ALMOST BLUE
di Alex Infascelli
con Lorenza Indovina, Andrea Di Stefano e Rolando Ravello



Noi di Kinematrix stiamo cercando da tempo qualche regista italiano capace - per soluzioni stilistiche, visionarietà, volontà di non accontentarsi dell'occasione avuta - di smuovere le acque del cinema italiano, di dimostrare che, come molti credono, non tutto è perduto. La ricerca non è finita, ma con ALMOST BLUE qualcosa abbiamo trovato.
Occorre dirlo subito: ALMOST BLUE non è assolutamente un grande film e Alex Infascelli deve vederne e farne ancora tanto di cinema, prima di essere ricordato per delle buone ragioni. Tutto quello che diremo va inteso allora come ricerca degli aspetti positivi in un'opera che manca in gran parte di ritmo, scade nella recitazione, e ha nei dialoghi il punto più debole.
Un disastro, si direbbe. Però Infascelli sceglie uno degli scrittori italiani cult di oggi, Lucarelli, e non racconta una delle tante e già viste storie "carine" ma nemmeno - e ci venga scusato l'approccio schematico alla produzione nostrana - storie di mafia o di poliziotti speciali. La scelta è andata verso una storia bolognese di un serial killer, molti dei cui drammi all'origine dei suoi gesti sono dovuti ai noti traumi infantili che spesso hanno colpito questa tipologia di eroe cinematografico. Al di là dunque di quello che può pensare Infascelli (in "FilmTv" del 28/11/2000, a pg. 13, ha dichiarato che il suo "…certo non [è] un film di genere") ALMOST BLUE ha molto a che fare con l'arcinoto filone statunitense (e casomai hongkongese) del serial killer solitario (magari informatizzato), del quale riprende un gran numero di stereotipi, spesso limitandosi a rilanciarli in chiave ed ambientazione romagnola.
Con le sole buone intenzioni, quindi, non si fa un buon film; ma certo si può aprire una strada. Siamo convinti che non serva a nulla stroncare di brutto un film come questo, impedendo magari all'autore o inibendo altri a proseguire lungo una via non certo comune - e dunque facile - dalle parti di casa nostra. Una via che, come dicevamo, è parente stretta del cinema di genere: questo, però, non significa nulla, perché niente impedisce che da qui possa nascere qualcosa di nuovo (basti pensare - per carità, fatte le dovute differenze - a quanto successo in Francia qualche decennio fa). Meglio forse un robusto cinema di genere (non solo commedia però…) o ad esso parente, che qualcosa di informe, senza identità, se non in difetto o a sprazzi.
Però le buone intenzioni ci sono, si vedono e servono comunque: Infascelli tenta una cosa sulla carta davvero interessante: costruire un film alternando alle comuni inquadrature narrative lo sguardo, in soggettiva, non di uno ma di tutti e tre i personaggi principali: il killer Alessio Crotti, l'ispettrice di polizia Grazia Negro (Lorenza Indovina, che ricordavamo solo in LA FAME E LA SETE, è certo un'attrice da rilanciare) e del ragazzo cieco, Simone Martini. La soggettiva di Grazia è piuttosto comune, per quanto a volte mossa; mentre già per l'assassino già le cose cambiano. Costui, per ragioni che non staremo qui a spiegare, vive ossessionato da un hard rock che ascolta in cuffia sempre ad altissimo volume, il che gli permette di estraniarsi dal mondo circostante, e lo aiuta nel compiere la propria missione: ecco le origini di una soggettiva non esclusivamente visiva ma anche acustica, in cui il controcampo audio è coperto da questo delirio musicale, che segna ancora di più la volontà di Crotti di coprire di sé le proprie vittime. E poi c'è Simone Martini: lui vede le voci, le traduce in colori, riconosce così l'assassino e intuisce un feeling con Grazia, la cui voce, per Simone - e sullo schermo - è sensibile in forma di macchie di colore quasi blu. Quel blu che è poi, naturalmente, anche il colore dominante di tutto il film, e questo anche in sede di direzione della fotografia: la maggior parte delle tonalità è infatti quasi di continuo virata al blu, piuttosto che al nero o al grigio.
Per il resto, come dicevamo, non c'è molto, al di là forse del personaggio di Grazia, donna poliziotto in parte vicina alla Frances McDormand di FARGO, impacciata nella sua femminilità e timorosa nel ribadire l'autorità che la sua posizione le garantirebbe. Crotti, invece, non ha un'identità sua per cui, come una sorta di Zelig dell'omicidio seriale, vorrebbe assumere quella degli altri, ma tale aberrante desiderio non trasmette, sullo schermo, alcuna emozione, se non dovuta all'indubbio - ma sperso - talento per l'immagine ad effetto dimostrato da Infascelli. E poi, ma qui finiamo, che bisogno c'era - viste le premesse e quando invece a mancare è piuttosto la capacità di preparare la sequenza che segue - di ricorrere ad un montaggio esplicativo per cui l'immagine b chiarisce la a, già comprensibile di suo (la classica iconografia di San Sebastiano per spiegare una messa in scena di un omicidio che non poteva che ricordarla, o altre cose simili…). Altro che Ejzenstejn e senso di secondo grado!
Peccato, ma attendiamo fiduciosi.

Voto: 24/30

Andrea DE CANDIDO
17 - 08 - 01


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