata della sequenza, fa muovere Harry dietro
pannelli semitrasparenti, reti metalliche che, se da una parte
custodiscono i preziosi strumenti del suo lavoro, dall’altra proiettano
sul suo viso ombre che non fanno altro che accrescere l’atmosfera
onirica in cui il protagonista vive. Anche i movimenti della macchina da
presa sembrano spiare l’intercettatore che, come interagendo con una
sorta di personaggio ‘altro, non si rivela mai completamente. La
m.d.p. non fa che seguirlo con timide carrellate, spostandosi dal
tavolo di lavoro all’enorme parte del laboratorio privo di mobili
(l’occupare solo uno spazio minimo di quello che ha a disposizione è un
ulteriore segnale della singolare discrezione di Harry) in cui si
apparta con una donna, l’unica con la quale parlerà di personali
questioni e che, per un triste paradosso, si rivelerà essere una spia.
Ma sono e lentissime panoramiche che più ci illustrano quel mondo di
irrealtà, d’ansia, rivelandocelo con movimenti simili a quelli delle
telecamere a circuito chiuso (proprio come quelle che Harry collauda
quando si trova al convegno, in un’altra sequenza del film).
Anche il sonoro svolge una funzione straniante: nella sequenza si
alternano le risate degli amici al malinconico motivo musicale che
accompagna Harry ogni volta che rimane solo e prova a confessare
(confessarsi) qualcosa. Anche le voci registrate sul nastro, riemergono
nel momento di intimità che Harry vive con la ragazza, ci suggeriscono
sempre un (doppio) fuoricampo, un passato che ricade inesorabilmente sul
protagonista proprio come le ombre delle reti metalliche che si
disegnano sul letto dei due amanti. Toccante è inoltre il modo di
descrivere un personaggio così introverso e monotono, appassionato però
di jazz, musica veloce, sincopata, che egli suona con il suo sax, in
completo isolamento, strumento di sfogo di una vitalità repressa, forse,
dai sensi di colpa.
Fino alla fine della vicenda sarà un crescendo di paranoia che anche lo
spettatore non riesce ad avvertire quanto effettivamente radicata nella
realtà. Ma tutte le paure di Harry verranno chiarite, ed il protagonista
verrà messo a nudo proprio come le pareti della sua stanza (mostrataci
con una semplice, elegante, reiterata panoramica sinistra-destra,
destra-sinistra). Non un finale conciliante però, in quanto dell’incubo
vissuto dal protagonista nulla è dimenticato e tutto ha lasciato un
disordine interiore proprio come quello che, concretamente, domina la
sua abitazione (carta da parati strappata, assi del pavimento divelte).
Un disordine dal quale sembra nascere un altro indimenticabile
personaggio che Coppola ci presenterà qualche anno più tardi, nel 1979,
quando con la lisergica sequenza di apertura di
Apocalypse now quel disordine al quale Harry tentava
disperatamente di resistere, regnerà in tutta la realtà vissuta da M.
Sheen: il Vietnam.
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