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Come enuncia l'ingenuo titolo inglese, FAT GIRL racconta
la storia di un'adolescente sovrappeso in vacanza con la sua famiglia. Il
titolo francese è chiaramente più interessante in quanto introduce
subito un rapporto, quello fra due sorelle: Anais ha dodici anni e sua sorella
Elena quindici, ma questa è sicuramente la differenza minore fra
le due ragazze; la prima, infatti, è serrata in un corpo grasso,
poco attraente, ingombrante; sta sempre mangiucchiando qualcosa, a morsi
lenti e regolari, perché quando mastica non pensa ad altro… Non pensa
ai ragazzi che non avrà mai, ai genitori severi e distanti, alla
sorella che, pur essendo la creatura al mondo che dovrebbe esserle più
simile, in realtà non le assomiglia per niente. Elena ha quella bellezza
da donna-bambina che stordisce nella sua grazia e semplicità: capelli
lunghi e lucenti, un visino dolce e malizioso, un corpo perfetto. Quei tratti
fusi in una delicata armonia di movimenti che facevano di Liv Tayler la
creatura quasi angelica di IO BALLO DA SOLA. Una bellezza, possibile solo
nell'adolescenza, che dovrebbe essere venerata e protetta, ma la vita ne
fa oggetto di mille sguardi (consapevoli e contraccambiati) volti ad un
unico fine: possedere, toccare, sfruttare, usare. Ovvero lo scopo di ogni
ragazzo "normale", giovane, che ha bisogno di sfogarsi e soddisfare
i richiami ormonali; questa figura è incarnata da Fernando, il latin-lover
che riesce a far breccia nel cuore di Elena e che la trascina in una serie
di avventure sessuali sotto gli occhi di Anais ( la casa è piccola,
le due sorelle devono dormire insieme, basterebbe che la piccola si girasse
dall'altra parte…). Le due sorelle fanno una vita molto diversa eppure,
sotto sotto, condividono un dolore inevitabile : il confronto con il mondo,
un mondo sordo ed aggressivo, indifferente ai sentimenti, ai sogni, all'innocenza.
La violenza quotidiana attraverso cui passa il percorso di crescita genera
mostruose paure: l'odio verso un corpo brutto, disprezzato, oppure troppo
bello, desiderato, smembrato, separato dall'anima. Anais e Elena, due volti
dell'adolescenza, due prodotti della spietata logica dell'immagine che porterà
la prima alla bulemia e la seconda alla frigidità. Eppure quello
che accade sullo schermo ci è famigliare, non sembra nulla di particolarmente
tragico, "problemi di ragazzi" , storie quotidiane di una famigliola
borghese in vacanza al mare, con il primo amore di Elena ed i soliti litigi
fra sorelle. Un pubblico non troppo sensibile, che ha rimosso i fantasmi
dell'adolescenza, rimarrà scioccato solo dal finale, un colpo di
scena improvviso, che vira radicalmente rispetto al tono generale del film
(e chi non vuole rovinarsi la sorpresa non legga le righe seguenti): durante
una pausa nel viaggio di ritorno, un pazzo fracassa il cranio di Elena,
strangola la madre delle ragazze e violenta Anais. Una scena velocissima,
una violenza nei confronti dello spettatore se accettiamo la regola d'oro
di Hitchcock, secondo cui il protagonista è coperto da un manto d'invulnerabilità
che permette di identificarsi in lui senza paura di soffrirne la perdita.
Ed in effetti, ad una lettura superficiale, la "protagonista"
del film sembra proprio Elena, perché è l'unica che agisce,
è l'unica che vive delle avventure e dei cambiamenti che hanno un
peso enorme nella realtà stilizzata di una quindicenne, ma decisamente
meno nel bilancio di un adulto. Eppure la vera violenza arriva già
molto prima del finale, l'assassinio è solo la materializzazione
dei desideri di Anais: sbarazzarsi di una sorella vincente e di una madre
repressiva per cominciare a vivere la sua vita, a modo suo. Una desiderio
che, considerando gli ultimi episodi di violenza tra consanguinei (Erika
e co.) non si distacca poi molto dalla realtà. La vera violenza è
nello sguardo selvatico, carico d'odio di una dodicenne molto intelligente,
troppo intelligente, perfettamente cosciente della realtà del mondo
e dell'amore, ma pur sempre una ragazzina che bacia gli oggetti fingendo
che siano dei fidanzatini. La vera violenza sta nella morbosità a
cui ti spingono gli adulti, morti viventi che massacrano le speranze di
chi è ancora capace a sognare. A MA SOEUR si chiude proprio con lo sguardo in macchina di Anais, uno sguardo fortissimo, crudele, inappellabile: la ragazza è appena stata recuperata nel bosco dalla polizia e nega di essere stata violentata. C'è una sorta di fascinazione, di dipendenza nei confronti del carnefice, ma, in questo caso Anais si sente ancora più legata all'assassino poiché sono entrambi due reietti, due esclusi; lo strano legame che li unisce ha portato l'uomo a scegliere il corpo di Anais, snobbando la bellissima sorella; Anais è anche l'unica superstite e rielabora lo stupro come un incontro d'amore, l'incontro che ha vissuto attraverso gli occhi di Elena e che altrimenti non avrebbe mai potuto vivere in prima persona. Il titolo francese, allora, si può anche interpretare come la sprezzante dedica di Anais nei confronti della sorella morta o forse come un episodio autobiografico della Breillat che nella scena dell'omicidio, peraltro, si è ispirata ad un fatto di cronaca. Dopo ROMANCE Catherine, una delle poche donne che è riuscita a farsi notare come regista, continua a sondare gli aspetti più nascosti della sessualità, e della femminilità, affermando che "si tratta di un argomento che ci condiziona profondamente e di cui continuiamo ad avere paura". L'immagine da cui è partita, le cosiddette ossa che biancheggiano al sole, è quella di una ragazzina in piscina, un'adolescente a cui non è ancora cresciuto il seno, che aveva uno sguardo incredibilmente intenso ed aggressivo. La tredicenne che interpreta questo ruolo si chiama proprio Anais, Anais Reboux e forse è così convincente proprio perché sta vivendo il cuore dell'adolescenza. Per le scene più difficili la Breillat si è preoccupata di non forzare eccessivamente la sensibilità delle sue giovani attrici, ma alle critiche risponde: "No m'interessano i film digestivi e ricreativi, ma quelli perturbanti ed ambigui perché la vita è così". |
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Elena
SAN PIETRO |
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E si`
che partivo prevenuto: l'unico altro film che avessi mai visto della Breillat
era l'indecente ROMANCE. Indecente non per quel paio di organi sessuali
in vista, ma per la pochezza dell'idea e dello sviluppo. Qui siamo invece
di fronte a un film assolutamente dignitoso. |
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Claudio
CASTELLINI |
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