ADANGGAMAN
di Roger Gnoan M'Bala
con Rasmane Ouedraogo, Albertine N'Guessan e Ziablé Honoré Goore Bi



Esistono poche realtà produttive in ambito cinematografico dotate di un chiaro progetto culturale e una di queste è senza dubbio FABRICA CINEMA, appendice della factory veneta di Gilberto Benetton, che da sempre raccoglie, nelle varie sezioni tematiche, tecnici e creativi di altissimo livello.
Marco Muller, il più illuminato tra i direttori di festival degli ultimi vent'anni [ ha attraversato, sempre lasciando il segno, gli anni d'oro di Pesaro, Torino, Berlino, Rotterdam e ha appena lasciato Locarno, che nelle sue mani ha conquistato attenzione mondiale ], è a capo di Fabrica Cinema, cui ha inteso conferire una vocazione "terzomondista" assolutamente coerente con l'idea di dar voce a contesti solo materialmente marginali, ma creativamente e culturalmente vitalissimi, attorno alla quale aveva costruito, appunto, la fortuna del festival svizzero, capace, negli ultimi dieci anni, di aprire la strada al cinema del lontano Oriente.
Dopo il bel DICIASSETTE ANNI di Zhang Yang, premiato lo scorso anno al Lido, Muller si presenta con due opere di notevole interesse: IL CERCHIO e, appunto, ADANGGAMAN, dell' ivoriano Roger M'bala, già premiato a Locarno nel 1993 per il suo AU NOM DU CHRIST.
Con leggerezza, il regista sceglie di raccontare episodi di violenza risalenti alla vita di un villaggio africano del XVII secolo ricorrendo al tono notturno e sognante di una fiaba senza tempo, che, in quanto tale, lancia il suo messaggio fino ai nostri giorni, senza peraltro essere consolatorio.
Ossei, figlio di un autoritario capo del villaggio N'Go, non accetta le imposizioni paterne e, invece della ricca Ehua, desidera sposare la donna che ama, Mawa, cui poi si unisce all'insaputa della famiglia, attirando su di sè le ire del genitore.
Ossei deve fuggire, lasciando il villaggio proprio nel momento in cui il tiranno schiavista Adanggaman lo attacca per fare razzia di giovani donne, poi usate come amazzoni-guerriere.
Nell' assalto, perdono la vita padre e moglie di Ossei, mentre la madre è fatta prigioniera.
Al ritorno, trova solo morte e distruzione: immediatamente dopo si mette alla ricerca della madre, che nel frattempo fronteggia con coraggio la condizione di schiava, tenendo testa al suo aguzzino.
Il film non offre, come non deve, soluzioni stilistiche ricercate e, al limite, pecca di un certo schematismo nella contrapposizione -peraltro mai così chiara e richiesta!- di bene e male, così come sceglie ambientazioni in paesaggi africani un po' troppo stilizzati, ma in questo modo si concentra sulla finalità enunciativa, quasi da "manifesto" politico-culturale, che deve essere lo scopo principale dell'intera operazione.
Lo sviluppo degli eventi vede Ossei rapito dalle amazzoni, tra le quali si nasconde, peraltro, un animo puro: la donna che lo aiuterà e che nel film incarna l'esempio della possibilità sempre esistente del dialogo tra contesti belligeranti e il monito a non sottomettersi passivamente all'uso della violenza, che, purtroppo, a tutt'oggi è caratteristica di alcune lotte intestine tra etnie africane di ceppo diverso.


Voto: 27/30

Gabriele FRANCIONI
05 - 10 - 00


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