PESARO 2003 – Una sintetica
introduzione al programma
Era una sfida impegnativa ma pensiamo di averla vinta: cercare di mostrare
qualcosa di nuovo e di diverso dentro una cinematografia potente come quella
transalpina, che non ha certo bisogno di essere scoperta o riscoperta.
Perché, al di là di futili polemiche giornalistiche, l’estrema vitalità del
cinema francese rappresenta per noi un dato evidente, anche e soprattutto -
come vorremo dimostrare in questa 39a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
- oltre le proposte mainstream o le certezze autoriali più assodate e
conosciute all’estero. Non si tratta comunque di una vitalità frutto di un
sistema produttivo che, malgrado crisi cicliche o burrasche passeggere, si è
affermato per quantità e importanza specifica come il maggiore d’Europa. Il
giovane cinema francese contemporaneo rappresenta un fenomeno complesso e
polimorfo che merita ben di più dello sguardo che la nostra selezione potrà
illuminare. Si tratta, infatti, di un vasto “arcipelago” di proposte del
quale proseguiamo l’esplorazione, e che abbiamo sussunto sotto il termine un
po’ sfuggente di “cinema indipendente”. Ma al di là delle ambiguità o
sottigliezze terminologiche, una cosa ci è chiara: il paesaggio francese –
dal film di finzione a low budget al documentario, a tutto il variegato
spettro delle esperienze d’avanguardia – è più che mai in fermento. L’idea
che ci ha guidati nella selezione è stata proprio di mostrare l’emergenza di
una nuova generazione di cineasti a partire dal territorio della fiction ma
anche dell’altrettanto interessante fenomeno della non-fiction, di cui lo
strepitoso successo internazionale di Être et avoir (Essere e avere) di
Nicolas Philibert ha rappresentato la punta di un iceberg. Parallelamente
alla selezione consacrata ai nuovi filmmaker (Philippe Ramos, Marina de Van,
i fratelli Larrieu, Darielle Tillon, Eve Heinrich, Chrisophe Loizillion,
Mathieu Almaric, Jean-Henry Roger, ecc.) e ai documentaristi (Claire Simon,
Denis Gheerbrant, Richard Copans, Patric Jean e il “veterano” Raymond
Depardon), proponiamo una ricognizione in profondità del cinema
sperimentale. Con la collaborazione di alcune cooperative di cineasti (come
l’atelier parigino “Etna”, il collectif “Jeune Cinema” e il gruppo “Light
Cone”) una panoramica di oltre cinquanta opere dell’ultimo quinquennio
costituisce la prima grande occasione italiana per conoscere ed apprezzare
il rinascimento della produzione “underground” (e dell’idea stessa di
sperimentazione cinematografica) in Francia. Un’attenzione particolare sarà
dedicata al lavoro delle filmmaker Cécile Fontaine e Joanna Vaude, ma il
vasto programma abbraccia anche lavori in pellicola e video, tra l’altro, di
Maria Klonaris & Katherina Thomadaki, Pip Chodorov, Martine Roussete,
Christian Lebrat (che proporrà una performance dal vivo con proiezione su
doppio schermo appositamente creata per il Festival) e del grande veterano
del lettrismo Maurice Lemaître. A completare la parte francese, proponiamo
infine una ricca selezione di opere degli studenti della scuola di cinema
“Le Fresnoy” diretta da Alain Fleischer (a cui il festival ha dedicato nella
scorsa edizione una retrospettiva) di cui presenteremo non solo i lavori dei
suoi giovani allievi, francesi e non, ma anche il lavoro realizzato in loco
da cineasti affermati come Tsai Ming-liang.
A tre autori molto diversi, ma nel cui lavoro il Festival si rispecchia
pienamente, la Mostra del Nuovo Cinema dedica tre retrospettive complete.
Sulla figura di John Sayles poco bisogna aggiungere, dato che da sempre
viene unanimemente considerato uno dei massimi esponenti del cinema
americano indipendente. Regista versatile, sceneggiatore raffinato e
scrittore di profonda sensibilità politica, il cineasta newyorkese è passato
dagli esordi “minimalisti” di Return of the Secaucus 7 e Lianna ai grandi
affreschi di Matewan e City of Hope, fino ai più recenti Lone Star, Limbo e
Sunshine State, alternando, senza compromessi di sorta, collaborazioni con i
grandi Studios a opere anti-spettacolari e a low budget. A differenza di
molti indipendenti più noti e celebrati dalla critica europea, i suoi film
hanno come centro d’interesse gli uomini e le donne nel reticolo dei
rapporti sociali e personali delle loro comunità, e sono contraddistinti da
un’ironia, da un afflato civile e da uno spirito “indi” che lo rendono una
figura assolutamente unica nel panorama del cinema e della cultura del suo
paese.
Con l’omaggio a José Luis Guerín chiudiamo una ricognizione che l’anno
scorso ci ha portato dentro le cinematografie della penisola iberica.
Appositamente aveva escluso dalla selezione, come già si accennava nel
Catalogo del 2002, il regista catalano, perché a lui volevamo dedicare un
“focus on”. Un pugno di film realizzati in vent’anni (Los motivos de Berta,
1983; Innisfree, 1990; Tren de sombras, 1997 e il più recente En
construcción, in uscita anche nel nostro paese) hanno rivelato a livello
internazionale un grande cineasta attento soprattutto all’aspetto
sperimentale e documentario dello spettacolo cinematografico.
Premio Oscar nel 1982 per Tango, il polacco Zbigniew Rybczynski è uno dei
massimi sperimentatori della storia del cinema e del video. Formatosi
all’Accademia di Belle Arti di Varsavia, Zbig (questo il suo pseudonimo) ha
lavorato, tra l’altro, nel campo del videoclip per numerosi gruppi e
rockstar – da citare almeno Imagine (1987), suo primo lavoro in alta
definizione analogica. L’omaggio a Rybczynski, il primo completo a lui
dedicato, si articola in diversi programmi di film in pellicola, video e
videoclip, che rivelano un artista visuale di prima grandezza che di
continuo riflette sui problemi metafisici del medium, legati alla spazialità
prospettiva e alla simultaneità temporale.
Un cenno finale, infine, alle proposte non retrospettive della sala grande e
della selezione video, che sta acquisendo una sempre maggiore rilevanza ed
interesse, e il cui pezzo forte, in un ricco programma di proposte, è
rappresentato da un’ampia ricognizione dei performer cine-video-teatrali
Flavia Mastrella e Antonio Rezza. Tra gli “Eventi speciali”, oltre al
repechage di Rape (1969), un’opera semisconosciuta di Yoko Ono e John
Lennon, in occasione dei settant’anni dell’artista giapponese, vorremmo
segnalare il bel documentario di J. B. de Andrade, Wilsinho Galilea, nel
1979 vietato dalla censura militare brasiliana ed oggi ricostruito, e il
film di SHINOZAKI Makoto, Asakusa Kid, in cui si racconta la giovinezza di
KITANO Takeshi. Con le ultime opere di Romuald Karmakar, Joe Rosenblatt e
Stephen Dwoskin continuiamo, invece, a documentare l’attività (in video) di
registi che Pesaro ha seguito in modo sistematico. All’attenzione critica
della giuria di “Cinema avvenire” si sottopone la sezione “60’ (più o meno)”
dove, come di consueto, abbiamo accorpato tutta una serie di piccole ma
significative opere “fuori formato” della più recente produzione
internazionale, dai nordamericani Guy Maddin, Pat O’Neill, Mike Hoolboom, al
russo Yevgenij Yefit o all’austriaca Bady Minck. Una piccola novità è
costituita invece dal Premio Kodak, che premierà il migliore tra una
ristretta e severa selezione di cortometraggi italiani in pellicola.
L’uscita all’aperto del Festival nella piazza centrale di Pesaro è, infine,
diventata una consuetudine della nostra manifestazione, che si concluderà
con la doppia premiazione pubblica di Ermanno Olmi (protagonista dell’Evento
speciale consacrato appunto all’opera completa di questo grande cineasta
italiano) e di John Sayles. Le proiezioni Open Air di quest’anno (a cui il
pubblico conferirà, come l’anno scorso, un suo premio di gradimento)
spazieranno, come mai nel passato, per generi e paesi vari: dall’epico Whale
Rider della neozelandese Niki Caro al francese Depuis qu’Otar est parti di
Julie Bertuccelli (premiato al recente festival di Cannes), dalla commedia
poliziettesca Kopps di Josef Fares (già nostro ospite nel 2001 con il
travolgente Jalla! Jalla!) ad un tragico ricordo della dittatura militare in
Argentina, Kamchatka di Marcelo Piñeiro. E poi la “prima” mondiale del
tagico L’angelo della spalla destra di Djamshed Usmonov, rimontato rispetto
alla versione provvisoria vista a Cannes 2002 ed infine il ritorno dietro la
macchina da presa di Marc Recha in Le mains vides, un film nato da un
incontro con Edoardo Noriega avvenuto proprio al nostro Festival la passata
edizione. Pensiamo che ce ne sia abbastanza per tutti gli amanti del cinema.
Giovanni Spagnoletti
Cinema in piazza
Otto proiezioni serali a “cielo aperto” nella piazza principale di Pesaro. I
film saranno in anteprima nazionale e coniugheranno la qualità, secondo la
tradizione pesarese, con la capacità di rivolgersi ad un vasto pubblico.
Dopo il successo della scorsa edizione continuerà il coinvolgimento degli
spettatori che premieranno il miglior film.
Il Cinema Francese Contemporaneo
La retrospettiva, in collaborazione con l’Ambasciata di Francia e con Agence
du Cinéma Indépendant pour sa Diffusion (Acid), di circa 20 lungometraggi,
sarà focalizzata sulle produzioni francesi che in Italia non arrivano sui
grandi schermi e sul nuovo documentario transalpino (in collaborazione con
il canale satellitare Planete), che di recente ha conosciuto il successo
anche nelle sale. Sarà quindi l’occasione per effettuare una panoramica
ravvicinata sul cinema francese meno conosciuto e sui giovani autori
emergenti.
Parallelamente ci sarà una vasta ricognizione del cinema “ underground ” e
sperimentale in Francia. Con la collaborazione di alcune cooperative di
cineasti (come l’atelier parigino “ Etna ”, il Collectif “ Jeune Cinema ” e
il gruppo “ Light Cone ”) verranno proiettate circa 40 opere (soprattutto
corto e mediometraggi). A completare il vasto programma sul nuovo cinema
francese, sarà un’ampia selezione di opere prodotte allo studio “ Le Fresnoy
” che comprende il lavoro di nuovi talenti ma anche di cineasti affermati
come Tsai Ming-liang.
Un volume di documentazione accompagnerà la retrospettiva.
Omaggi e retrospettive: John Sayles, José Luis Guerín, Zbigniew Rybczynski
Allo scrittore, sceneggiatore e cineasta John Sayles, considerato uno dei
massimi esponenti del cinema americano indipendente, verrà dedicata una
retrospettiva completa che presenterà titoli come Lianna-Un amore diverso,
Fratello di un altro pianeta, Limbo, Stella solitaria, Angeli armati…. A
questo straordinario filmmaker, collaboratore per anni di Roger Corman,
verrà dedicato un volume monografico edito da Lindau.
Un altro “omaggio”, in collaborazione con l’Instituto Cervantes, sarà
riservato a José Luis Guerín, uno dei cineasti spagnoli contemporanei più
interessanti. Le sue opere (“Los motivos de Berta”, “Innisfree”, “Tren de
sombras”, “En construccion”) hanno rivelato una personalità attenta alle
forme sperimentali e documentarie del cinema.
Anche Zbigniew Rybczynski, uno dei massimi sperimentatori di cinema e video
nonché vincitore nel 1982 del Premio Oscar con “Tango”, sarà uno dei
protagonisti della Manifestazione attraverso una retrospettiva completa
delle sue opere.
Tutti e tre gli autori saranno presenti nei giorni del Festival.
Proposte video: Flavia Mastrella/Antonio Rezza
All’interno della sezione verrà proposto un ampio omaggio alla produzione
video e cinematografica di Flavia Mastrella e Antonio Rezza, la più
interessante coppia di “filmaker”, nonché “performer”, italiana. La
retrospettiva sarà completata da inediti e da uno spettacolo dal vivo degli
autori.
17° Evento Speciale: Ermanno Olmi
Il 17esimo Evento Speciale, in collaborazione con la Fondazione Scuola
Nazionale di Cinema-Cineteca Nazionale, a cura di Adriano Aprà, sarà un
omaggio al maestro Ermanno Olmi e all’unicità del suo sguardo. A Pesaro,
saranno riproposti tutti i suoi film e i suoi documentari (in collaborazione
con RAI Teche), per un viaggio attraverso quarant’anni di storia del cinema
italiano. Una tavola rotonda, con il regista, i suoi attori e collaboratori
ed un volume monografico (Marsilio editore) aiuteranno ad analizzare i
tratti distintivi della poetica di Olmi.
PRESENZE A PESARO
(aggiornata al 5 giugno 2003)
OMAGGI E RETROSPETTIVE
Jose Luis Guerin 21-28 giugno
John Sayles + Maggie Renzi 24-29
Zbigniew Rybczynski 25-29
Flavia Mastrella e Antonio Rezza 25-29
Ermanno Olmi 27-28
AUTORI DELLE ALTRE SEZIONI
Anne-Sophie Brabant
Pip Chodorov 21-25
Richard Copans 23-25
Sarah Darmon 21-25
Cecile Fontaine 22-24
Pierre Gerbaux
Patric Jean
Christian Lebrat 20-25
Christophe Loizillon 21-23
Bady Minck
Philippe Ramos 21-24
Marc Recha
Jean-Henri Roger 28-29
Darielle Tillion
Claire Simon
Johanna Vaude 22-25
PROGRAMMA TEATRO SPERIMENTALE E PIAZZA DEL POPOLO
21 S 22 D 23 L 24 M 25 ME 26 G 27 V 28 S 29 D
9,30 Francia Doc: Le voyage à la mer,di Denis Gheerbrant, Francia, 2001, 84’
FranciaSperimentale I75’ (10,00) FranciaLe Fresnoy III° 85’ Retrospettiva
John SaylesThe Secret of Roan Inish, USA, 1994, 103’ Retrospettiva
Rybczynski 3112’ Retrospettiva Rybczynski 4110’ Retrospettiva John
SaylesPassion Fish, USA, 1992, 134’ Retrospettiva John Sayles Limbo, USA,
1999, 126’
11.30 (11, 00) FranciaLe Fresnoy 1, 95’ introduzione di Alain Flescher (11,
00) Francia fictionLa brèche de RolandDi J-M e A. Larrieu, Francia, 2002,
45’(11,45)Francia Doc:800 km de difference di Claire Simon, Francia, 74’
KortoKodak 160 + o – Letter From a Yellow Cherry Blossom, diKawase Naomi,
Giappone, 2002, 65’ Kortokodak 2Retrospettiva José Luis GuerinTren de
sombras, Spagna, 1996, 80’ Francia DocProfils paysan : l’approche, di
Raymond Depardon, Francia, 2001, 88’ Kortokodak 4Francia fictionLe stade de
Wimbledon,di Matthieu Amalric, Francia, 2001, 70’ (11,40)Evento
specialeRape, di Yoko Ono/John Lennon, Austria, 1969, 77’ (11.45)60 + o –
Dracula di G. Maddin, Canada, 2002, 75’, (Replica)
15,00 Francia fictionMarie et le loup,di Eve Heinrich, Francia, 2003,95’
Evento specialeAsakusa Kid, di Shinozaki Makoto, Giappone, 2002, 111’
Retrospettiva John Sayles Baby It’s You, USA, 1983, 105’ Retrospettiva José
Luis GuerinLos motivos de Berta, Spagna, 1984, 115’ 60 + o –The Decay of
Fiction, di Pat O’Neill, USA, 2002, 74’(16,15) Francia fiction A la vitesse
d’un cheval au galop, di Darielle Tillon, Francia, 2002, 45’ Retrospettiva
John SaylesMatewan, USA, 1987, 132’ Retrospettiva John Sayles Men With Guns,
USA, 1997, 127’ Evento speciale : Wilsinho Galilea diJ. B. de
Andrade,Brasile 1979/2003, 65’(16,15) 60 + o –Am Anfang war der Blick, di
Bady Minck, Austria, 2003, 45‘
17,00 Retrospettiva John SaylesReturn of the Secaucus 7, USA, 1980, 110’
Francia fictionAdieu Pays di Philippe Ramos, Francia, 2003, 85’ Francia
DocRacines di Richard Copans, Francia, 2003,99’ (video) FranciaSperimentale
II°104’ presentazione (17,15)Retrospettiva José Luis GuerinEn construcciòn,
Spagna, 2000, 125’ Rybczynski 2 (The best of)107’ (17,15)Samp 30’ +Incontro
con Mastrella/Rezza Retrospettiva John Sayles Sunshine State, USA, 2002,
141’
18,45 Francia fictionMa caméra et moi, di C. Loizillion, Francia, 2002, 80’
(18, 30) Francia Doc La raison du plus fort, di Patric Jean,
Francia/Belgio,2003, 84’ 60 + o –Dracula-Pages From a Virgin’s Diary, di Guy
Maddin, Canada, 2002, 75’) 60 + o –Imitations of Life, di Mike Hoolboom,
Canada, 2003, 75’ (A seguire)Incontro con José Luis Guerín (A
seguire)Incontro con ZbigniewRybczynski Francia fictionLulu, di Jean-Henry
Roger,Francia, 2001, 86’ Incontro con John Sayles
21,30 Retrospettiva John Sayles Lianna, USA, 1983, 110’ Retrospettiva John
Sayles City of Hope, USA, 1991, 129’ RetrospettivaJohn Sayles The Brother
From Another Planet, USA, 1984, 110’ Retrospettiva José Luis Guerín
Innisfree, Spagna, 1990, 110’ Retrospettiva John Sayles Eight Men Out, USA,
1988, 119’ Mastrella/RezzaSpettacolo dal vivo Evento speciale
(Replica)Asakusa Kid, di Shinozaki Makoto, Giappone, 2002 111’ Francia
fiction (Replica)A la vitesse d’un cheval au galop, di Darielle Tillon,
Francia, 2002, 45’ Le stade de Wimbledon,di M. Amalric, Francia, 2001, 70’
23,30 FranciaLe Fresnoy II 92’ (23,45)FranciaSperimentale IV + performance
dal vivo di Christian Lebrat FranciaSperimentale III°86’ Retrospettiva
Rybczynski 1° (in pellicola)92’ Kortokodak 360 + o –Killed by Lightning, di
Yevgeniy Yefit, Russia, 2002, 65’. Francia fictionDans ma peau di Marina De
Van, Francia, 2002, 93’ Kortokodak 5Mastrella/RezzaDelitto sul Po,
Italia,2002, 71’ Francia (Replica)Marie et le loup,di Eve Heinrich, Francia,
2003,95’
Piazza21,45 Whale Rider Di Niki Caro, Nuova Zelanda, 105’ Le jardin des
mauvais garçon, 12’Depuis qu’Otar est parti, di Julie Bertuccelli, Francia,
2003, 100’ L’Angelo della spalla destra Di Djamshed Usmonov ,
Italia/Tajikistan, 2002, 89’ Kamchatka Di Marcelo Piñeyro, Spagna, 2002,
107’ LLes mains vides, di Marc Recha, Spagna/Francia, 2003, 130’ Kops Di
Josef Fares, Svezia/Danimarca, 2002, 90’ Il mestiere delle armiDi Ermanno
Olmi, Italia, 2001, 109’ Lone Star Di John Sayles, USA, 1996, 135’
PROGRAMMA CINEMA ASTRA – EVENTO SPECIALE ERMANNO OLMI
21 S 22 D 23 L 24 M 25 M 26 G 27 V 28 S
9,30 Genesi: la Creazione e il Diluvio, Italia, 1994, 96’ 700 anni, Italia,
1963, 44’Dopo secoli, Italia, 1964, 23’Regista in vacanza, Italia, 1967,
8’Ritorno al paese, Italia, 1967, 10’ Michelino I B, Italia, 1956, 44’Il
pensionato, Italia, 1958, 10’Personaggi fortemente sospettabili, Italia,
1983, 11’ Milano 83, Italia, 1983, 65’Sopra le 7 ultime Parole del nostro
Redentore in croce, Italia, 1985, 47’ Milano, Italia, 1990, 7’Le radici
della libertà, Italia, 1972, 55’Nascita di una formazione partigiana,
Italia, 1973, 62’ Mille anni, Italia, 1995, 22’Artigiani veneti, Italia,
1986, 82’ Una terra di recuperanti: E Olmi parla con M. Rigoni Stern, di
Mirco melanco, Italia, 1996-2003, 25’ (10,00)Tavola rotonda con Ermanno Olmi
11.00 (10,45)Durante l’estate, Italia, 1971, 102’ Giovani, Italia, 29’La
fatica di leggere, Italia, 1970, 27’In nome del popolo italiano, Italia,
1971, 46’ (10,45)Alcide De Gasperi (I punt.), Italia, 1974, 70’
(11,30)Alcide De Gasperi (II punt.), Italia, 1974, 73’ (11,45)Alcide De
Gasperi(III punt.), Italia, 1974, 67’ (11,30)Lungo il fiume, Italia, 1992,
78’
15,30 Programma cortometraggi 1 (vedere calendario) E venne un uomo, Italia,
1965, 95’ Racconti di giovani amori, Italia, 1967, 105’ Il segreto del bosco
vecchio, Italia, 1993, 127’ La circostanza, Italia, 1973, 100’ Apocalypsis
cum figuris, Italia, 1979, 62’ Il tempo si è fermato, Italia, 1959,
89’(Replica) I recuperanti, Italia, 1970, 98’(Replica)
17,00 Il posto, Italia, 1961, 97’ (17,15)Un certo giorno, Italia, 1968, 102’
(17,30)I recuperanti, Italia, 1970, 98’ (17,45)Programma cortometraggi 2
(17,15)Lunga vita alla Signora !, Italia, 1987, 105’ (16,40)Selezione
cortometraggi(17,45)Un certo giorno, Italia, 1968, 102’ (17,15)Durante
l’estate, Italia, 1971, 102’ (17,30)Effetto Olmi: appunti su
“Camminacammina”, di Mario Brenta, Italia, 1983, 63’
21,00 L’albero degli zoccoli, Italia, 1978, 193’ Il tempo si è fermato,
Italia, 1959, 89’ Cammina cammina, Italia, 1983, 175’ La leggenda del Santo
Bevitore, Italia, 1988, 127’ L’albero degli zoccoli, Italia, 1978, 193’
Cammina cammina, Italia, 1983, 175’(Replica) Racconti di giovani amori,
Italia, 1967, 105’ Il posto, Italia, 1961, 97’(Replica)
23,30 La circostanza, Italia, 1973, 100’ (23,15)I fidanzati, Italia, 1963,
77’ (23,00)I fidanzati, Italia, 1963, 77’(Replica) (23,00)E venne un uomo,
Italia, 1965, 95’(replica)
PROGRAMMA SALA VIDEO
21 S 22 D 23 L 24 M 25 M 26 G 27 V 28 S
10.00 OmaggioMastrella-Rezza 196’ DocumentandoProgramma 3100’ Nuove Proposte
VideoProgramma 3 OmaggioMastrella-Rezza 298’ DocumentandoProgramma 2103’
DocumentandoProgramma 4Gleb52’(rip.) Retrospettiva RybczynskiVideo(rip.)103’
11.,45 Evento specialeRomuald KarmakarJay Rosenblatt77’ Evento
specialeStephen Dwoskin77’ Continua+Incontro DocumentandoProgramma 173’
Evento specialeStephen Dwoskin77’(rip.) DocumentandoProgramma
173’(rip.)+incontri Evento specialeRomuald KarmakarJay Rosenblatt77’(rip.)
15,00 France ExperimentalVideo93’ DocumentandoProgramma 4107’ Retrospettiva
RybczynskiVideo103’ France ExperimentalVideo(rip.)93’ OmaggioMastrella-Rezza
2(rip.) 98’ L’attimo fuggente120’ DocumentandoProgramma 2103’ (rip.)
17,00 RetrospettivaMastrella-RezzaTroppolitani. Speciale Metropolitana29’
RetrospettivaMastrella-RezzaTroppolitani. Speciale Cimitero29’+Speciale
Francese5’ RetrospettivaMastrella-RezzaTroppolitani. Speciale Stazione29’
RetrospettivaMastrella-RezzaTroppolitani. Speciale Footing29’
RetrospettivaMastrella-RezzaTroppolitani. Speciale Collocamento29’
RetrospettivaMastrella-RezzaTroppolitani. Speciale Capannelle Lazio e
Famiglia29’ DocumentandoProgramma 4Antony Dawson. Il cinema di Antonio
Margheriti55’(rip.) RetrospettivaMastrella-RezzaTroppolitani. Speciale
Psicofarmaco29’
17,30 Nuove proposteProgramma 174’+ incontri Nuove proposteProgramma 270’+
incontri France ExperimentalSuper896’ OmaggioMastrella-Rezza 1(rip.)96’
DocumentandoProgramma 3100’(rip.) Video belle artivideo lems60’
circa+incontri (Ore 18,00)Nuove proposteProgramma 1(rip.)73’+incontri Nuove
proposteProgramma 2(rip.)70’+incontri
PROGRAMMA TEATRO SPERIMENTALE
SABATO 21 GIUGNO
(15,00)
Francia fiction
Marie et le loup, di Eve Heinrich, Francia, 2003, 95’
(17,00)
Retrospettiva John Sayles
Return of the Secaucus 7, USA, 1980, 110’
(18,45)
Francia fiction
Ma caméra et moi, di Crisophe Loizillion, Francia, 2002, 80’
(21,30)
Retrospettiva John Sayles
Lianna, USA, 1983, 110’
(23,30)
Francia - Le Fresnoy II
Je te veux, di Alice Sfirtesco, Francia, 2001, 7’
Les siderantes ,di Christine Baudillon, Francia, 1999, 26’
Dernières visites avant travaux, di Marlene Rabaut, Francia, 2002, 20’
Elle est face, di Céline Finidori, Francia, 2001, 20’
Chemin faisant, di Céline Finidori, Francia, 2002, 20’
CINEMA IN PIAZZA (21,45)
Whale Rider, di Niki Caro, Nuova Zelanda, 105’
DOMENICA 22 GIUGNO
(9,30)
Francia Doc
Le voyage à la mer, di Denis Gheerbrant, Francia, 2001, 84’
(11,00)
Francia - Le Fresnoy I (Con introduzione di Alain Flescher)
Les intemperies, di Lee Show Chuen, Francia, 26’
Vide pour l’amour, di Vimukthi Jayasundera, Francia, 2002, 27’
Le destinataire, di Chen Xiaoxing, Francia, 2001, 28’
Le pont n’est plus là, di Tsiai Ming Liang, Francia, 20’
(15,00)
Evento speciale
Asakusa Kid, di Shinozaki Makoto, Giappone, 2002, 111’ (video)
(17,00)
Francia fiction
Adieu Pays, di Philippe Ramos, Francia, 2003, 85’
(18,30)
Francia Doc
La raison du plus fort, di Patric Jean, Francia/Belgio, 2003, 84’
(21,30)
Retrospettiva John Sayles
City of Hope, USA, 1991, 129’
(23,30)
Francia - Sperimentale IV: “uno schermo non basta”
Charlemagne 2: Piltzer, di Pip Chodrov, Francia, 2002, 22’
Liminimal, di Christian Lebrat, Francia, 2003, 10’
Out of (K)Nowhere: un film d’Anne Prat, di Christian Lebrat, Francia, 2003
+ performance dal vivo di Christian Lebrat
CINEMA IN PIAZZA (21,45)
Le jardin des mauvais garçons, 12’
Depuis qu’Otar est parti, di Julie Bertuccelli, Francia, 2003, 100’
LUNEDI 23 GIUGNO
(10,00)
Francia - Sperimentale I: “la realtà come miraggio”
Film-Annonce, di Maurice Lemaître, Francia, 1993, 3’
Hotel Turkoman, di Martine Rousset, Francia, 2000, 15’
Terminus for you, di Nicolas Rey, Francia, 1996, 10’
Asa, di Carole Arcega, Francia, 2002, 5’
Promeneux, di Stefano Canapa, Francia, 2001, 12’
Aldebaran, di Hugo Verlinde, Francia, 1999, 13’
Dellamorte dellamorte dellamore, di David Matarasso, Francia, 2000, 2’
Terrae, di Othello Vilgarde, Francia, 2001, 10’
Baby dream II, di Miles McKane, Francia, 2001, 5’
(11,00)
Francia fiction
La brèche de Roland, Di J-M e A. Larrieu, Francia, 2002, 45’
(11,45)
Francia Doc
800 km de différence, di Claire Simon, Francia, 74’
(15,00)
Retrospettiva John Sayles
Baby, It’s You, USA, 1983, 105’
(17,00)
Francia Doc
Racines, di Richard Copans, Francia, 2003, 99’ (video)
(18,45)
60 + o –
Dracula-Pages from a Virgin’s Diary, di Guy Maddin, Canada, 2002, 75’
(21,30)
Retrospettiva John Sayles
The Brother From Another Planet, USA, 1984, 108’
(23,30)
Francia
Sperimentale III: “negli abissi della emulsione”
La pêche miraculeuse, di Cecile Fontaine, Francia, 1995, 10’
Safari Land, di Cecile Fontaine, Francia, 1996, 10’
The last lost shot, di Cecile Fontaine, Francia, 1999, 7’
The best boy friend, di Cecile Fontaine, Francia, 2002, 10’
Chromatographie, di Frédérique Devaux, Francia, 2001, 4’
Fil(m), di Frédérique Devaux, Francia, 2001, 4’
Tandem: faux-raccords, di M. Gracineau/C. Ricard, Francia/Canada, 2001, 6’
American international pictures, di Vivian Ostrovsky, Francia, 1997, 5’
Quelques instants de la vie d’un pavillon, di Biaharé Khadje-Nouri, Francia,
2000, 4’
Chrominance, di Nicholas Berthellot, Francia, 1999, 5’
Encre 08/02/97, di Marcelle Thirache, Francia, 1997, 4’
Big Band, di Marcelle Thirache, Francia, 2001, 3’
Soupirs d’écumes.première partie, di Dominik Lange, Francia, 2002, 9’
Underground, di Emmanuel Lefrant, Francia, 2001, 8’
CINEMA IN PIAZZA (21,45)
L’Angelo della spalla destra, di Djamshed Usmonov , Italia/Tajikistan, 2002,
89’
MARTEDI 24 GIUGNO
(10,00)
Francia - Le Fresnoy III
Intersections, di Anthony Danet, Francia, 2001, 12’
Avant, di Emile Soulier, Francia, 10’
Entropie, di Jérome Thomas, Francia, 10’
L’instant d’avant, di Eric Oriot, Francia, 2001, 10’
Randomfiction, di Vincent Voillat, Francia, 2002
L’émbranlement, di Erik Bullot, Francia, 1997, 4’
L’attrazione universale, di Erik Bullot, Francia, 13’
(11,30)
Kortokodak 1
Chattilli, di Eugenio Cappuccio, 15’
60 + o –
Letter from a Yellow Cherry Blossom, di Kawase Naomi, Giappone, 2002, 65’
(15,00)
Retrospettiva José Luis Guerín
Los motivos de Berta, Spagna, 1984, 115’
(17,00)
Francia – Sperimentale II: “gli occhi selvaggi” (con presentazione)
Il n’y a rien de plus inutile qu’un organe, di Augustin Gimel, Francia,
1999, 9’
My room le grand canal, di A.S. Brabant/P. Gerbaux, Francia, 2002, 31’40’’
Notre Icare, di Johanna Vaude, Francia, 2001, 8’
Triptique: she’s gone away, di Johanna Vaude, Francia, 2001, 18’
L’oeil sauvage, di Johanna Vaude, Francia, 2000, 14’
Totalité, di Johanna Vaude, Francia, 2000, 6’
Le canard à l’orange, di Patrick Bokanowski, Francia, 2002, 8’30’’
Les coquelicots, di Rose Lowder, Francia, 2000, 3’
Bouquets “21-24”, di Rose Lowder, Francia, 2001, 4’
Bouquets “25”, di Rose Lowder, Francia, 2002, 1’20’’
(18,45)
60 + o –
Imitations of Life, di Mike Hoolboom, Canada 2003, 75’
(21,30)
Retrospettiva José Luis Guerín
Innisfree, Spagna, 1990, 110’
(23,30)
Retrospettiva Rybczynski 1° (in pellicola)
Kwadrat (Quadrato), Polonia, 1972, 4’
Take five, Polonia, 1972, 4’3’’
Plamuz, Polonia, 1973, 11’
Zupa (Zuppa), Polonia, 1974, 10’
Nowa Ksia_ka (Nuovo libro), Polonia, 1975, 12’30’’
-Wi-to (Festa), Polonia, 1975, 12’30’’
Lokomotywa (Locomotive), Polonia, 1976, 8’
Oj! Nie Mog-si-zatrzyma-! (Oh, no! Non posso fermarmi), Polonia, 1976, 12’
Weg Zum Nachbarn (La strada verso il vicino), Polonia, 1976, 2’30’’
Mein Fenster (La mia finestra), Polonia, 1979, 2’30’’
Media, Polonia, 1980, 1’40’’
Tango, Polonia, 1980, 10’
CINEMA IN PIAZZA (21,45)
Kamchatka, di Marcelo Piñeyro, Spagna, 2002, 107’
MERCOLEDI 25 GIUGNO
(9,30)
Retrospettiva John Sayles
The Secret of Roan Inish, USA, 1994, 103’
(11,30)
Kortokodak 2
Lontano, di Antonio Termenini, 12’
Retrospettiva José Luis Guerín
Tren de sombras, Spagna, 1996, 80’
(15,00)
60 + o –
The Decay of Fiction, di Pat O’Neill, USA, 2002, 74’
(16,15)
Francia fiction
A la vitesse d’un cheval au galop, di Darielle Tillon, Francia, 2002, 45’
(17,15)
Retrospettiva José Luis Guerín
En construcción, Spagna, 2000, 125’
(18,45)
Incontro con José Luis Guerín
(21,30)
Retrospettiva John Sayles
Eight Men Out, USA, 1988, 119’
(23,30)
Kortokodak 3
Il naso storto, di Antonio Ciano, 15’
60 + o –
Killed by Lightning, di Yevgeniy Yefit, Russia, 2002, 65’
CINEMA IN PIAZZA (21,45)
Les mains vides, di Marc Recha, Spagna/Francia, 2003, 130’
GIOVEDI 26 GIUGNO
(9,30)
Retrospettiva Rybczynski 3
Diana D – music video for Chuck Mangione, USA, 1984, 4’
Sign Of The Times – music video for Grandmaster Flash, USA, 1984, 4’27’’
The Fourth Dimension, USA/Italia/Francia, 1988, 32’
L’Orchestre, Francia/USA, 1990, 71’50’’
(11,30)
Francia Doc
Profils paysans : l’approche, di Raymond Depardon, Francia, 2001, 88’
(15,00)
Retrospettiva John Sayles
Matewan, USA, 1987, 132’
(17,00)
Retrospettiva Rybczynski 2: (The best of)
Who do you love – music video for Bernard Wright, USA, 1985, 4’15’’
Hell in paradise – music video for Yoko Ono, USA, 1986, 3’30’’
Sex Machine – music video for Fat Boys, USA, 1986, 4’
The Original Wrapper – music video for Lou Reed, USA, 1986, 4’20’’
Candy – music video for Cameo, USA, 1986, 4’20’’
Keep your eye on me – music video for Herb Alpert, USA, 1987, 5’15’’
Imagine – music video for John Lennon, USA, 1986/87, 3’20’’
Steps, USA/UK, 1987, 29’30’’
Capriccio no. 24 – Tve’s “The art of video”, USA/Spagna, 1989, 7’40’’
Manhattan, USA, 1990, 33’
(19,00)
Incontro con Rybczynski
(21,30)
Omaggio Mastrella/Rezza
Spettacolo dal vivo
(23,30)
Francia fiction
Dans ma peau, di Marina De Van, Francia, 2002, 93’
CINEMA IN PIAZZA (21,45)
Kops , di Josef Fares, Svezia/Danimarca, 2002, 90’
VENERDI 27 GIUGNO
(9,30)
Retrospettiva Rybczynski 4
Stereotomy – music video for Alan Parson’s Project, USA, 1986, 4’10’’
Let’s Work – music video for Mick Jagger, USA, 1987, 4’05
Something real – music video for Mister Mister, USA, 1987, 4’10’’
I am begging you – music video for Supertramp, USA, 1987, 4’
Cowbell – music video for Takeshi Itoh, USA, 1989, 4’
Washington D.C., USA, 1990, 34’
Kafka, Francia, 1992, 62’
(11,30)
Kortokodak 4
Il regalo di Natale, di Daniele De Plano, 15’
Francia fiction
Le stade de Wimbledon, di Matthieu Amalric, Francia, 2001, 70’
(15,00)
Retrospettiva John Sayles
Men With Guns, USA, 1997, 127’
(17,15)
Samp 30’ +
Incontro con Mastrella/Rezza
(18,45)
Francia fiction
Lulu, di Jean-Henry Roger, Francia, 2001, 86’
(21,30)
Evento speciale (Replica)
Asakusa Kid, di Shinozaki Makoto, Giappone, 2002, 111’
(23,30)
Kortokodak 5
Il sostituto, di Carlo Cicala, 15’
Omaggio Mastrella/Rezza
Delitto sul Po, Italia, 2002, 71’
CINEMA IN PIAZZA (21,45)
Il mestiere delle armi, di Ermanno Olmi, Italia, 2001, 109’
SABATO 28 GIUGNO
(9,30)
Retrospettiva John Sayles
Passion Fish, USA, 1992, 134’
(11,40)
Evento speciale
Rape, di Yoko Ono/John Lennon, Austria, 1969, 77’
(15,00)
Evento speciale
Wilsinho Galilea, di J. B. de Andrade, Brasile, 1979/2003, 65’
(16,15)
60 + o -
Am Anfang war der Blick, Bady Minck, Austria, 2003, 45’
(17,00)
Retrospettiva John Sayles
Sunshine State, USA, 2002, 141’
(19,00)
Incontro con John Sayles
(21,30)
Francia fiction (Replica)
A la vitesse d’un cheval au galop, di Darielle Tillon, Francia, 2002, 45’
Le stade de Wimbledon, di M. Amalric, Francia, 2001, 70’
(23,30)
Francia fiction (Replica)
Marie et le loup, di Eve Heinrich, Francia, 2003, 95’
CINEMA IN PIAZZA (21,45)
Lone Star, di John Sayles, USA, 1996, 135’
DOMENICA 29 GIUGNO
(9,30)
Retrospettiva John Sayles
Limbo, USA, 1999, 126’
(11.45)
60 + o – (Replica)
Dracula-Pages from a Virgin’s Diary, di Guy Maddin, Canada, 2002, 75’
17° EVENTO SPECIALE – ERMANNO OLMI
PROGRAMMA CINEMA ASTRA
Sabato 21 giugno
Ore 15.30
Programma cortometraggi (1): Dialogo tra un venditore di almanacchi e un
passeggiere (1954, 10'); La diga del ghiacciaio (1954, 10'); La pattuglia
del passo San Giacomo (1954, 11'); Buongiorno natura (1955, 10'); Cantiere
d'inverno (1955, 10'); La mia valle (1955, 8'); Manon finestra 2 (1956,
13'); Grigio (1958, 10') totale: 72'
Ore 17.00
Il posto (1961, 97')
Ore 21.00
L'albero degli zoccoli (1978, versione in bergamasco st. italiani, 193')
Domenica 22 giugno
Ore 9.30
Genesi: la Creazione e il Diluvio (1994, 96')
Ore 10.45
Durante l'estate (1971, 102')
Ore 15.30
E venne un uomo (1965, 95')
Ore 17.15
Un certo giorno (1968, 102')
Ore 21.00
Il tempo si è fermato (1959, 89')
Ore 22.30
La circostanza (1973, 100')
Lunedì 23 giugno
(mattinata: videoproiezioni)
Ore 9.30
700 anni (1963, 44')
Dopo secoli (1964, 23')
Regista in vacanza (1967, 8')
Ritorno al paese (1967, 10') totale: 85'
Ore 11.00
Giovani (1967, selezione di 29')
La fatica di leggere (1970, 27')
In nome del popolo italiano (1971, 46') totale: 102'
Ore 15.30
Racconti di giovani amori (1967, 105')
Ore 17.30
I recuperanti (1970, 98')
Ore 21.00
Camminacammina (1983, 175')
Martedì 24 giugno
(mattinata: videoproiezioni)
Ore 9.30
Michelino I° B (1956, 44')
Il pensionato (1958, 10')
Personaggi fortemente sospettabili (1983, 11') totale: 65'
Ore 10.45
Alcide De Gasperi (1974, prima puntata: 70')
Ore 15.30
Il segreto del bosco vecchio (1993, 127')
Ore 17.45
Programma cortometraggi (2): Costruzioni meccaniche Riva (1957, 22'); Tre
fili fino a Milano (1958, 18'); Il grande paese d'acciaio (1960, 11'); Le
grand barrage (1961, 16'); Un metro lungo cinque (1961, 24') totale: 91'
Ore 21.00
La leggenda del Santo Bevitore (1988, 127')
Ore 23.15
I fidanzati (1963, 77')
Mercoledì 25 giugno
(mattinata: videoproiezioni)
Ore 9.30
Milano '83 (1983, 65')
Sopra le sette ultime Parole del nostro Redentore in Croce (1985, 47')
totale: 112'
Ore 11.30
Alcide De Gasperi (1974, seconda puntata: 73')
Ore 15.30
La circostanza (1973, 100') replica
Ore 17.15
Lunga vita alla Signora! (1987, 105')
Ore 21.00
L'albero degli zoccoli (1978, versione in bergamasco st. italiani, 193')
replica
Giovedì 26 giugno
(mattinata: videoproiezioni)
Ore 9.30
Milano (1990, 7')
Le radici della libertà (1972, 55')
Nascita di una formazione partigiana (1973, 62') totale: 124'
Ore 11.45
Alcide De Gasperi (1974, terza puntata: 67')
Ore 15.30
Apocalypsis cum figuris (1979, 62')
Ore 16.40
Selezione cortometraggi: Manon finestra 2 (1956, 13'); Tre fili fino a
Milano (1958, 18'); Un metro lungo cinque (1961, 24') repliche totale: 55'
Ore 17.45
Un certo giorno (1968, 102') replica
Ore 21.00
Camminacammina (1983, 175') replica
Venerdì 27 giugno
(mattinata: videoproiezioni)
Ore 9.30
Mille anni (1995, 22')
Artigiani veneti (1986, 82') totale: 104'
Ore 11.30
Lungo il fiume (1992, 78')
Ore 15.30
Il tempo si è fermato (1959, 89') replica
Ore 17.15
Durante l'estate (1971, 102') replica
Ore 21.00 (in piazza)
Il mestiere delle armi (2001, 109’)
Racconti di giovani amori (1967, 105')
Ore 23.00
I fidanzati (1963, 77') replica
Sabato 28 giugno
Ore 9.30
Una terra di recuperanti: Ermanno Olmi parla con Mario Rigoni Stern di Mirco
Melanco (1996-2003, 25') video
Ore 10.00
Tavola rotonda con Ermanno Olmi
Ore 15.30
I recuperanti (1970, 98') replica
Ore 17.30
Effetto Olmi: appunti su "Cammina cammina…" di Mario Brenta (1983, 63')
Ore 21.00
Il posto (1961, 97') replica
Ore 23.00
E venne un uomo (1965, 95') replica
17° EVENTO SPECIALE
Elenco film di Ermanno Olmi proiettati a Pesaro
Tutti i film sono in 35mm, 1.37:1, suono mono, salvo diversa indicazione
Cortometraggi
Dialogo tra un venditore di almanacchi e un passeggiere (1954, 10')
La diga del ghiacciaio (1954, 11')
La pattuglia del passo San Giacomo (1954, 11')
Buongiorno natura (1955, 10')
Cantiere d'inverno (1955, 10')
La mia valle (1955, 8')
Ma non finestra 2 (1956, 13')
Michelino I° B (1956, 44')
Costruzioni meccaniche Riva (1957, 22')
Il pensionato (1958, 10')
Tre fili fino a Milano (1958, 18')
Grigio (1958, 10')
Il grande paese d'acciaio (1960, 11')
Le grand barrage (1961, 16')
Un metro lungo cinque (1961, 24')
Lungometraggi
Il tempo si è fermato (1959, 89')
Il posto (1961, 97')
I fidanzati (1963, 77')
E venne un uomo (1965, 95')
Racconti di giovani amori (1967, 105')
Un certo giorno (1968, 102')
I recuperanti (1970, 98')
Durante l'estate (1971, 102')
La circostanza (1973, 100')
L'albero degli zoccoli (1978, 193', v. bergamasca, st. it.)
Camminacammina (1983, 175')
Lunga vita alla Signora! (1987, 105')
La leggenda del Santo Bevitore (1988, 127', v. it.)
Il segreto del bosco vecchio (1993, 127')
Genesi: la Creazione e il Diluvio (1994, 96')
Il mestiere delle armi (2001, 109')
Televisione (Formato Beta)
700 anni (1963, 44')
Dopo secoli (1964, 23')
Giovani (1967, selezione di 29')
Regista in vacanza (1967, 8')
Ritorno al paese (1967, 10')
La fatica di leggere (1970, 27')
In nome del popolo italiano (1971, 46')
Le radici della libertà (1972, 55')
Nascita di una formazione partigiana (1973, 62')
Alcide De Gasperi (1974, 210', tre puntate [70'+73'+67'])
Apocalypsis cum figuris (1979, 62')
Personaggi fortemente sospettabili (1983, 11')
Milano '83 (1983, 65')
Sopra le sette ultime Parole del nostro Redentore in Croce (1985, 47')
Artigiani veneti (1986, 82')
Milano (1990, 7')
Lungo il fiume (1992, 78')
Mille anni (1995, 22')
PROGRAMMA SALA VIDEO
NUOVE PROPOSTE VIDEO
PROGRAMMA 1
Appunti per un film americano, Walter Fasano, Ita 2003, 21’, incontro
Billy’s Holyday, Georg Steinböck, Usa 2003, 26’, incontro
Le grotte del formaggio, Tommaso Lipari, Ita 2002, 27’, incontro
NUOVE PROPOSTE VIDEO
PROGRAMMA 2
Busted 818, Harald Holba, Aus 2003, 5’09
L’acqua che pesa non cade dal cielo, Morgan Emme, Ita 2003, 3’30’’, incontro
Man’s Search for Happiness, Caz McIntee, Scot 2002, 6’
Orba/Cian, Eduardo Andrés López López, Arg 2003, 8’20’’,
Crisostomo, Carlo Michele Schirinzi, Ita 2003, 7’30, incontro
tout ont besoin d’amour [barcelona], Arnold Pasquier, Fra 2003, 20’
Di fumo in fumo, Massimiliano Galliani, Ita 2002, 1’30’’, incontro
Urban Multimedia Utopia, Oksana Chepelyk, Ger 2002, 10’, incontro
Da lontano, Mauro Santini, Ita 2002, 7’, incontro
NUOVE PROPOSTE VIDEO
PROGRAMMA 3
Come Cinema/2, parte prima, Ellis Donda, Ita 2002, 90’
Come Cinema/2, parte seconda, Ellis Donda, Ita 2002, 90’
DOCUMENTANDO
PROGRAMMA 1
Mumbai Masala, Marcellino de Baggis, Ita 2003, 28’
Nella bolla, Alessandro Cassigoli, Dalia Castel, Ita 2002, 45’
DOCUMENTANDO
PROGRAMMA 2
Libere, Paola Columba, Ita 2003 , 15’
La festa del porto, Giovanni Paolucci, Ita 2003, 15’
Peter Russell, Guido Cionini, Ita 2003, 26’
Hanging Out With Henry, Janette Howe, Nzel 2002, 18’50
Wake up to call, Daniel Tonitto, Uk, 5’
Hinterland, Esther Johnson, Uk 2002, 12’
El luchón, Rosibel Rojas, Ger, 2003, 11’
DOCUMENTANDO
PROGRAMMA 3
Americn Eunuchs, Gian Claudio Guiducci, Franco Sacchi, Usa/Ita 80’
Estate, Marco De Angelis, Ita 2003, 20’
DOCUMENTANDO
PROGRAMMA 4
Gleb, Adrei Zaitsev, Rus 2002, 52’
Directed by Antony Dawson. Il cinema di Antonio Margheriti, Lillo Iacolino,
Ita 2002, 55’
OMAGGIO FLAVIA MASTRELLA - ANTONIO REZZA
PROGRAMMA 1
12’ Suppietij
23’ Il Vecchio Dentro
28’ De Civitate Rei
11’ Schizzopatia
1’30’’ Porte
30’’ La Beata Mancata
2’30’’ L'orrore di vivere
6’ Fratello Kraus
2’30’’ Represso
3’ Balla coi lupi
1’30’’ Show girls
1’30’’ Io ballo da sola
1’30’’ Batman
1’30’’ Il Mosè di Michelangelo
OMAGGIO FLAVIA MASTRELLA - ANTONIO REZZA
PROGRAMMA 2
23’ La Divina Provvidenza
50’ Confusus
14’ Il Piantone
2’ Raptus
2’ Zero a zero
2’ Il Telefonetto
2’ Virus
2’30’’ Hai mangiato?
OMAGGIO FLAVIA MASTRELLA - ANTONIO REZZA
“TROPPOLITANI”
29’ Speciale Metropolitana
29’ Speciale Cimitero
29’ Speciale Stazione
29’ Speciale Footing
29’ Speciale Collocamento
29’ Speciale Capannelle Lazio e Famiglia
29’ Speciale Psicofarmaco
5’ Speciale Francese
RETROSPETTIVA RYBCZYNSKI
Sceny Narciarskie Z Franzem Klammerem, Pol/Aus 1980, 22’
Close to the Edit - music video for Art of Noise, Usa 1984, 4’30’’
The Real End - music video for Rickie Lee Jones, Usa 1984, 4’47’’
Hot Shot - music video for Jimmy Cliff, Usa 1985, 3’55’’
All that I Wanted - music video for Belfegore, Usa 1984, 4’15’’
Midnight Mover - music video for Accept; Usa 1985, 3’02’’
She Went Pop - music video for I am Siam, Usa 1985, 4’10’’
Minus Zero - music video for Lady Punk, Usa 1985, 3’55’’
Ultima Ballo - music video for Angel and Maimone, Usa 1985, 4’50’’
P-machinery - music video for Propaganda, Usa 1985, 3’45’’
Alive and Kicking - music video for Simple Minds, Usa 1985, 5’25’’
Lose Your Love - music video for Blancmange, Usa 1985, 3’54’’
All the Things She Said - music video for Simple Minds, Usa 1986, 4’15’’
I Can’t Think About Dancing – music video for Missing Persons, Usa 1986, 4’
Opportunities - video Pet Shop Boys, Uk 1986, 3’40’’
Dragnet 1987 - music video for Art of Noise, Usa 1987, 3’
The Day Before - “New Show”, Usa 1984, 1’30’’
The Discreet Charm of The Diplomacy - “New Show”, Usa 1984, 2’30’’
Children’s Alphabet , Usa 1984, 1’40’’
The Duel - Telegraph, a tribute to Georges Melies, Fra/Usa 1988, 5’
Fluff , Ita 1988, 4’
Gmf Groupe, Fra 1989, 2’
Vh-1 Jingles - Vh-1 Promo; Usa 1991, 1’
Curtains, Usa 1992, 30’’
EVENTI SPECIALI
STEPHEN DWOSKIN
Some Friends (Apart), Uk 2002, 25’
Another Time, Uk 2002, 52’
ROMUALD KARMAKAR
196 bmp, Ger 2002, 62’
JAY ROSENBLATT
Friend Good, Usa 2003, 5’
I Used to be A Filmaker, Usa 2003, 10’
FRANCE EXPERIMENTAL
VIDEO
Quasar, M.Klonaris/K.Thomadaki, Fra 2002, 30’
Samourai, Johanna Vaude, Fra 2002, 7’
I’ve got the power, Johanna Vaude, Fra 2002, 6’
Memoire(s), Gèrard Cairaschi, Fra 1999, 17’
1305, Augustin Gimel, Fra 2001, 2’
Radar, Augustin Gimel, Fra 2001, 2’
Din 16538/39 (paris), Augustin Gimel, Fra 1999, 2’
90°, Augustin Gimel, Fra 1999, 0’25’’
5 asa, Augustin Gimel, Fra 2001, 2’
Je n’ai pas du tout l'intention de sombrer, Augustin Gimel, Fra 2002, 4’45’’
Demens - Horror movie 1, Marc Plas, Fra 1997, 7’
S’endormir a la belle etoile, Nicholas Berthelot, Fra 2000, 2’
Va te faire enculer, Yves-Marie Mahé, Fra 1999, 10’
Bitte, Yves-Marie Mahé, Fra 2001, 4’
FRANCE EXPERIMENTAL
SUPER8
Baby doll 5, S.Darmon/Orlan Roy, Fra 1999, 19’,
Ink, Sarah Darmon, Fra 1999, 6’
Bim baam scratch pfuiii…, Johanna Vaude, Fra 1996, 10’
Sans titre (essai sur le corps), Johanna Vaude, Fra 1997, 3’
En-corps, Colas Ricard, Fra 2002, 6’30’’
Eros mutilé, Stéphane Marti, Fra 2000, 23’
Atelier super 8 experimental, film collettivo, Fra 2002, 4’
Balam, Gilles Touzeau, Fra 2001-2002, 17’
Memosium, Louis Dupont, Fra 2002, 4’
CINEMA IN PIAZZA – I FILM
NIKI CARO
WHALE RIDER
(t. l.: Colui che cavalca la balena)
sceneggiatura/screenplay: Niki Caro dal romanzo The Whale Rider di Witi
Ihimaera
fotografia/photography (35 mm, colore): Leon Narbey
montaggio/editing: David Coulson
musica/music: Lisa Gerrard
scenografia/art direction: Grant Major
costumi/costumes: Kirsty Cameron
interpreti/cast: Keisha Castle-Hughes, Rawiri Paratene, Vicky Haughton,
Cliff Curtis, Grant Roa, Mana Taumaunu, Tyronne White, Taupuru
Whakataka-Brightwell, Tenia McCluthie-Mita, Rachel House
produzione/production: Tim Sanders, John Barnett, Frank Hübner per South
Pacific Pictures, ApolloMedia, Pandora Film
contatto/contact:
distribuzione italiana/italian distribution: BIM
durata/running time: 104’
origine/country: Nuova Zelana 2002
In un piccolo villaggio costiero della Nuova Zelanda i maori rivendicano la
loro discendenza da Paikea, “chi cavalca la balena”. In ogni generazione,
l’erede maschile succede nel titolo. È giunto il tempo. Dopo lanascita di
fdue gemelli e la morte del maschio, il capo non può accettare sua nipote,
Pai, come futura leader. Koro, il capo, è convinto che la sventura della
tribù è iniziata alla nascita di Pati, e chiede alla sua gente di portare a
lui i loro figli, sicuro che un nuovo leader si rivelerà.
In a small New Zealand coastal village, the Maori claim descent from Paikea,
the Whale Rider. In every generation, a male heir succeeded to this highest
title. The time is now. When twins are born, and the male twin dies, the
chief is unable to accept his granddaughter Pai as a future leader. Koro,
the chief, is convinced that the tribe’s misfortunes began at Pai’s birth
and calls for his people to bring him their sons, certain that a new leader
will be revealed.
“Whale Rider tratta della leadership, e del fatto che il comando in questo
caso si presenta sotto la forma di una ragazza. Il destino di Pai è quello
di comandare, ma ciò è in diretta opposizione con i convincimenti del nonno,
la persona che lei ama di più al mondo. Quindi il film segue il suo
travaglio nell’accettare il destino, e le straordinarie distanze che lei
percorrerà per fargli capire, e provare il suo amore.
“Whale Rider is essentially about leadership and the fact that it presents
itself in the form of a young girl. It’s Pai’s destiny to lead, but that is
in direct opposition to her grandfather’s beliefs, and he is the person she
loves more than anything in the world. So the film deals with his struggle
to accept her destiny and the extraordinary lengths to which she’ll go to
prove her love to him and make him understand.”
Niki Caro
BIOGRAFIA
Niki caro è una giovane regista di grande successo: il suo lungometraggio di
debutto, Memory and Desire, è stato selezionato per la prestigiosa Settimana
della critica al Festival di Cannes 1998. È stato inoltre premiato come
Miglior film ai New Zealand Film Awards del 1999, vincendo anche un Premio
speciale della giuria per il lavoro di Caro come sceneggiatrice e regista.
BIOGRAPHY
Niki Caro is a highly successful young director whose feature film debut,
Memory and Desire, was selected for the prestigious Critics’ Week at the
1998 Cannes Film Festival. It was voted Best Film at the 1999 New Zealand
Film Awards, also winning a Special Jury Prize for Caro’s work as both
writer and director.
FILMOGRAFIA
Sure to Rise (1994, cm), The Summer the Queen Came (1994, TV), Footage
(1996, cm), Plain Tastes (1996, TV), Memory and Desire (1997), Whale Rider
(2002).
JULIE BERTUCCELLI
DEPUIS QU’OTAR EST PARTI
(t. l.: Da quando Otar è partito)
sceneggiatura/screenplay: Julie Bertuccelli, Bernard Renucci, Roger Bohobot
fotografia/photography (35 mm, colore): Christophe Pollock
montaggio/editing: Emmanuelle Castro
suono/sound: Henri Morelle
interpreti/cast: Esther Gorintin, Nino Khomassouridze, Dinara Droukarova,
Temour Kalandadze, Roussoudan Bolkvadze, Sacha Sarichvili, Douta
Skhirtladze, Abdallah Moundy
produzione/production: Les Films du Poisson
contatto/contact: Celluloid Dreams (info@celluloid-dreams.com)
durata/running time: 100’
origine/country: Francia 2003
A Tblisi, la fascinosa ma cadente capitale della Georgia post-sovietica, la
giovane Ada vive con la madre Marina e la nonna Eka. Nel vecchio
appartamento che condividono, giorno dopo giorno, la vita non è facile,
sorrisi e risate sono una dura conquista. L’unica gioia delle loro vite
deriva dalle lettere spedite regolarmente da Otar, il figlio adorato
trasferitosi a Parigi, che di tanto in tanto spedisce un po’ di soldi.
Durante la sua lunga assenza, il suo nome è divenuto mitico nella casa.
Sfortunatamente, Otar muore tragicamente in un incidente, e Marina non se la
sente di annunciare la sua scomparsa all’anziana Eka. Con la complicità di
Ada decidono di continuare a scrivere le lettere di Otar, ma questa piccola
bugia presto scombussolerà le vite di tutti.
In Tbilissi, the charming but delapitaded capital of post-soviet Georgia,
the young Ada, lives with her mother Marina and her grandmother Eka. In the
old apartment that they share, day to day life doesn’t come easy, smiles and
laughter are hard won. The only joy in their lives are the regular letters
sent by Otar, the adored son who has moved to Paris and sends a little money
from time to time. In his long ansence, his name has become mythic in the
household. Unfortunately, one day he is tragically killed in an accident and
Marina cannot bring herself to announce his death to the aging Eka. With Ada
as her accomplice they decide to continue writing as Otar but this “little
white lie” will soon mix up everyone’s lives.
“Depuis qu’Otar est parti, primo film di Julie Bertuccelli, è un’opera
ambiziosa, con un’interpretazione sottile, sul filo, dove tre generazioni di
donne si scambiano sguardi di speranza, e silenzi. Tre donne che vivono la
mutazione dallo stalinismo di ieri all’occidentalizzazione odierna, intorno
a una menzogna disperata. Una menzogna usata per mantenere viva la speranza
di una vita migliore, altrove.”
Arno Gaillard
BIOGRAFIA
Julie Bertuccelli (1968) si laurea e ottiene un Master in filosofia prima di
fare pratica per diventare una regista documentaria all’atelier Varan.
Dirige una dozzina di documentari, selezionati in molti festival. Depuis
qu’Otar est parti è il suo primo lungometraggio.
BIOGRAPHY
Julie Bertuccelli (1968) graduates and obtains a Master in Philosophy before
training to be a documentary director at the ateliers Varan. She directs a
dozen of documentaries, selected by many festivals. Depuis qu’otar est parti
is her first feature film.
FILMOGRAFIA
Depuis qu’Otar est parti (2003).
DJAMSHED USMONOV
FARISHTAI PASTI ROST
(t. l.: L’angelo della spalla destra)
sceneggiatura/screenplay: Djamshed Usmonov
fotografia/photography (35 mm, colore): Pascal Lagriffoul
montaggio/editing: Jacques Comets
suono/sound: Waldir Xavier
scenografia/art direction: Mavlodod Farosatshoev
costumi/costumes: Marina Yakunina
interpreti/cast: Uktamoi Miyasarova, Maruf Pulodzoda, Kova Tilavpur,
Mardonqul Qulbobo, Malohat Maqsumova, Furkat Buriev, Orzuqul Kholikov, Holim
Rakhmonov, Tolib Temuraliev, Davras Azimov
produzione/production: Fabrica Cinema, Rai Cinema, ventura film, TSI –
Televisione svizzera, Artcam International, Asht Village
contatto/contact: Celluloid Dreams (e-mail: info@celluloid-dreams.com)
durata/running time: 89’
origine/country: Italia, Svizzera, Francia, Russia/Tagikistan 2002
Dopo dieci anni a Mosca, Hamro ritorna al suo villaggio natale, in
Tagikistan, per assistere la madre morente, Halima. Si rende conto che deve
assolutamente vendere la casa materna il più presto possibile. Ormai è
sopraffatto dai debiti e gli abitanti del villaggio si rivelano tanto
violenti quanto la gente di malaffare che Hamro frequentava nella grande
città.
“Secondo un’antica leggenda islamica, ognuno di noi ha due angeli invisibili
sulle spalle. L’angelo della spalla destra prende nota delle buone azioni,
mentre l’angelo della spalla sinistra ha il registro di quelle cattive. Il
giorno del giudizio universale, le buone azioni dell’uomo verranno
soppesate, insieme alle cattive azioni, sul piatto della bilancia della
giustizia e, alla luce dell’esito finale di tale valutazione, l’uomo verrà
destinato all’inferno o al paradiso. Questa storia di angeli viene
raccontata ai bambini affinché si comportino bene e sicuramente ha segnato
la mia infanzia. Il mio prossimo film narrerà dell’Angelo della spalla
sinistra.”
Djamshed Usmonov
BIOGRAFIA
Djamshed Usmonov (Asht, Tagikistan, 1965) lavora nel settore cinematografico
dal 1986 come regista, produttore, sceneggiatore, montatore di film di
fiction, d’animazione e documentari. Ha lavorato presso gli stui “Tajikfilm”
di Dushambe. Ha recitato in film di Mariam Yussupova e Darezhan Omirbaev.
After ten years in Moscow, Hamro, a penniless thug, returns to his native
Tajikistan to tend to his dying mother Halima. Hamro realizes that he must
sell her house and belongings as quickly as possible. His debts are long
overdue and the townspeople are as tough as the big city crowd he now
frequents.
“According to an old Islamic legend, everyone has two invisible angels, one
on each shoulder. The angel on the right records good deeds and good
thoughts, while the angel on the left takes note of bad deeds. On Judgement
Day, a person’s good deeds are weighed against the bad on the scale of
Justice. The person is sent to Heaven or Hell. This story about the angels
is told to children to encourage them to be good. It has left a lasting
impression on me. My next film might be about the Angel on the Left.”
Djamshed Usmonov
BIOGRAPHY
Djamshed Usmonov (Asht, Tagikistan, 1965) has been working in the film
industry since 1986 as a director, producer and screenwriter, as well as
editor of fiction, animation and documentary films. He worked at the
“Tajikfilm” Studio in Dushambe. He has also appeared as an actor in films by
Mariam Yussupova and Darewhan Omirbaev.
FILMOGRAFIA
Choh (1991, mm), Parvozi zanbur (1998, Farishtai pasti rost (2002).
MARCELO PIÑEIRO
KAMCHATKA
sceneggiatura/screenplay: Marcelo Figueras
fotografia/photography (35 mm, colore): Alfredo Mayo
montaggio/editing: Juan Carlos Macias
musica/music: Bingen Mendizabal
suono/sound: Abbate & Diaz
scenografia/art direction: Jorge Ferrari, Juan Mario Roust
costumi/costumes: Ana Markarian
interpreti/cast: Ricardo Darín, Cecilia Roth, Héctor Alterio, Fernanda
Mistral, Tomás Fonzi, Matías Del Pozo, Milton de la Canal, Evelyn Domínguez,
Leticia Brédice, Nicólas Cantafio, Gabriel Galíndez, María Socas, Juan
Carrasco, Oscar Ferrigno, Demián Bugallo, Mónica Scaparone Alberto Silva
produzione/production: Patagonik Film Group
contatto/contact: Menemsha-Entertainment, Neil Friedman (e-mail:
neil@ix.netcom.com)
distribuzione italiana/italian distribution: Mikado
durata/running time: 107’
origine/country: Argentina, Spagna 2002
Harry è un bambino come qualunque altro. Ha 10 anni, va a scuola, gli
piacciono i giochi da tavolo e guardare la televisione. Suo padre è
avvocato, sua madre lavora all’università e suo fratello minore è vittima
obbligata delle sue angherie. Quello che non è normale è il mondo in cui
vive. Nel 1976, l’Argentina è caduta in mano a una dittatura militare.
Migliaia di cittadini sono perseguitati e sequestrati. Nella maggioranza dei
casi l’unico crimine del quale potevano essere accusati era opporsi a voce a
un simile regime.
Ogni giorno mi rendo conto che Kamchatka è una storia necessaria… che in
qualche modo è un centro di costruzione, di riflessione. Mostra i legami
abortiti esistenti tra padri e figli. La necessità di resistere, cercare di
rimanere integri, in qualsiasi maniera. Sapere che l’unica cosa che ti
sostiene sono gli affetti. Su questa base è costruito il film.
Marcelo Piñeiro
BIOGRAFIA
Marcelo Piñeiro, completati gli studi di cinema alla facoltà di Belle Arti
di La Plata, collabora dal 1980 con Luis Puenzo in Cinemania, casa di
produzione di spot pubblicitari che in poco tempo diventa leader nel campo
in America Latina. Nel 1984 è produttore esecutivo di La historia Oficial di
Puenzo, Oscar per il miglior film straniero. Debutta alla regia nel 1992 con
Tango Feroz.
FILMOGRAFIA
Tango Feroz: La leyenda de tanguito (1992), Caballos salvajes (1995),
Cenizas del paraíso (1997), Plaza quemada (2000), Historias de Argentina en
vivo (2001), Kamchatka (2002).
MARC RECHA
LES MAINS VIDES
(t. l.: Le mani vuote)
sceneggiatura/screenplay: Marc Recha, Mireia Vidal, Nadine Lamari
fotografia/photography (35 mm, colore): Hélène Louvart
montaggio/editing: Ernest Blasi
musica/music: Dominiquz A, Les Négresses Vertes, Mike Young
suono/sound: Jean-Luc Audy, Ricard Casals
scenografia/art direction: Alain-Pascal Housiax, Patrick Dechesne
interpreti/cast: Dominique Marcas, Jérémie Lippmann, Olivier Gourmet,
Eduardo Noriega, Jeanne Favre, Antoine Pereniguez, Sébastien Viala, Rajko
Nikolic, Aulàlia Ramón, Mireille Perrier
produzione/production: Jacques Bidou, Luis Minarro, Marianne Dumoulin per
JBA Production, Eddie Saeta SA, Arte France Cinéma, FMB 2 Films
contatto/contact: …
durata/running time:130’
origine/country: Francia, Spagna 2003
La storia potrebbe essere raccontata dal punto di vista del pappagallo,
un’esasperante creatura alata che ha visto la sua padrona, la vecchia Madame
Catherine, tirare le cuoia es essere sepolta di nascosto dal meccanico Eric.
La storia potrebbe anche essere raccontata attraverso i treni che passano
per questa cittadina non lontana dal confine, attraverso le carrozze
viaggiatori perlustrate da controllori nomadici come Sophie, attraverso le
carrozze che scaricano i loro passeggeri, come il troppo seducente Gerard,
che è solo di passaggio. Potrebbe anche essere compresa attrverso le
bottiglie servite da Yann il barman. Chi può veramente raccontare meglio
questa storia seplice eppure intricata?
This story could be told from the point of view of the Parrot, an
aggravating winged creature who saw his mistress, old Madame Catherine, kick
the bucket and then be buried on the sly by Eric the mechanic. This story
could also be told through the trains that intersect this small town not far
from the border, through its passenger cars scoured by nomadic controllers
like Sophie, through cars unloading their lot of passengers, like the overly
seductive Gerard who is just passing through. It could also be understood
through the bottles served by Yann, the café barman. Who can really best
tell this simple yet very tangled story?
“Ho passato un anno e mezzo a scrivere la sceneggiatura. All’inizio, la
storia era concentrata su due personaggi. Rapidamente la cosa è cambiata, i
personaggi sono diventati dodici. L’importanza di Madame Catherine come
personaggio centrale è diminuita. Volevo parlare della difficoltà di
comunicazione. Per far ciò, avevo bisogno di più personaggi.”
Marc Recha, da un’intervista con Denis Pretion
“I spent one and a half years writing the screenplay. At the beginning, I
concentrated the whole story on two characters. That quickly changed, the
characters increased to twelve. The importance of Madame Catherine
diminished as a central character. I wanted to evoke the difficulty of
communicating. To do this, I needed more characters.”
Marc Recha, from an interview with Denis Pretion
BIOGRAFIA
Marc Recha (L’Hospitalet de Llobregat, Barcellona, 1970) inizia a fare
cinema a 14 anni. Tra il 1984 e il 1988, ha scritto e realizzato da
autodidatta 14 cortometraggi. Nel 1989 ha avuto una borsa di studio dalla
Generalitat de Catalunya per studiare cinema a Parigi per otto mesi. Nel
1991, dirige il suo primo lungometraggio El cielo sube.
BIOGRAPHY
Marc Recha (L’Hospitalet de Llobregat, Barcelona, 1970) started making films
at the age of 14. Between 1984 and 1988, he scripted and made 14 shorts,
learning the technique as he went along. In 1989, he was awarded a grant
from the Generalitat de Catalunya to study cinema in Paris for eight months.
In 1991, he directed his first feature El cielo sube.
FILMOGRAFIA
Transició (1987, cm), El darrer instant (1988, cm), El zelador (1989, cm),
Asteroides (1989, cm), La por d’abocar-se/El miedo al vacío (1990, cm), La
maglana (1991, cm), El cielo sube (1992), És tard (1993, cm), L'Escampavies
(1997, cm), L’arbre de les cireres/L’arbol de las cerezas (1998), Pau i el
seu germà/Pablo y su hermano (2001).
JOSEF FARES
KOPPS
(t. l.: Poliziotti)
sceneggiatura/screenplay: Josef Fares, Mikael Håfström, Vasa
fotografia/photography (35 mm, colore): Aril Wretblad
montaggio/editing: Michael Leszczylowski
musica/music: Daniel Lemma, Bengt Nilsson
suono/sound: Niclas Merits Ljudligan
scenografia/art direction: Josefin Åsberg
interpreti/cast: Fares Fares, Torkel Petersson, Sissela Kyle, Göran
Ragnerstam, Eva Röse, Christian Fiedler
produzione/production: Memfis Film Rights, Zentropa Entertainments, Film i
Väst, Nordic Film & TV Fund
contatto/contact: Trust Film Sales (e-mail: post@trust-film.dk)
durata/running time: 90’
origine/country: Svezia, Danimarca 2002
Koops è una commedia ambientata in una piccola città svedese. Nel film
incontriamo un gruppo di colleghi della locale stazione di polizia. Negli
ultimi dieci anni non c’è stato alcun vero crimine, e la stazione è sotto la
minaccia di chiusura. Così d’improvviso i poliziotti devono trovare una
soluzione per salvare la loro stazione.
“Il mio progetto era di realizzare un film d’azione veramente cattivo, ma
alla fine mi è venuto fuori piuttosto mite.”
Josef Fares
BIOGRAFIA
Josef Fares (1977) si trasferisce nel 1987 dal Libano a Stoccolma con la sua
famiglia. Ha iniziato a girare film in video a 15 anni, realizzandone più di
50. All’età di 21 anni è diventato il più giovane studente di sempre ammesso
alla Dramatiske Institutet Film School di Stoccolma. Prima ancora del
diploma ha girato il suo primo lungometraggio, Jalla Jalla.
Kops is a comedy that takes place in a small town in Sweden. In the film we
meet a group of colleagues at a local police station. A real crime hasn’t
occurred in the past ten years, and the police station is therefore
threatened with closure. Suddenly the local “Kops” have to come up with a
way of saving the police station.
“I had planned to make a really mean action flick, but it still turned out
pretty
tame in the end."
Josef Fares
BIOGRAPHY
Josef Fares (1977) moved with his family from Lebanon to Stockholm in 1987.
At the afge of 15, he became the youngest student ever at the Dramatiske
Institutet Film School.
FILMOGRAFIA
Coola Killar (2000, cm), Jalla Jalla (2000), Kom då (2002), Koops (2002).
ERMANNO OLMI
IL MESTIERE DELLE ARMI
sceneggiatura/screenplay: Ermanno Olmi
fotografia/photography (35 mm, colore): Fabio Olmi
montaggio/editing: Paolo Cottignola
musica/music: Fabio Vacchi
scenografia/art direction: Luigi Marchione
costumi/costumes: Francesca Sartori
interpreti/cast: Tristo Jivkov, Sergio Grammatico, Dimitar Ratchkov, Fabio
Giubbani, Sasa Vuliceviv, Dessy Tenekedjieva, Sandra Ceccarelli, Giancarlo
Belelli, Paolo Magagna, Nikolaus Moras, Claudio Tombini, Aldo Toscano,
Michele zattera, Vittorio Corcelli, Franco Calmieri, Paolo Roversi,
Francesca Lonardelli
produzione/production: Cinemaundici, RaiCinema, Studio Canal,
Taurusproduktion
contatto/contact: Mikado
durata/running time: 109’
origine/country: Italia, Francia, Germania 2001
Giovanni dalle Bande Nere, all’anagrafe Joanni de’ Medici, nato nel 1498 e
nipote di Papa Clemente VIL, fu già, all’età di ventotto anni, capitano
dell’armata pontificia nella campagna contro i Lanzichenecchi di Carlo V,
imperatore alemanno. Stimato e valoroso guerriero, abile condottiero, fu
nobile cavaliere del “mestiere delle armi” e dell’arte della guerra: una
figura leggendaria, che, circondata da rivali e da alleati, amante della
vita e corteggiato dalle dame, morì nel 1526.
Giovanni of the Black Bands, born Joanni de’ Medici in 1498 and nephew of
Pope Clemente VII, was already, at the age of 28, captain of the pontifical
army in the battle against the Lanzichenecchi, followers of Charles V, the
Emperor of Germany. An esteemed and valiant warrior, and skilled
“condottiere,’ he was the noble knight of the “profession of arms” and the
art of war. He was a legendary figure who, surrounded by rivals and allies,
a lover of life and an avid suitor of women, died in 1526.
“Esiste una specificità di ogni mestiere. Giovanni delle Bande Nere non era
un feroce tagliatore di teste o un guerrafondaio, ma solo un comandante
severissimo che faceva il cosìddetto “mestiere delle armi”. Svolgeva un
servizio e, del resto, la sua corrispondenza fa vedere come lui avesse un
forte senso degli affetti, della famiglia, degli amori. […] Non è per niente
un eroe ambiguo: mi sono innamorato di Giovanni perché muore come ha
vissuto, con autorevolezza e lealtà. E così come ha capito che per fare il
comandante doveva essere autorevole, nello stesso modo ha intuito che
attraverso la morte anziché farsi grande doveva farsi piccolo.”
Ermanno Olmi, Lasciate che la realtà vi parli, “Film Maker’s Magazine”, n.
6, luglio-agosto 2001, p.1
There is specificity in every profession. Giovanni of the Black Bands was
not a ferocious head-chopper or a warmonger, but a very strict commander who
practiced the so-called “profession of arms.” He carried out a service and
his correspondence shows that he had a strong sense of emotional ties, of
family, of love. […] He is by no means an ambiguous hero: I fell in love
with Giovanni because he died as he lived, with authority and loyalty. And
just as he understood that he had to be authoritarian in order to be a
commander, in the same way he understood that through death, instead of
making himself more grandiose, he had to make himself smaller.
Ermanno Olmi, Lasciate che la realtà vi parli, “Film Maker’s Magazine,” No.
6, July-August, 2001, p.1
Il mestiere delle armi sembra collocarsi, a un primo sguardo, tra i film di
Olmi che mettono in scena una scomparsa, o che lavorano alla
rappresentazione di un processo di estinzione: attraverso il racconto non
lineare degli ultimi giorni di vita del capitano di ventura Giovanni delle
Bande Nere, colpito a tradimento sul campo di battaglia da una “botta di
falconetto” (una nuova e potentissima arma da fuoco ceduta ai Lanzichenecchi
di Zorzo Frundsberg dal tradimento di Alfonso d’Este, duca di Ferrara), Olmi
disegna un solenne e struggente poema visuale non solo sulla fine di un uomo
e di un soldato, ma anche sul tramonto di un mondo, di un codice d’onore, di
un modo di intendere e di praticare la guerra.
Gianni Canova, Regista della precarietà e degli umili, “Letture”, gennaio
2003, pp. 97-98
At first glance, The Profession of Arms seems to belong among those of
Olmi’s films that deal with a disappearance, or the process of extinction.
Through the non-linear story of the last few days in the life of Captain of
fortune Giovanni of the Black Bands, struck down traitorously on the battle
field by a “botta di falconetto” [ancient weapon similar to a small cannon,
trans. note], (a new and extremely powerful arm given to the Lanzichenecchi
by Zorzo Frundsberg as a result of the betrayal by Alfonso d’Este, Duke of
Ferrara), Olmi creates a powerful visual poem, not only on the death of a
man and a soldier, but also on the twilight of a world, a code of honor; of
a way of understanding and waging war.
Gianni Canova, Regista della precarietà e degli umili, “Letture”, January
2003, pp. 97-98
MATERIALI DI DOCUMENTAZIONE
DALLE PUBBLICAZIONI DEL FESTIVAL
JOHN SAYLES e il cinema indipendente americano
Edizioni Lindau
A cura di Roberto Pisoni e Giovanni Spagnoletti
John Sayles, Filmmaker. Introduzione, di Davide Ferrario
IL CINEMA INDIPENDENTE USA DAGLI ANNI OTTANTA A OGGI
Come rimanere indipendenti di John Sayles
Cinema indipendente: alcuni malintesi di Franco La Polla
Eravamo tanto punk. La “New Wave” newyorkese degli anni ’80 di Guido Chiesa
Ballando coi lupi mannari. John Sayles nella Hollywood di Corman di Robert
Keser
Le quattro “J” della New New Hollywood. Lo “spirito” indipendente, storie di
diaspore e censure di Luca Guadagnino
Cinema “indie” contemporaneo, uno spartiacque di Anthony Kaufman
JOHN SAYLES, VOCI, RACCONTI, CONVERSAZIONI
La variabile indipendente. Intervista a John Sayles a cura di Roberto
Amoroso e Roberto Pisoni
La morale e il metodo. Intervista a Maggie Renzi a cura di Roberto Amoroso e
Roberto Pisoni
“Un regista che gioca per la squadra” . Intervista a David Strathairn a cura
di Roberto Pisoni e Natasha Senjanovic
Scrivere un dialogo di John Sayles
Voglio raccontarvi una storia di John Sayles
1976-1996: i miei film politici preferiti di John Sayles
STORIE, POETICA, FILM
Fluxus Sayles di Roberto Silvestri
Del mito al presente singolare di Giona A. Nazzaro
American Storyteller. I romanzi di John Sayles di Violetta Bellocchio
Il cinema di Sayles e la rappresentazione dell’altro di Giuliana Muscio
Uno “sporco” gioco chiamato lotta per il lavoro. Il baseball e gli “otto
uomini fuori” di Olaf Möller
Ribaltare la tradizione. John Sayles e i generi di Leonardo Gandini
La “fiction” imperfetta. John Sayles e la televisione di Diego Del Pozzo
Il sorriso capovolto. Ironia, satira e paradosso nei film di John Sayles di
Franco Marineo
Il posto segreto in cui tutte le voci vengono a morire. John Sayles e il
fantastico di Roy Menarini
Fra leggenda e rimozione. John Sayles e il rapporto con la storia di Gianni
Canova
Sunshine State o lo stato delle cose. Una mappa dello scontento americano
nell’era della “disneyficazione” di Kent Jones
Biografia di Roberto Pisoni e Violetta Bellocchio
Filmografia e Bibliografia
JOHN SAYLES, FILMMAKER
Introduzione
di Davide Ferrario
La prima volta che vidi un film di John Sayles fu al Florence Film Festival,
più di vent’anni fa. Si trattava di Return of the Secaucus Seven, ed era
preceduto dalla fama di essere stato un clamoroso successo negli USA,
rappresentando in modo originale la crisi del “movimento” americano a
cavallo degli anni ottanta.
In effetti, le immagini di quel 16mm sgranato che grondava sincerità low
budget a ogni inquadatura mi colpirono per la loro semplicità, intelligenza
e ironia. Poi, nell’ultima scena del film, Maggie Renzi si ritrova a
cucinare una grande omelette per tutti quanti i “reduci”, salvo scoprire che
ormai ciascuno se ne è andato via seguendo la sua strada. A quel punto –
ultima battuta del film – Maggie dice: “And now, what I am going to do with
all these eggs”? (“E adesso, che me ne faccio di tutte queste uova?”).
Feci un salto sulla sedia quando vidi che il traduttore aveva optato per
questo sottotitolo: “E adesso, che me ne faccio di tutta questa (virgolette)
difficile umanità (chiuse virgolette)?”
Cito questo episodio apparentemente marginale perchè credo che quell’errore
riveli qualcosa di importante. Ho provato a pensare al povero traduttore
alle prese con la materia di quel film: le lotte degli anni Settanta, il
riflusso, il femminismo, la crisi: roba tosta. Tanto tosta da spingerlo a
credere che un film del genere non si poteva chiudere con una battuta sulle
uova. Bisognava dare ben altro tono al finale, qualcosa che – nella cattiva
coscienza di noi italiani di sinistra in crisi di identità all’inizio degli
Ottanta (ma ve li ricordate i film che facevamo allora?) – qualcosa che,
dicevo, mandasse un messaggio. Ed ecco così la forzatura della metafora:
perchè di questo si trattava, non di uno stupido errore professionale. Della
deliberata scelta di un salto di codice.
Il punto è proprio questo: John Sayles non ha mai avuto bisogno di metafore
(salvo negli script fantasy, ma questa è un’altra storia). Fin da Secaucus
Seven è stato un regista fedele alle cose, alle persone, alle storie. Con
un’onestà e una coerenza che in Europa, contrariamente che in patria, gli
sono costati una minore popolarità a paragone di altri registi indipendenti
più trendy, tipo Jarmusch. In America, invece, Sayles è amato e rispettato
nella sua specificità culturale: è uno dei pochi umanisti prodotti dalla
scena USA in questi anni. Un umanista americano, sia ben chiaro, che si
vanta ribaldamente di non aver mai letto un libro pubblicato da più di 100
anni. Ma senza dubbio un regista, sceneggiatore, scrittore che mette al
centro del suo interesse gli uomini e le donne nel reticolo dei loro
rapporti sociali e personali, e che riconduce sempre la loro esistenza alla
profonda dignità della vita. Lo fa con ironia e con un senso del cinema
assolutamente, profondamente americani; con una finezza di dialoghista che
lo ha reso sceneggiatore ricercatissimo da Hollywood (ed è per questo,
purtroppo, che i suoi film perdono moltissimo nel doppiaggio); e lo fa –
infine e soprattutto – con uno spirito indipendente che lo rende una figura
assolutamente straordinaria nel panorama del cinema e della cultura
americani.
Mi piace pensare che è per questo sentimento di fondo che siamo amici da
vent’anni e che – pur facendo due tipi di cinema totalmente diversi –
rispettiamo in ciascuno la necessità interiore di fare film: che è, tirate
le somme, l’unica motivazione veramente morale per definirsi regista.
Ancora una nota a proposito di Secaucus Seven, per chiarire l’indole e le
idee di John Sayles. Quando uscì Il grande freddo (The Big Chill, 1983) di
Lawrence Kasdan molti chiesero a John se non si sentiva “copiato”. Le
similarità tra le due storie sono in effetti quantomeno imbarazzanti.
John rispondeva costantemente di no, che non si sentiva affatto defraudato
di un’idea. Non era solo magnanimità. John sottolineava un fatto cruciale:
“Quelli di Kasdan sono tutti personaggi perdenti, che hanno fatto carriera e
lo vivono con un senso di colpa. I miei personaggi non sono affatto
perdenti. Non si percepiscono come tali perchè fanno lavori normali e non
sono diventati ricchi e tristi. Fanno i conti col presente, ma non rinnegano
o rimpiangono il passato. E questa è una differenza radicale tra i due
film”.
Infatti. I film di John non si accontentano della nostalgia o dell’analisi
di un problema. Le sue storie forse non contengono un’utopia, ma certamente
una speranza (1). Una speranza che, come alla fine di Limbo, non è garanzia
di nulla. Ma è un appello radicale alla necessità, da parte degli esseri
umani, di fare una scelta per cercare di cambiare la propria vita.
* * * * *
Il giorno che ho conosciuto John Sayles e Maggie Renzi, la sua compagna di
vita e lavoro, era il gennaio dell’83 e ci trovavamo a Rotterdam, sotto un
gelido vento del nord. John aveva 33 anni, io sei di meno. (Non dico questo
per autobiografismo, ma perché scrivere queste righe mi sta fornendo anche
la misura del tempo passato tra un’epoca giovanile in cui si pensava al
cinema in un certo modo e questa nostra mezza età di molti film dopo,
amaramente più consapevole).
Allora io non avevo alcun progetto o intenzione di fare il regista. Mi
bastava il lavoro di distributore e organizzatore culturale. Per questo ero
a Rotterdam, al festival di Hub Baals, figura mitica del circuito
festivaliero di quei tempi. E per questo, tramite amici comuni, fui
presentato a John e Maggie. Avevano appena finito di girare Fratello di un
altro pianeta e proposi a John di organizzare la sua prima retrospettiva
italiana al Bergamo Film Meeting. Accettarono.
Così, quell’anno diventammo amici. Non solo. In quei mesi cambiai anche
mestiere e diventai agente per l’Italia dei molti registi independenti che
si affacciavano allora alla ribalta: Jarmusch, Susan Seidelman, Godfrey
Reggio – e naturalmente John Sayles. Cominciai ad andare avanti e indietro
dagli USA piuttosto spesso, vedendo crescere una generazione di cineasti che
venne caricata di aspettative forse troppo grandi. Spesso mi ospitava Guido
Chiesa a New York; ancora più spesso John e Maggie a Hoboken.
Anche in questa scelta era implicita una visione del mondo. Hoboken è molto
vicina a New York, giusto il tempo di attraversare il Lincoln Tunnel: ma non
è New York, è New Jersey. Non è più la grande città, era la provincia dove
marcivano abbandonati i docks su cui era stato girato Fronte del porto (On
the Waterfront, 1954, di Elia Kazan); e dove le luci della Grande Mela si
vedevano solo da lontano, al di là dell’Hudson. John abitava in una casetta
di mattoni a tre piani, indistinguibile da tutte le altre della Tredicesima
Strada. Le sue frequentazioni non erano i circoli intellettuali di Soho, che
allora cominciava ad essere colonizzata dagli artisti, ma luoghi come la
palestra della YMCA di Hoboken. Lì, nello spogliatoio che anch’io usavo
prima della partita di basket, si incontravano i blue collars, i camionisti,
gli impiegati e i piccoli commercianti che sono i personaggi delle storie di
John.
Già allora John era popolarissimo e considerato una specie di genio. E a
ragione. Era stato infatti insignito del cosidetto “Genius Award” della
McArthur Foundation, un vitalizio di 50.000 dollari annui. Ma non l’ho mai
visto, nè allora nè dopo, darsi alcuna importanza. Nè l’ho mai visto
indossare altro che semplicissimi pantaloni e una camicia: o, d’estate,
degli imbarazzanti short accoppiati a una canottiera da mercato rionale. Un
abbigliamento che, accoppiato alla solida corporatura irlandese e ai suoi
1,96 di altezza, gli dànno semmai il look del muratore. Non è un
atteggiamento. John è semplicemente così. Un uomo tanto per bene e fuori
dalle mode da disorientare (2).
Una delle frequentazioni di casa Sayles, a quei tempi, era un altro famoso
residente del New Jersey: Bruce Springsteen. Non poteva essere altrimenti:
l’ispirazione dei due era troppo simile. John girò per The Boss tre video
dall’album Born in the USA. A differenza del gusto corrente all’epoca (ma
anche di quello di adesso), più che di videoclip si trattava di
cortometraggi a forte carattere documentario. Il mio preferito è Glory Days,
con Bruce che insegna a giocare a baseball al figlioletto e la sera si
esibisce con la band sul palco di Maxwell’s. E uno dei ricordi più belli
quel periodo è il concerto di Springsteen a Milano nel 1986, visto con John
e Maggie dal backstage di San Siro.
Questo tratto non-metropolitano del carattere di Sayles spiega anche il suo
rapporto con Hollywood. John non sfugge le majors per principio, ma nemmeno
è mai stato disposto a cedere sulla sua autonomia creativa. Il tempo e
alcune cattive esperienze hanno creato un singolarissimo equilibrio: per
Hollywood John scrive pagatissime sceneggiature e con quei soldi si finanzia
film a basso o medio costo che poi vengono distribuiti dalle divisioni
classics delle multinazionali.
Noi italiani parliamo spesso pomposamente di “filmmaker indipendenti
americani” senza capire che ci sono due tipi di indipendenti. Quelli che lo
sono per necessità – e appena ne hanno l’occasione prendono casa a West
Hollywood; e quelli che, come John, lo sono per convinzione. Il punto è che
la nostra esperienza del concetto di “indipendente” è influenzata dalla
situazione italiana, dove l’indipendenza non è considerata una questione di
potere, ma piuttosto una specie di etichetta artistica. Cosa significhi e
cosa costi essere indipendenti in America io l’ho capito davvero solo quando
ho firmato un contratto con la Miramax di Harvey Weinstein (che John, dopo
la sua propria esperienza, soprannominò Harvey “Manidiforbice”). E questo mi
ha fatto apprezzare ancora di più la lotta pluriennale di John per non
cedere ai ricatti, alle trappole e alle sirene del sistema. Anche in questo
John (che è una miniera di gustosissimi “dietro le quinte” hollywoodiani) è
un artista di un’integrità adamantina, anche se mai innocente né ingenuo.
* * * *
Nel 1986 John e Maggie mi chiesero di partecipare alla realizzazione di
Matewan. Il film è ambientato negli anni ’20 tra i minatori della West
Virginia, dove – fuggendo dal fascismo e dalla miseria – finisce anche una
colonia di emigrati italiani del Nord (3). Matewan era a quel punto la
produzione più impegnativa che John e Maggie avessero mai realizzato. Con
mia grande sorpresa mi offrirono un piccolo ruolo di attore, il compito di
Italian dialogue coach e in generale di consulente storico. Avevo
l’occasione di passare più di due mesi sul set e non me la lasciai sfuggire,
anche se quando uno pensa a un set in America ha forse aspettative più
emozionanti di Beckley, West Virginia – una cittadina dove, dopo la chiusura
delle miniere, la disoccupazione era altissima.
Fu un’esperienza forte, durante la quale conobbi attori che sono ancora
amici carissimi, a cominciare da Chris Cooper (oggi fresco di Oscar, ma
allora, pochi mesi dopo Matewan, inteprete del mio primo corto assieme a
Mariella Valentini!). E poi David Strathairn, Mary McDonnell, Josh Mostel. E
Will Oldham, tredicenne, che mi rividi capitare a Bergamo sette anni dopo
dicendo che voleva imparare a fare il saldatore (e che poi scoprii da un dj
di Radio Popolare essere diventato un cantante folk di culto...). E ricordo
James Earl Jones, un vero mito; e il grandissimo Haskell Wexler alla
fotografia, che si rivolgeva a macchinisti ed elettricisti chiamandoli
“Fellow workers” (“Compagni lavoratori”) e che considerava le troupe
italiane le migliori del mondo...
Non mi ricordo invece il nome di quella comparsa con cui passai la notte a
camminare su e giù per il pendio davanti alla miniera, prima della grande
scena dello sciopero. Aveva 25 anni ed era zoppo a causa di un incidente sul
lavoro dopo il quale era stato licenziato. Arrancava per la salita
faticosamente, ma la comparsata gli serviva per tirar su un po’ di soldi per
la famiglia. Parlammo delle sue disavventure e dei suoi progetti. Ben
consapevole che nessuno l’avrebbe più preso a fare un lavoro “vero”, mi
confidò la sorprendente aspirazione di diventare pescatore professionista.
Li vedeva alla tv questi tizi, diceva, partecipare a gare di pesca con
ingaggi e premi, come i golfisti. Era assolutamente convinto della sua idea:
e la sua speranza non era percorsa dalla rabbia contro un sistema che
l’aveva ridotto così. Io lo ascoltavo e mi sembrava di capire davvero
l’America, in quel momento – il modo in cui il Sogno Americano vive
costantemente sul precipizio dell’incubo. Una tipica storia alla Sayles, in
verità.
Quella stessa scena prevedeva che io, una volta dichiarato lo sciopero,
cominciassi a fischiettare Bandiera rossa. E che tutti gli altri, americani
bianchi e neri e italiani (finti), mi imitassero. Essendo l’unico a
conoscere la canzone, mi trovai a insegnarla velocemente a tutte le
comparse. Fu una scena abbastanza paradossale. Ma la conseguenza più
surreale di tutte fu che, dal giorno dopo, ogni volta che incontravo per
strada una comparsa, quello, amichevolmente, si metteva a fischiettare
“Avanti o popolo”, totalmente ignaro del significato della canzone. Avvenne
così che per qualche giorno Bandiera rossa entrò nella hit parade popolare
della West Virginia.
Ricordi a parte, Matewan fu la mia scuola di regia. Non nel senso artistico
(è evidente che i miei temi e i miei modi sono molto diversi da quelli di
Sayles): ma certamente nel senso morale del termine. Io provenivo da
suggestioni ferreriano/fassbinderiane, da atmosfere cannibalesche in cui i
ricatti esistenziali producevano senso sulla scena, in un viluppo
inestricabile di cui il regista era il demiurgo. Pensavo che il cinema fosse
“una sacra puttana”. (4)
Sul set di John imparai che il rispetto un regista non se lo guadagna per il
ruolo gerarchico, ma per l’autorevolezza del suo lavoro. Imparai che a una
troupe puoi chiedere tutto, anche se non capisce perchè, solo se sai creare
in ciascuno di loro la fiducia in un progetto. Che non significa spiegare la
sceneggiatura al gruppista: ma far sentire a tutti che si sta andando in una
direzione.
Su questo e altri set, non ho mai visto John arrabbiarsi o alzare la voce,
anche in condizioni problematiche. Da lui ho mutuato la convinzione che, se
ci sono dei guai, è il regista che deve risolverli facendosi venire una
nuova idea, non prendendosela con l’eventuale autore del dànno. Credo sia
anche questa la ragione per la quale, oltre alla qualità delle opere, tutti
vogliono lavorare con lui: per il senso di intrinseca serietà che il lavoro
del cinema prende su uno dei suoi set. Non è poco per un mestiere che spesso
si estrinseca nei modi di una fiera delle vanità.
Dal punto di vista artistico, i film di John corrispondono in modo quasi
maniacale alle sue sceneggiature. C’è poco spazio per le improvvisazioni,
molto per l’approfondimento con gli attori. Questo ha sempre influenzato il
suo stile: visivamente, le immagini sono subordinate al dialogo e alle
performance recitative. Nonostante ciò, John ha lavorato con alcuni
grandissimi direttori di fotografia: oltre a Wexler, ricordo Michael
Ballhaus, Robert Richardson, Roger Deakins...
Quanto al montaggio, sono ormai diversi anni che si monta i film da solo,
sulla moviola (!) sistemata nel garage di casa. Una volta gli ho chiesto
come mai (personalmente, trovo che si possa fare a meno di molte cose, su un
film, anche dei soldi: ma non di un montatore). La sua risposta è stata
disarmante: “Guarda, me li monto da solo così non devo fare i conti con
qualcuno che si preoccupa di cosa penseranno gli spettatori. Tanto lo so che
i miei film hanno un pubblico limitato: almeno li faccio come li voglio io
fino in fondo”. Era il 1996, eravamo appena usciti dall’anteprima di Stella
solitaria – che di lì a poco sarebbe diventato il suo più grosso successo
commerciale dopo Secaucus Seven.
Nel 1989 cercai di ricambiare il favore (se così si può dire) e chiesi a
John di interpretare una parte nel mio primo film, La fine della notte.
Quella fu la prima volta che lo vidi arrabbiarsi su un set: ma con se
stesso. Aveva deciso di non essere doppiato, però continuava a impicciarsi
su una battuta in italiano. Dopo sette o otto tentativi dissi che potevamo
cambiare la battuta o lasciar perdere. John quasi mi intimò di proseguire,
perchè l’avrebbe finalmente detta giusta. Cosa che avvenne, naturalmente.
Non accettava di poter sbagliare, lui, tutto qui.
A casa di John e Maggie ho vissuto alcuni momenti chiave della storia
recente. La dissoluzione del PCI al congresso di Rimini, per esempio, che mi
ritrovai a spiegare ai miei amici con una certa difficoltà. E anche la prima
guerra del Golfo. Quell’anno a John venne chiesto di presentare la serata
finale del Sundance Festival. C’era molta pressione perchè leggesse sul
palco una mozione contro la guerra. Il comportamento di John fu rivelatore
del suo modo di essere. Personalmente convinto della mozione, ma anche
consapevole che non era lì in quanto se stesso, ma in quanto rappresentante
del Festival, fece distribuire agli invitati un volantino in cui, esponendo
le ragioni della mozione, chiedeva una sorta di autorizzazione morale a
leggerla in pubblico. I voti contrari furono in maggioranza e John se ne
stette (a malincuore) democraticamente zitto.
* * * *
A metà degli anni Novanta John e Maggie lasciarono Hoboken e andarono a
vivere a Stanfordville, due ore di macchina a nord di New York. Certo, c’era
la comprensibile attrazione per la campagna. Ma più di tutto, il fatto era
che Hoboken stava cambiando, come potevo vedere a ogni nuova visita. Come
succede inevitabilmente alle aree vicine alla metropoli che hanno ancora
spazio e verde, Hoboken si è andata via via trasformando in un cittadina
residenziale per la middle class impiegatizia. Sparivano i vecchi negozi
italo-americani (in fin dei conti a Hoboken è nato Frank Sinatra) e
comparivano le boutique griffate, secondo una schema che ben conosciamo
anche noi. Dell’epoca gloriosa di Hoboken sono rimaste giusto le partite di
basket del venerdì sera alla “Y”, alle quali John continua a non mancare.
Noi abbiamo continuato a vederci, tutte le volte che possiamo. Ma c’è un
fatto curioso. Se prima parlavamo di cose che si potevano fare, adesso,
principalmente, ci raccontiamo storie. Forse, a un ascoltatore esterno,
sembriamo dei matti. Ma è davvero così: non parliamo tanto di noi stessi,
delle nostre vite ormai in qualche modo “sistemate”, nè di progetti in senso
pratico. Ci raccontiamo le storie che ci siamo inventati o in cui ci siamo
imbattuti nel periodo che non ci siamo visti. Ci scambiamo storie perchè,
senza dircelo, sentiamo che, in quest’epoca postmoderna sempre meno
umanista, è una delle poche cose oneste che restano da fare. Nelle
narrazioni, con i loro paradossi e le loro contraddizioni, si nasconde il
vero senso del mondo – non nelle spiegazioni logiche o ideologiche, nei
significati.
C’è un’altra cosa, credo, che abbiamo maturato insieme, come uomini e come
filmmaker. Col tempo ci si rende conto dell'illusione giovanile per cui si
pensa che con i film si possa cambiare il mondo nel modo che si desidera. Il
fatto è che i film possono effettivamente toccare le vite di chi li vede –
ma non nel modo in cui ci si aspetta. In fin dei conti, non siamo i registi
delle vite altrui. A quel punto, ci sono due tipi di reazione. O ti rifugi
nel cinismo più pessimista; o decidi di continuare a essere te stesso,
ancora di più, fregandotene delle aspettative del mondo, ma continuando
caparbiamente a testimoniare, fregandotene delle mode e delle tendenze.
Qualche tempo fa John mi ha confidato che non legge nemmeno più le
recensioni dei suoi film. È una frase sorprendente, pronunciata da un uomo
che geneticamente ignora lo snobismo. Ma questo atteggiamento forse spiega
perchè dopo Amori e amicizie (due nomination all’Oscar), John abbia
cominciato ad avventurarsi in film sempre coerenti, ma per certi versi
sorprendenti e nuovi. Dalla favola de Il segreto dell’isola di Roan alla
visionarietà davvero insolita di Angeli armati per arrivare alla quasi
schizofrenica struttura di Limbo.
Ormai da anni vedo John, con quella sua buffa andatura prodotta dalla
mancanza di una vertebra (autoironicamente messa in scena in Fratello di un
altro pianeta), ciondolare tra la casa e il garage, sempre preso a montare,
scrivere, leggere, pensare. La grande, semplice e disadorna casa di campagna
di Stanfordville è diventata il simbolo della condizione di un autore che,
mentre cresce il riconoscimento del suo status, sente che questo corrisponde
in effetti a una sempre maggiore difficoltà a incidere sul reale. Sia ben
chiaro che questo non significa isolamento sociale. L’ultima volta che ci
siamo visti John era appena tornato da Timor Est, dove era andato in
missione umanitaria nell’ambito di un programma delle Nazione Unite.
La verità è che non riesco neanche a immaginare John nelle vesti di regista
solipsistico. Semmai sono la critica e il pubblico ad avere la pericolosa
tendenza a pensare a un autore come a un mondo chiuso e separato, non come
all’espressione di quello che gli sta intorno, e a rinchiuderlo per esempio
nell’etichetta di “regista di impegno civile”. Dai lontani anni in cui ho
cominciato a frequentare regolarmente gli Stati Uniti, mi è sempre stato
chiaro che esistono due tipi di registi americani. Ci sono quelli che
descrivono la propria società attraverso il filtro del cinema, facendo
riferimento ai film prima che alla vita (tutta la generazione della New
Hollywood, per esempio); e ci sono quelli che per fare i film si basano
sulla vita vera, senza mediazione. Questa distinzione non implica un
giudizio di merito: è solo per dire che John Sayles appartiene sicuramente
alla seconda categoria. Se uno vuole capire com'è davvero la società
americana, nel bene e nel male, fuori dai confortanti schemi
autoreferenziali dei generi e del metacinema, i film di John Sayles sono uno
strumento insostituibile (come i suoi libri, del resto: il racconto I-80
Nebraska, m.490-m.205 è una rappresentazione della paranoia americana
folgorante almeno quanto un film di David Lynch). Implicano però in chi li
vede un’umiltà e una passione morale parallela a quella di chi li ha fatti.
Ed è questo l’invito più sensato che mi sento di fare ai frequentatori di
questa retrospettiva. Non è un caso che in questi mesi così tragici, per
capire cosa davvero capitava nell’America che non viene raccontata sui
giornali o in tv, abbia scambiato e-mail quasi quotidiane con John e Maggie.
Derivandone, se a qualcuno interessa, una piccola ma genuina speranza su
quel grande e terribile paese.
NOTE
(1) Non è un caso che Sayles abbia girato un film intitolato City of Hope e
che la sua casa di produzione si chiami Esperanza.
(2) È significativo che Andrew Sarris, il famoso critico del “Village
Voice”, abbia scritto nel 1993 un articolo su “Film Comment” in cui
praticamente si scusava con Sayles per non averlo considerato abbastanza
prima di allora, per la ragione che non credeva alla sua immagine pubblica.
Che un regista importante potesse anche essere una persona normale gli
sembrava “Too good to be true”, troppo bello per essere vero.
(3) Storicamente fu proprio così. In America non andarono solo meridionali.
Dopo qualche tempo scoprii che la padrona dell’albergo in cui stavamo si
chiamava Bonomi e aveva ancora la fotografia del bisnonno scattata nello
studio del fotografo Taramelli di Bergamo, proprio da dove venivo io...
(4) In verità, lo penso ancora, della sua natura profonda. Ma non
necessariamente del modo in cui può essere realizzato.
ARRIVA (MEET) JOHN SAYLES
Di Lorenzo Pellizzari
Mi piacerebbe essere considerato un saylesiano (oddio, suona come salesiano)
e nell’intimo lo sono, anche se ho ampiamente recensito solo due dei suoi 16
film da regista (Angeli armati e Limbo) e poi ho deciso di “portarmelo” nel
2000 fra i 125 autori che “Cineforum” intendeva “salvare” a speranzosa
memoria. Per inciso, ho parlato di 16 film da regista (tra il 1980 e il
2003), ma come dimenticare – anche se i titoli sovente si sovrappongono – i
suoi 21 film da attore (1978-2000), i suoi 30 da sceneggiatore (1978-2003),
i suoi 10 da editor (1980-2002), i suoi 2 da producer (1997-2000)? Un
panorama sterminato (e spesso sterminatore) per un poco più che
cinquantenne, per di più newyorkese (e dite poco), che purtroppo noi
conosciamo, nei circuiti ufficiali, molto relativamente (tanto poco che una
recente silloge italiana sul cinema americano ha ritenuto di escluderlo
dall’attenzione) e che salvo errore solo 11 dei film da lui diretti sono
stati malamente, molto malamente, distribuiti in Italia.
Ma, al di là dei numeri, facciamo qualche passo indietro. Nelle sue
anticonvenzionali memorie (Come ho fatto cento film a Hollywood senza mai
perdere un dollaro, Lindau, Torino 1998) il vecchio Roger Corman cita con
debito orgoglio i nomi dei “laureati” alla “scuola” da lui creata negli anni
Settanta, la New World Pictures, ovvero, come lui stesso la definisce, “un
istituto alternativo per il cinema indipendente”: futuri produttori e
registi che si sarebbero chiamati Martin Scorsese, Jonathan Demme, Ron
Howard, Joe Dante, Jonathan Kaplan, Allan Arkush, James Cameron, Jon
Davison, Gale Anne Hurd, Frances Doel, Barbara Boyle e... John Sayles. Non
diciamo ovviamente degli altri (su alcuni dei quali nutriamo qualche
sospetto, proprio in termini di “indipendenza”, o qualche dubbio sulla
progressione dei risultati) ma appunto dell’ultimo, che forse è l’autore più
anomalo dell’altro cinema statunitense, almeno fra coloro che bene o male
raggiungono le nostre sale (non foss’altro d’essai).
Sono trascorsi quasi vent’anni da quando il Bergamo Film Meeting (allora
alla seconda edizione) privilegiava con bella lungimiranza John Sayles
dedicandogli, a cura di Davide Ferrario, una “personale”, e ne sono
trascorsi quasi quindici da quando Sayles entrava di persona nel nostro
immaginario apparendo fra gli interpreti, in un ruolo stravagante ma
intenso, de La fine della notte dello stesso Ferrario. Se non capita tutti i
giorni che un filmmaker americano reciti per un filmmaker italiano (ma i due
si erano già scambiate le parti nel caso di Matewan), non capita nemmeno
tutti gli anni che l’oggetto di una mostra informativa meriti nel tempo
l’attenzione dedicatagli.
Il segreto del cinema di Sayles sta forse proprio nella “scuola” di
sceneggiatura applicata, più che frequentata, ai tempi della factory di
Corman: “Il bello di Roger”, testimonia l’“allievo” nel libro citato, “è che
lui i film li fa, senza tanto casino. Con lui impari, scrivi, discuti il
soggetto e tutto quanto. E alla fine vedi davvero il tuo lavoro tradotto in
cinema” (anche e soprattutto perché – specifica in un’intervista – “non
lavori per un regista, di cui ignori persino il nome, ma per un film”). È un
buon messaggio per il futuro prossimo venturo, soprattutto se contrapposto
alla pratica che lo stesso Sayles denuncia in quella testimonianza: “Negli
studios devi assediare e perseguitare un tizio finché questo passa le tue
cose a quello che viene dopo... Non credo che le riscritture migliorino il
film. È solo che, nelle major, i diversi funzionari coinvolti nel processo
produttivo sentono il bisogno di ‘marcare il terreno’ al proprio passaggio
sul tuo lavoro”. Insomma, ci aggiungono la loro pisciata.
Ma una buona idea, magari caparbiamente perseguita, e una buona
sceneggiatura della quale si abbia il controllo (accompagnate da amichevoli
consigli e da disinteressati giudizi) non sarebbero sufficienti a garantire
la ricetta e ad assicurare l’esito se non subentrassero determinazione e
rigore, due qualità che a Sayles non paiono mancare, sia quando
dichiaratamente si muove tra B-movies “di qualità” sia quando realizza
prodotti semplicemente “poveri”. Credere in lui significa credere in una
certa nozione di cinema che siamo abituati ad attenderci da certi film
europei, specie se provenienti da paesi considerati marginali (magari il
Belgio, magari la Norvegia, magari il Portogallo) ma che difficilmente
verifichiamo sull’altra sponda dell’Atlantico.
Attenzione, però, a non considerare un regista come Sayles (e i pochi altri
a lui accomunabili) alla stregua europea, con la presunzione magari di
ritenerli un indotto del nostro cinema d’autore. Il bello è che lui resta
tipicamente americano, una sorta di “fratello di un altro pianeta”, proprio
il pianeta Mongo (in perenne rotta di collisione con la Terra) del quale
spesso giustamente diffidiamo e con il quale raramente (o solo a prova
avvenuta) concordiamo.
Ma, a voler essere un po’ anacronisticamente contenutisti, basterebbero i
temi dei suoi film (qui un po’ rozzamente sintetizzati) a rendercelo vicino:
la “rimpatriata”, a otto anni di distanza, di sette pacifisti sessantottini
(The Return of the Secaucus Seven, un tema che anticipa addirittura quello
de Il grande freddo); la ricerca di indipendenza, anche sessuale, di una
donna bruciata dalla vita domestica (Lianna – Un amore diverso); una love
story interclassista e interetnica (Promesse, promesse), l’accettazione di
un extraterrestre “nero” in una comunità di emarginati (Fratello di un altro
pianeta); le conseguenze di uno sciopero interrazziale (virginiani, italiani
e neri) di minatori (Matewan); un caso di corruzione in una famosa squadra
di baseball (Otto uomini fuori); una storia di corruzione politica che
investe un’intera cittadina del New Jersey (City of Hope – Città della
speranza); l’incontro tra due donne (un’attrice paralizzata da un incidente
e una nurse nera) diversamente provate dall’esistenza (Amori e amicizie –
Passion Fish); una fiaba irlandese con implicazioni (cucciolo d’uomo,
cucciolo di foca) addirittura interspecifiche (Il segreto dell’isola di
Roan); una “western detective story” che attinge da L’uomo che uccise
Liberty Valance come, a suo modo, da Strategia del ragno (Lone Star – Stella
solitaria); una tragedia centroamericana fra desaparecidos, guerriglieri e
disastri operati dall’imperialismo yankee (Angeli armati); una singolare
avventura in Alaska dal finale molto aperto (Limbo), in attesa di Sunshine
State.
Ci si scusi il non richiesto “catalogo”, ma val la pena di riproporlo di
fronte alla promozione tutt’altro che eccelsa e alla distribuzione (non solo
italiana) alquanto criminale di un regista a sua volta non del tutto
lineare, perfino suscettibile di tentazioni hollywoodiane poco giustificate
dal sistema produttivo che ha fatto proprio. Eppure Sayles ha ancora molto
spazio dinanzi a sé, ha ancora le occasioni giuste da giocare, ha ancora
storie per farci commuovere e indignare, nel giusto mix di un cinema di
diversità e di protesta di cui sicuramente abbiamo sempre più bisogno.
Intanto, lui anche romanziere come Michael Cimino, si muove in una
dimensione globale di cinema. Produttori (spesso) e tecnici (sempre) fidati
e affidabili, storie gestite dalla sceneggiatura sino al final cut
(montaggio appunto compreso), capacità di scovare – per quanto riguarda gli
interpreti – futuri professionisti di successo accanto ad attori di un solo
film (si tratti di quasi dilettanti, di glorie locali, di caratteristi di
rango o di straordinari recuperi).
Anche il suo stile non sa di cliché, nemmeno a livello di marchio personale:
si adegua e si umilia, si adatta e si sfida, si muove e si ferma. Capace
com’è di raccontare, di porsi al servizio dello spettatore, non disdegna
qualche lusinga o qualche abbellimento di troppo (il B-movie pur sempre
insegna) ma non rifiuta nemmeno qualche rozzezza o qualche approssimazione
determinate dal budget o da una sorta di “urgenza” (e anche qui il B-movie
fa scuola). Gradevolezza e sgradevolezza, insomma, si incontrano, e
rappresentano lo zoccolo duro del suo cinema, di un cinema che lo spettatore
stenta a ricostruire in filmografia ma di cui sente – magari a distanza di
tempo, magari confondendo le varie tappe, magari provando qualche senso di
resistenza o di resipiscenza – l’unico afflato.
Con i tempi che corrono, definire Sayles un “buon americano” da contrapporre
magari ai “cattivi” sarebbe un’ipocrisia antistorica. È uno che ha scelto la
sua strada, che vuole, deve e riesce (a) lavorare. Uno che ci racconta
storie meno menzognere e più stimolanti di altri. Uno che ha il senso del
cinema. Potrebbe addirittura aver concluso il suo ciclo, oppure proporci
cose persino migliori di quelle prodotte in passato. Lasciamo aperta la
scommessa con una buona dose di inevitabile fiducia in un regista che ogni
volta incontriamo a sorpresa ma che non ci ha mai veramente deluso.
Un’ultima osservazione, in qualche modo già prima accennata. Comunque si
voglia giudicare Sayles e la sua opera, questo tipo di cinema ci manca. È
raro nel panorama delle importazioni ma è altrettanto raro in quello delle
nostre produzioni autoctone. Costituisce una vera e propria sfida
rintracciare da noi un regista attuale (in passato ve ne sono stati
parecchi) che nell’arco di un ventennio, navigando fra storie accattivanti e
vere e proprie provocazioni, abbia saputo mantenere una continuità
lavorativa e un’accettabile qualità media, con punte di grande rilievo.
Almeno questo potremmo imparare, entrati da poco nel nuovo secolo: non
ambire a entrare nella Storia, ma farsi ricordare abbastanza a lungo per le
proprie storie.
È solo un gioco chiedersi o prospettare ciò che ci aspettiamo da Sayles in
futuro. Sicuramente che – senza adagiarsi nella maniera per la quale talora
ha un po’ di propensione – continui a raccontare a modo suo piccole vicende
marginali che hanno tuttavia un grosso impatto nella visione più generale
della società e del mondo; che parta da uno specifico che conosce o impara a
conoscere per “proiettarlo” su spettatori in vari sensi lontani; che sia
animato da una costante “curiosità”, del tipo che permette non di
prefiggersi degli obiettivi o dei temi di intervento ma di cogliere ovunque
quel che capita e quel che merita; infine che tenga fede a una sua
dichiarazione degli esordi: “Quando faccio i miei film voglio che il
pubblico esca dalla proiezione pensando alla gente reale che conosce, non ad
altri film che ha visto”.
V’è persino un’ultima possibilità: che, come il giornalista sportivo Ring
Lardner (nei cui panni è personalmente entrato in Otto uomini fuori), Sayles
provi tale disgusto per come procedono le cose nell’altro cinema da decidere
di abbandonare la professione e di diventare – al pari di quel modello –
soltanto un romanziere, non importa se pulp o di grande tradizione
realistica.
RETROSPETTIVA JOSÉ LUIS GUERÍN
“Un complotto tra il tempo e la luce”
Intervista con José Luis Guerín
A cura di Esteve Riambau
Parlare con José Luis Guerín è un’esperienza arricchente, come guardare i
suoi film. Le sue parole illuminano zone della realtà o della mente che,
all’improvviso, acquisiscono un nuovo significato. Le nostre conversazioni
sono cominciate molto tempo fa, quando lui cercava una copia in cassetta di
The Quiet Man, primo passo di un sortilegio da cui, anni dopo, sarebbe sorto
Innisfree. Un’intervista su questo film per un libro pubblicato in Italia
consolidò una complicità che adesso si riproduce. Da allora sono stato
testimone della sua presenza al festival di Cannes con Tren de sombras e del
successo di En construcción a San Sebastián. Le uscite dei suoi film sono,
senza dubbio, le punte visibili di un iceberg molto più consistente e solo
apparentemente gelido e solitario. Dietro il cinema di Guerín c’è tutto un
mondo, e soprattutto uno sguardo che cerca di catturare la realtà con
l’aiuto di una macchina da presa sempre rispettosa del registro che lui
chiama “orme di luce”. La retrospettiva che quest’anno gli dedica il
festival di Pesaro è un buon pretesto per scoprire quest’universo così
particolare, in cui risulta molto difficile dissociare la naturalezza
dell’opera dalla personalità del suo autore. Ogni nuova visione dei suoi
film permette di scoprire aspetti fino ad allora nascosti nella penombra.
Ogni nuova chiacchierata con Guerín consolida sensazioni e provoca
inquietudini che testimoniano la vita che palpita nel suo cinema.
Come vedi, retrospettivamente, i film che hai realizzato fino ad oggi?
La verità è che non lo so, mi è veramente difficile fare questo tipo di
analisi.
Semplifico la domanda. Cosa provi quando guardi all’indietro?
Una grande tristezza... La mia natura melanconica mi impedisce, tra le altre
cose, di guardare un film che ho realizzato quindici o venti anni fa. Sono
incapace di confrontarmici, è come aprire i diari dell’adolescenza: bisogna
avere coraggio. Recentemente ho dovuto parlare di Los motivos de Berta, ed è
stato molto difficile tornare a vederlo. Dopo tanto tempo non vedi un film,
vedi la tua situazione, gli amici, il fuoricampo e tutta la gente che stava
lì. Sono anche incapace di tornare nei luoghi delle riprese perché stare lì
senza la macchina da presa, senza la troupe, mi provoca una sensazione di
tristezza assoluta.
Hai sempre detto che la tua scuola cinematografica fu la Filmoteca, ma non
era normale che un ragazzo di quindici anni, nel 1975, andasse a vedere film
di Flaherty, Eustache, Ford o Straub. Imparavi da ciò che vedevi o andavi a
cercare i modelli di ciò che volevi imparare?
Tutt’e due le cose. La verità è che era qualcosa di eccezionale, e noi che
allora volevamo fare cinema eravamo terribilmente solitari. Adesso tutti
quanti vogliono girare film, e le scuole o i corsi sono pieni di allievi. Al
contrario, quando ho avuto coscienza di ciò che il cinema significava per
me, non riuscivo a trovare interlocutori con cui chiacchierare. Ad ogni modo
sono molto soddisfatto di quella esperienza da autodidatta perché a
differenza della scuola, dove i maestri ti vengono imposti, al cinema te li
cerchi tu stesso, e ciò ti permette di stabilire un dialogo fecondo con i
film di determinati cineasti che diventano un riferimento, un faro.
Interessante poi è tornare a vederli dopo del tempo, e scoprire come
cambiano i dialoghi, o come cambi tu in relazione ai film, secondo quella
frase di Serge Daney quando parlava dei “film che ci vedono invecchiare”.
La tua relazione con Robert Bresson è stata particolarmente intensa. È vero
che lo conoscesti personalmente e militasti attivamente nel Cinématographe?
Sono stato quattro o cinque volte a casa sua e diedi l’indirizzo a Marc
Recha, ma lui non capì mai Bresson. Fu un po’ prosaico con lui. Comunque è
vero quello che dici: come per qualsiasi integralismo Bresson e il suo
Cinématographe, soprattutto per un adolescente, possono essere qualcosa di
così seduttivo che non ti permette di vedere altre cose. A me successe
durante un periodo, in cui tutto mi appariva molto banale perché giudicavo
le cose in base al Cinématographe. Essere bressoniano, in quell’epoca, ti
attribuiva un posto nel mondo e risolveva più di un problema di identità: ti
dava un qualcosa di più che non ti offriva nessun altro cineasta.
Dalle tue parole sembra una religione...
È proprio così. È curioso come un cineasta che si definiva ateo proiettasse
sul cinema delle idee che incitavano a un certo compromesso morale.
Indipendentemente però da questo aspetto, che forse dovrebbe interessare la
psicoanalisi, scoprii una grande emozione estetica con Bresson. Uscii
stordito dalla proiezione di Lancelot du Lac perché, fino a quel momento, le
emozioni che avevo sperimentato quasi sempre erano provocate dall’empatia
con i personaggi. Al contrario quel film mi diede una sensazione per me
completamente nuova e sconosciuta, sintetizzabile nella scena finale: c’è
stata una battaglia, e il suolo è pieno di corazze; rimane in piedi un
ultimo stendardo che, dopo un po’, cade con un forte strepito. L’immagine
della sconfitta era già palese, ma senza dubbio l’efficacia poetica di
quella sconfitta arrivava con la caduta dello stendardo. Lì cominciai a
pensare che il cinema aveva altre possibilità.
Perché quando parli dei tuoi film quasi non citi altre influenze culturali:
pittura, letteratura, teatro?
Mi dà molta vergogna. Qualche giorno fa mi volevano fare un’intervista per
la rubrica di un giornale in cui le persone appaiono insieme alla propria
biblioteca: mi sembra qualcosa di assolutamente impudico.
Non ti volevo chiedere tanto le tue “Top ten” di libri o quadri preferiti ma
domandarti se, inevitabilmente, filtri gli altri riferimenti culturali
attraverso il cinema.
Quando leggo dei libri stabilisco somiglianze con i film, o sottolineo frasi
che contengono idee potenzialmente utili per un film. Ma mi può anche
succedere il contrario con il cinema: si stabiliscono dialoghi con i libri.
Hai iniziato a fare cinema a soli 15 anni. Cosa ti portò a girare i tuoi
primi cortometraggi in Super 8, nei quali si ritrova già un certo sguardo
personale?
... e anche una grande confusione mentale, la ricerca di un’identità. Io
volevo fare cinema, e l’unico modo possibile era attraverso il Super 8. Ne
approfittavo anche per filmare le ragazze e relazionarmi con loro. La
macchina da presa mi dava uno statuto particolare, ma è altrettanto certo
che fare una fotografia alla fidanzata mi lasciava molto frustrato, perché
vedevo che la bellezza di quella ragazza non veniva catturata, sfuggiva
all’immagine estatica. La bellezza per me aveva a che fare con un ritmo
interno, o con un modo di guardare che necessitava di un certo fluire
temporale. Il cinema portava maggiori emozioni perché si trattava non solo
di possedere un’immagine in maniera feticista, ma soprattutto di fare
qualcosa insieme. Allora ero molto pedante e parlavo di letteratura, non
capivo quasi nulla ma parlavo di tutto e subivo influenze molto intense,
dall’underground americano o da Philippe Garrel e dalla sua relazione con
Nico. Mi è sempre piaciuto questo tipo di relazioni, come i pittori che
ritraevano le proprie mogli o le coppie nella storia del cinema, come
Roberto Rosselini e Ingrid Bergman, o Jean-Luc Godard e Anna Karina.
Curiosamente adesso sto lavorando sulla nozione di ritratto nel cinema, ed
era un’idea che già covavo dall’inizio.
In un testo che hai scritto molto tempo fa, chiamato Tes yeux creux sont
peuplés de visions nocturnes, parli dei “differenti usi del cinema” e
includi, in un posto a parte, non tanto il diario personale (come quello di
Mekas, che citi) ma anche i “materiali isolati” che “registravano gesti,
movimenti o piccoli aneddoti banali di quelle amiche adolescenti, come ero
io, che mi affascinavano”. Quando affermi: “Mi sorpresi scoprendo in quelle
goffe riprese un’autentica testimonianza personale con tutto il potere
evocativo di una cronaca sentimentale”, già stavi teorizzando quel desiderio
di catturare la realtà che attraversa tutto il tuo cinema?
In quel testo parlavo di qualcosa di più intimo, ma è chiaro che già
manifestavo un interesse per la cattura del gesto, del momento. La mia
esperienza nel cinema corre di pari passo come regista e come spettatore e,
da questo punto di vista, mi rendo conto che ciò che mi rimane di un film,
più che la storia, è una successione di istantanee, di espressioni e di
gesti, di momenti rivelatori. E questo è precisamente ciò che mi piace
associare con la grande pratica dei classici del ritratto pittorico che,
attraverso differenti strade, risulta vicina ai registi. Questo è un aspetto
che va al di là della dicotomia tra documentario e finzione e si associa
alla sapienza di Flaherty, che mette un grammofono e ottiene un’espressione
impagabile di Nanook: il sorriso più bello che il cinema abbia mai avuto.
Nel terreno della finzione ci sono anche registi con la coscienza che
l’attore non cessa di essere una persona, anche se non sembra. È il caso di
Maurice Pialat e di come lavorava con Sandrine Bonnaire: lui s’impose di
essere suo padre per poter captare dei momenti di autenticità nell’attrice.
O l’esperienza di François Truffaut in L’enfant sauvage, a partire da una
tradizione proveniente da Chaplin, che però era diverso, essendo un gran
despota.
L’idea del passaggio dalla pubertà alla maturità pervade Los motivos de
Berta, come culmine di alcuni tuoi lavori precedenti, ma ciò che più
sorprende è che già allora dicevi che “bisogna filmare Berta come Nanouk”
...
Non mi ricordo di questo.
Già allora proponevi una contraddizione simile a quella di André Bazin
quando, dopo aver rivendicato il rispetto della realtà, sottolineava: “Ma,
nonostante tutto, il cinema è un linguaggio.” Anche tu pretendi di catturare
la realtà ogni volta che introduci una serie di filtri che, nel caso di Los
motivos de Berta, erano i riferimenti ad Alice di Lewis Carroll, al cinema
di Saura (tramite l’attore Iñaki Aierra, di Dulces horas, o della casa dove
si girò Elisa vida mía), al cinema dentro al cinema.
Non avevo molta coscienza di quella purezza della realtà quando girai Los
motivos de Berta. In un aspetto sono cambiato: il patto che sono andato
stabilendo con la realtà. Probabilmente mi sarebbe piaciuto estrarre cose da
quella ragazza, ma il mio lavoro con l’ambiente era molto diverso. Il film
ha un’apparenza che si avvicina di più alla favola o all’allegoria. In quel
momento ero molto preoccupato del linguaggio visuale e della composizione
dello spazio: quel paesaggio di Segovia era molto vuoto, e si prestava a
essere rotto con una determinata linea verticale o orizzontale. Il paesaggio
era un’astrazione che corrispondeva alla volontaria difficoltà di datare
quel film nel tempo. Tutto prima era abbastanza prefissato. Dopo ho
cominciato ad avere una maggiore confidenza con gli spazi nei quali giravo.
Al posto di andare con le mie idee preconcette, mi è piaciuto nutrirmi di
ciò che mi apportava quello spazio, e gradualmente mi sono aperto a tutto
ciò che poteva avvicinarmi alla realtà. Potrei citare Flaherty, ma in realtà
chi catalizzava la mia attenzione era Bresson, che sarebbe tutto il
contrario di uno che lascia che il caso penetri nell’inquadratura. Ciò che
era molto affascinante della teoria di Bazin è che, a differenza di ciò che
ora capita con l’immagine digitale, quello che rimane registrato nel
fotogramma è un’orma di luce, una grande intimità con la realtà. Per
elaborato che sia ciò che hai di fronte alla mdp, ciò che essa registra è un
documento del lavoro cha hai fatto e della sua relazione con la luce. È un
miracolo che i padri del cinema si chiamino Lumière!
Come arrivò Arielle Dombasle nel cast di Los motivos de Berta?
Le uniche cose che avevo visto di Arielle Dombasle erano in Eric Rohmer, Le
beau mariage e la sua piccola apparizione in Perceval le Gallois. Aveva
anche cantato in un film di Chris Marker, e uno dei componenti della troupe
di Los motivos de Berta, lo scenografo, già la conosceva. A me sembrava
molto bella, io cercavo un’attrice straniera e mi piaceva la sua
provenienza. Ogni attore implica un mondo, e i registi di western sapevano
perfettamente che John Wayne non era un attore qualsiasi ma che,
scegliendolo, si assumeva una determinata tradizione.
A proposito di Los motivos de Berta, il pittore Antonio Saura parlò di
“realismo magico”, un termine molto connotato con la letteratura
latinoamericana. Condividi questa affermazione?
Ero contentissimo che Antonio Saura avesse scritto un testo sul mio film. Lo
ammiravo molto e oltretutto lui era grande amico di Cortázar.
Realismo e magia sono termini apparentemente contraddittori che riportano
alla discussione su Bazin...
Los motivos de Berta rispettava una verosimiglianza realista in cui
succedevano una serie di cose, da un personaggio che si suicidava fino alle
riprese di un film. C’erano una serie di casualità che portavano a pensare a
una possibile comprensione magica. C’erano due film: uno reale e immediato,
e un altro quasi virtuale che si poteva produrre, stabilendo associazioni
tra le varie vicissitudini, nella mente dello spettatore e in quella del
personaggio di Berta. Penso che Antonio Saura si riferisse a questo quando
parlava di “realismo magico”.
Pensi ancora, come dicevi allora, che “l’illuminazione cinematografica si
impara nelle cattedrali”?
Senza un contesto quest’affermazione suona un po’ pedante. Qualche volta
però ho pensato che gli alunni di cinematografia dovrebbero visitare
cattedrali e monasteri. Mi indigna vedere la luce artificiale, con le
lampade al neon, che viene messa in alcuni monasteri, perché così non si
capisce nulla. In quella architettura, ciò che prevaleva su tutto era la
luce che andava a reare una determinata atmosfera, e per questo motivo le
finestruccie del romanico non hanno niente a che vedere con le vetrate del
gotico.
Il suono è un elemento fondamentale nei tuoi film. Come lavori sulla colonna
sonora in relazione all’immagine?
Stabilisco una distinzione tra cinema sonoro e cinema sonorizzato, ma questo
dibattito può diventare infinito.
E allora semplifichiamo. Si può parlare di “realismo sonoro” a proposito dei
tuoi film?
Sì, il mio registro è realista. C’è un lavoro di stilizzazione enorme ma che
rispetta sempre un patto con la realtà. A volte riprendo un bosco e gli
aggiungo il suono di un altro bosco: uso questi inganni, ma rispetto il
principio del realismo. Tanto in Innisfree come in En construcción facevamo
riprese parallele, solo con suoni che dopo utilizzavamo liberamente al
montaggio. Per Ferd Wiseman questa manipolazioni sarebbero una trasgressione
del suo patto con la realtà, ma questo non è il mio caso. Non capisco invece
quelli che pensano che il trattamento creativo del suono consista in
un’esibizione di suoni spettacolari. David Lynch è stato colui che ha
introdotto questa tendenza che fa sì che qualsiasi suono si converta in
épatant ma a mio giudizio non contribuisce per nulla alla ricchezza creativa
del cinema sonoro, che può essere molto più semplice. I mezzi di cui
disponi, a differenza del muto, sono maggiori ma includono anche la
possibilità di vedere qualcuno zitto e qualcuno che ascolta. Ci sono altri
film, al contrario, che non sono nient’altro che “cinema muto sonorizzato”.
Los motivos de Berta è volontariamente girato in bianco e nero. Come hai
introdotto il colore nei tuoi film successivi?
Attualmente il bianco e nero si percepisce come una forma di affettazione. A
me piace moltissimo il bianco e nero ma, con eccezioni dignitose come
Straub, ha una fastidiosa connotazione cinefila. Credo che la direzione
baziniana sarebbe stata di accettare il colore.
Nel 1988 giri l’episodio di City Life intitolato Eulalia-Marta, aprile 1988.
Come valuti la tua partecipazione a questo film collettivo?
È stato tremendo. Quella esperienza fu un grande caos. L’idea iniziale era
molto bella perché consisteva nel riunire una serie di cineasti affinché
girassero altrettanti cortometraggi sulla nozione di vita urbana. Ognuno
nella sua città, senza però filmare la città ma la vita. Io filmai alcune
immagini ma dovetti attendere due anni per montarle, perché dovevamo farlo
tutti assieme. Era un problema di coordinamento enorme e, quando giunse il
mio turno alla moviola, io stavo girando in Irlanda Innisfree e non sono
potuto essere presente a Rotterdam, il luogo dove si montava. Mi hanno
chiesto qualche cosa per telefono ma il risultato è stato una follia.
Oltretutto il film ebbe una diffusione molto limitata.
Passò nei festival perché tra i partecipanti c’erano Krzysztof Kieslowki,
Mrinal Sen, Alejandro Agresti o Tarr Béla. Vinse anche alcuni premi...
Fino a che punto la fascinazione che c’è in Innisfree non è tanto per The
Quiet Man quanto per il luogo in cui John Ford girò il suo film e le orme
che rimanevano di esso?
In questo caso il cinema è stato una forma di arte viva per un collettivo di
persone che viveva in quel paese. Questo sopravanzava il film stesso.
C’era anche, da parte tua, un’esplicita volontà di catturare il tempo in un
momento in cui la memoria di quell’avvenimento correva il pericolo di
perdersi o di deteriorarsi.
O mi sbrigavo a farlo o sarebbero morti i testimoni. Gli abitanti del posto
che avevano partecipato alle riprese con John Wayne e Maureen O’Hara avevano
più di ottant’anni. Erano persone uniche, cresciute senza la televisione e
che mantenevano la tradizione orale.
Il titolo di Tren de sombras è estratto da un testo di Gorki sui limiti del
cinema nel ricreare la realtà in termini realisti. Realizzato in pieno
centenario del cinema, il tuo film è un omaggio o un requiem all’invenzione
dei Lumière?
Tutt’e due le cose. L’origine e la fine si incontrano in più di una
occasione. Dei vari testamenti di Manoel de Oliveira, forse quello che
preferisco è Viaje al principio del mundo. Quei due poli che si attraggono,
il principio e la fine, ci sono anche in Tren de sombras attraverso le
immagini che rinviano all’infanzia del cinema ma anche alla sua distruzione
materiale.
O la sua impossibilità di incontrarle...
Anche. Molte immagini rinviano a questo. Alla fine del film il personaggio
del cineasta sparisce nella nebbia e lascia lo schermo in bianco.
Il fatto di ricostruire alcuni presunti filmini familiari degli anni Trenta
fu una necessità materiale o rispose a una scelta estetica?
Anche se avessi trovato alcuni veri filmini familiari che rispondessero a
ciò che cercavo, mi sarebbe sembrato impudico manipolare quel materiale a
mio piacimento.
Ma li cercasti?
Sì, e questa ricerca risultò straordinariamente utile per studiare la
retorica dei pionieri del cinema amateur e per farmi un’idea di come potesse
essere, visivamente, il mio film. Abbiamo visto molti film familiari nelle
filmoteche di Amsterdam, Barcellona e Madrid, e ce n’erano molti che mi
hanno tentato ma, veramente, mi sembrava impudico inventare una storia
d’amore a partire da persone reali che erano state riprese. La soluzione più
facile fu inventare quel presunto film.
Più facile?
Moralmente sì. Economicamente proprio no. Il verismo del risultato fu così
autentico che provocò alcuni problemi. Al Ministero della Cultura non gli
tornava il preventivo, tenendo in conto, come credevano, che la metà del
film era formato da materiale d’archivio. Alcuni festival di cinema non
capivano il gioco e Pere Portabella, come produttore, cercò di risolverlo
con l’aiuto di un lungo testo esplicativo che appare all’inizio del film, ma
che non serve a niente. Anche se viene spiegato che abbiamo dovuto
ricostruire tutto, non si capisce lo stesso, e il pubblico continua ad avere
la stessa fede nell’autenticità dei filmini.
Credo che Tren de sombras sia una stupenda definizione di ciò che è il
cinema a partire dal concetto del tempo e, tornando a Bazin, di quello della
“mummia”, anche se forse sarebbe più preciso parlare qui di “spettri”.
È un film di riflessi e ombre, di immagini virtuali. Questa è un’espressione
che, prima di farmi pensare ai video e alle nuove tecnologie, mi suggerisce
l’idea delle ombre e dei riflessi, e ambedue sono onnipresenti in tutto il
film, anche nella sua parte più “documentaria”. C’è una progressione di
riflessi nei vetri, negli specchi, o di quell’altra immagine spettrale che
si va impadronendo del film: è come un complotto tra il tempo e la luce che
si concretizzava quando, a una cert’ora del pomeriggio, un raggio di sole si
incideva sul pendolo e, con la sua intermittenza, provocava una piccola
proiezione.
Una curiosità personale. Perché appaiono tante biciclette nei tuoi film?
È un elemento che mi sembra molto cinematografico, come le altalene, i treni
o la roba messa a stendere e strapazzata dal vento. Sono immagini che
apportano movimento a una determinata scena. Forse le biciclette s’intonano
con il cinema perché si assomigliano molto: condividono un certo
macchinismo, incluso il rumore che provocano quando funzionano.
Tren de sombras ricevette un premio chiamato “Méliès” come miglior film
fantastico europeo. Pensi che il fantastico sia un’antitesi del realismo? Ti
senti a tuo agio con questo aggettivo?
Mi piace molto, perché ciò che andrebbe riesaminato è non solo la nozione di
realismo ma anche quella di fantastico. Mi attraeva molto l’idea di fare un
film con un fantasma, dove la spettralità è essenziale. Cercavo per il film
una particolare atmosfera imparentata con la letteratura gotica di fantasmi.
Se il fantasma lo filmi in un contesto astorico, con la casa piena di
ragnatele e nel mezzo di lampi e tuoni, alla Roger Corman, non mi piace.
L’attrazione è nel credere in quel fantasma, e per questo c’è bisogno di
situarlo in un contesto perfettamente definito, in un paese che si chiama Le
Thuis, in piena Normandia, catturato in maniera molto documentaria. Senza
questa tensione il cinema perde la sua migliore qualità, quella frizione tra
Méliès e Lumière.
Mi sorprende molto un testo in cui, a proposito dei tuoi film, Victor Erice
utilizza il termine “manierismo” in riferimento a Tren de sombras e
“documental” in relazione a En construcción. Non credo però che la
separazione sia così nitida.
Neanch’io.
Nessuno dei tuoi film è strettamente realista, e in ognuno di essi c’è un
po’ di manierismo.
Non proprio come in En construcción, ma girai anche Tren de sombras come un
work in progress. Fu realizzato in due parti ben separate: quella estiva,
caratterizzata dal sole, e quella invernale, dalla luna. Prima girai il
filmino familiare, tornai a Barcellona e lo montammo, immaginando come
sarebbe potuta essere l’altra parte che mancava. L’idea fu di tornare lì per
vedere se rimaneva qualche indizio di quel vecchio film in un ottobre che,
anch’esso, aveva una forte carica metaforica. La differenza potrebbe
risiedere nel fatto che En construcción è la mia prima opera caratterizzata
da una certa concezione umanista, nel senso che l’essere umano sta al centro
delle immagini. Le persone che appaiono in Tren de sombras ci rimandano
costantemente all’idea che non si tratti di presenze umane ma di orme di
luce, ossia riprese di individui che sono ormai scomparsi. Il legame con la
realtà che stabilisco in En construcción implica che i personaggi che scelgo
sono coloro che dialogano, e io sto nell’attesa di girare il film che loro
mi forniscono.
En construcción è il tuo primo film girato a Barcellona, e interrompe una
lunga tradizione di viaggi che ti aveva portato fino a Segovia (Los motivos
de Berta), Irlanda (Innisfree) o Normandia (Tren de sombras). Fino a che
punto si sarebbe potuto girare in qualsiasi altra città?
Non sarebbe stato lo stesso film, perché sarebbe coinciso con personaggi
diversi.
Trascurando i personaggi, il vero tema di En construcción torna ad essere il
passare del tempo catturato dalla tua mdp...
Mio malgrado. Non c’era nessuna volontà premeditata di riprendere un
discorso. Ma chi l’avrebbe detto che sarebbero apparsi quei resti umani
nelle fondamenta della casa la cui costruzione stavo filmando? Sembra che il
destino esista e ne faccia delle sue perché, è certo, quella location
l’avevo scelta con molta ostinazione. Dopo aver visitato decine di cantieri,
c’era qualcosa che mi attraeva molto in quel posto: mi colpiva molto che si
andasse a costruire una nuova opera di fronte all’edificio più antico che si
conserva a Barcellona dal secolo XII. È possibile che, quando scegli una
location, stiano già gravitando i fantasmi che stanno sotto.
Cos’hai pensato quando spuntò il primo scheletro di epoca romana?
Ogni giorno parlavo con tutti i capi della squadra di operai, e così seppi
che stavano per venire gli archeologi. Volli sapere che aspettative avevano
su quel terreno, ma giunsi tardi con la mia mdp perché già avevano trovato
bombe della Guerra civile e così iniziai a scoprire una deriva storica nel
mio film. Ho sempre ritenuto che il cinema storico non deve essere esclusivo
dei film che riprendono il passato. Proprio come teorizzava Godard in Tout
va bien: come filmare il presente storicamente? In En construcción questo
s’incontra anche con l’idea di un film in cui la fine del 20° secolo fosse
presente. La città stava cercando il suo futuro e, all’improvviso, si
trovava faccia a faccia con il suo passato remoto. Cominciai a convincermi
che stavo realizzando un film storico e, a partire da lì, volli che
rimanessero incise le notizie dalle radio degli operai e dei vicini sulla
guerra in Kosovo, e che il film si impregnasse di Storia, con l’illusione
che alla fine i piccoli avvenimenti aneddotici potessero riflettere un certo
movimento del mondo e della Storia. Questo trasformò tutto il film, perché
questa sequenza mi fece rinunciare a un mucchio di linee parallele. Il film
non poteva più nutrirsi delle storie che si vivevano nella costruzione,
perché questa solo aveva ragione d’essere, nel suo essere cassa di risonanza
di tutto un quartiere. Il fatto che avessimo avuto un coro con i vicini che
davano le loro versioni sui resti, ci dava tutta una morfologia umana. Fu un
privilegio poter ascoltare ciò che la gente diceva di fronte alla presenza
di quei resti umani. Diversamente da ciò che nella gente suscita un
cadavere, che ha un’identità e produce pena, rifiuto o schifo, il teschio è
un’immagine essenziale. Shakespeare sapeva molto bene ciò che aveva tra le
mani quando scrisse Hamlet: il teschio è uno specchio che mostra la nostra
condizione più fragile. Era meraviglioso ascoltare i bambini che, per la
prima volta, acquisivano coscienza della morte. Gli anziani avevano una
prospettiva molto diversa, ma c’era anche una contrapposizione di
sensibilità religiose, e affiorava la memoria storica filtrata dalla Guerra
civile. Un quartiere non è definito dalle sue strade o piazze, ma dai volti
che lo abitano, e a partire da questa scena tremarono le fondamenta della
casa e del film. O accettavo la nuova rotta che il film prendeva, o la
rifiutavo seguendo a fare ciò che avevo anteriormente previsto. Un film
attraversa crisi molto profonde e da ognuna di esse ne esce fortificato.
Come hai vissuto il passaggio dalla pellicola al video digitale per le
riprese di En construcción? Ha fatto tremare i tuoi fondamenti bressoniani?
La decisione di adottare il video fu molto dolorosa. Iniziammo a girare in
pellicola, nel 1998, ed allora ancora non c’erano esperienze di quel tipo.
L’immiserimento dell’immagine è enorme, ma allo stesso tempo ho visto che
non avevo altro rimedio. Per catturare i momenti che volevo dovevo
sostituire una nozione di bellezza che è più visuale o plastica per un altro
tipo di bellezza più rosselliniana, basata sul “gesto rivelatore” che forse
si produce solo dopo mezz’ora di registrazione ininterrotta di altre cose
anodine. Indubbiamente En construcción necessitava del video.
Sei cosciente che En construcción è il tuo primo film che, salvo il
riferimento fortuito a Land of the Pharahos di Howard Hawks, non include una
presenza fisica del cinema?
Quando mi proposero un film su un materiale che mi è così alieno, come
quello dell’edilizia, mi sembrò molto attraente utilizzare il cinema come
mezzo di conoscenza. Quando iniziai ad informarmi, la prima cosa che sorse
fu il parallelismo tra la costruzione di un edificio e le riprese di un
film: c’è un costruttore che assomiglia molto a un produttore, e un
architetto come alter ego del cineasta. Le sue discussioni con il
costruttore assomigliano molto a quelle in ambito cinematografico, dal
momento che qualsiasi barlume di originalità sembra un rischio enorme,
l’unica priorità è abbassare i costi e ridurre il tempo. L’architetto è come
il cineasta, e l’esecuzione del suo lavoro avviene attraverso un gruppo
tecnico che è formato da persone di diversa provenienza, cultura e lingua,
obbligate a convivere in maniera molto intensa nello stesso luogo per vari
mesi, e quando il lavoro finisce ognuno torna al proprio destino. È molto
simile alle riprese, inclusa la lotta contro il tempo. Gli sforamenti nel
lavoro edile sono identici a quelli di un piano delle riprese, quando c’è un
ritardo si deve lavorare di notte e il parallelismo diventa ancora più
evidente, perché i camion coi riflettori si affittano negli stessi posti
delle imprese di cinema. Alla fine, anche lì arrivano gli spettatori che
devono giudicare se le finestre stanno al loro posto. A fronte di questi
parallelismi, ho evitato di guardare tutto attraverso il cinema, e ho
provato a pormi nell’ottica dell’edilizia, perché gli acquirenti degli
appartamenti che appaiono alla fine del film sono coloro che più hanno a che
vedere non solo con me, ma anche con lo spettatore, e senza dubbio sullo
schermo li percepiamo come autentici marziani che usurpano un posto che non
appartiene loro. Ciò che più mi eccita nel cinema è la possibilità di vivere
l’esperienza dell’altro. Nella realtà la nostra storia inizia quando
arriviamo in una casa e la compriamo, senza domandare qual è stata la sua
storia precedente.
Non sei mai stato tentato di tornare sul luogo delle riprese dei tuoi film
precedenti per constatare il trascorrere del tempo sui personaggi che un
giorno filmasti, come ha fatto recentemente Agnès Varda con Vingt ans après
in relazione a Les glaneurs et la glaneuse?
Se ci andassi con una mdp non avrei nessun problema. La cosa terribile
sarebbe tornarci senza mdp, quando vedi il film che ti sfugge. Se qualcuno
me lo proponesse non mi importerebbe tornare in Irlanda trenta e più anni
dopo Innisfree, lo stesso periodo che passò dopo The Quiet Man.
In una recente sezione del Festival di Gijón chiamata “Spazio Guerín”
proponevi le equazioni Tren de sombras = Portrait of Jennie e En
construcción = Mon oncle. Potresti approfondire queste analogie?
Si assomigliano, non credi? Tren de sombras aveva una componente
melodrammatica che nasceva dalla questione: cosa succede se ti innamori di
una ragazza che non è tale, ma che è un’immagine ripresa negli Anni Venti o
se sei attratto da uno spettro, da una donna che appartiene ad un altro
tempo? Quello era il dramma centrale di Portrait of Jennie e da qui nacque
quel gioco. Nel caso di En construcción parlammo molto con gli alunni del
master di documentario che parteciparono alle riprese, intervistando persone
e guardando film insieme per avere un lessico comune. Ci interessarono una
serie di opere in cui potesse essere più o meno presente l’edilizia, ma che
affrontavano il conflitto in termini molto urbanistici. Vedemmo Mon oncle,
ma anche Das blaue engel di Sternberg, Der letze man di Murnau o City Lights
di Chaplin. In tutti questi c’è un confronto tra spazi e Mon oncle non fa
eccezione: è la cronaca della distruzione di un quartiere per la costruzione
d’un altro, visto dalla prospettiva delle persone. Il film inizia con gru e
betoniere, e il finale è la finestra, con il punto di vista di Monsieur
Hulot e la sua casa vuota. Per non essere arrogante, prima di girare un film
devi sapere chi, prima di te, ha toccato quello stesso tema, e oltretutto mi
piace stabilire questo dialogo fecondo con i cineasti che mi hanno
preceduto.
Barcellona, maggio 2003
RETROSPETTIVA ZBIGNIEW RYBCZYNSKI
DALLA CITTA’ IDEALE ALLA REALTA’ VIRTUALE
Introduzione alla “zbig’s vision” (1)
Di Bruno Di Marino
La realtà è una sola: nella nostra mente
La mia realtà è una metamorfosi permanente,
che ha luogo nel pensiero.
Dobbiamo sfidare la realtà fotografica,
quella che vediamo nei film
Zbigniew Rybczynski
La prima cosa che Rybczynski fece quando nel 1998 fu nostro ospite a Pesaro
in occasione della retrospettiva autunnale dedicata al cinema d’animazione
(Animania – 100 anni di esperimenti nel cinema d’animazione), fu di andare a
vedere (o rivedere?) una delle due tavole della Città ideale custodita
presso la Galleria Nazionale delle Marche a Urbino. Vi rimase una giornata
intera ad ammirarla.
Le tavole della Città ideale (l’altra è a Baltimora), entrambe realizzate da
anonimo, a pensarci bene ricordano i centinaia di sfondi elettronici che
Rybczynski si diverte a cambiare (virtualmente) alle spalle degli
interpreti, grazie al dispositivo del chroma-key. La tavola di Urbino, a
differenza di quella conservata negli Usa, è caratterizzata da una maggiore
simmetria, anche perché al centro campeggia un tempio a struttura circolare.
Inoltre è completamente priva di figure umane. È una quinta teatrale pronta
per essere riempita di personaggi e oggetti, così come avviene spesso
nell’immaginario di questo singolare artista/cineasta/videomaker polacco.
Rybczynski non può che essere attratto dall’organizzazione spaziale di
queste due vedute, dalla loro esattezza fiamminga che tanto ricorda la
texture ad altissima risoluzione dei suoi quadri in movimento. Un movimento
fluido, inarrestabile, senza interruzioni. Un movimento ogni volta costante
ma diverso: orizzontale (Imagine), diagonale (la sequenza della scalinata de
L’orchestre), verticale (lo spot per il GMF Group), spiraliforme (The Fourth
Dimension), oppure circolare e ondulatorio, come nei due video dedicati a
Manhattan e a Washinghton D.C. Forse sono queste le sue città ideali, la
capitale culturale e quella politica degli Stati Uniti, il paese che lo ha
accolto nei primi anni Ottanta e gli ha dato la possibilità di ricominciare
una nuova carriera, sotto il segno dell’alta definizione.
In fondo non c’è una grande differenza tra i film realizzati in pellicola
negli anni Settanta in Polonia, presso il Se.Ma.For. (Studio Maliych Form
Filmowych) di Lodz e i successivi affreschi elettronici, influenzati dalla
cultura americana e supportati dalla tecnologia nipponica. Rybczynski lavora
sull’immagine utilizzando tecniche d’animazione e anticipando effetti che
sono propri della creazione video. Fin dall’inizio. Le immagini del suo
primo esperimento, Qwadrat (1972), sono formate da tanti quadrati, simili –
più che alle tessere di un mosaico – alla trama fotografica o ai pixel
televisivi, sfruttando la soglia sottile che separa il figurativo
dall’astratto.
E le figure fotografate in bianco e nero, poi ritagliate, ricolorate, infine
rianimate e sovrapposte a sfondi a loro volta modificati cromaticamente,
solarizzati, non preludono forse alla tecnica/estetica dell’intarsio
elettronico, ottenuta riprendendo esseri umani e oggetti su un fondo blu
(blue screen) e catapultati virtualmente per mezzo del chroma-key in scene
ideali, in contesti comunque fantastici, reali o deformati che siano?
Anche l’estetica di Nowa ksiazka (1975) è affine non solo all’arte
elettronica, ma alla logica della simultaneità ipertestuale. La
scomposizione dell’inquadratura in nove “finestre”, corrispondenti ad
altrettanti ambienti contigui dentro cui si muovono diversi personaggi,
offre allo spettatore un nuovo modo di “leggere” la messa in scena,
costringendolo a ripensare lo spazio e il tempo della narrazione. In questi
nove piani-sequenza affiancati, c’è un bambino che gioca con la palla,
alcuni signori che prendono l’autobus, gli operai che lavorano: tutti
passano da un riquadro all’altro lasciando intuire che si trovano a poca
distanza, nello stesso isolato, anche se poi – paradossalmente – Rybczynski
ha girato il film in tre diverse città, creando così una topografia
immaginaria.
La folla di persone che popola l’universo (cinema-foto)grafico e
meccanizzato di questi anni, è prigioniera in molti casi dalla ripetitività
quotidiana, vittima di una coazione a ripetere. Essi replicano all’infinito
lo stesso gesto: come in Zupa (1974), dove la vita di coppia diventa appunto
la solita “zuppa” da mangiare e termina col protagonista che precipita nel
vuoto; come in Swieto (1975), dove il giorno di festa si riduce allo stanco
rituale di lavare l’automobile per poi rimetterla nel garage; come in
Lokomotywa (1976), dove un grosso omone baffuto – al ritmo di una
poesia/filastrocca – si muove come un burattino in bilico su un treno a
vapore che sbuffa veloce, attorniato da animali domestici; e soprattutto
come in quello che è il capolavoro del periodo, Tango (1980), dove una
stanza si riempie di tanti personaggi che ripetono in solitudine, senza mai
sfiorarsi, la stessa azione. Non è difficile, certo, scorgervi il malessere
e l’insoddisfazione scaturito dal contesto politico e sociale di una Polonia
sotto il tacco del comunismo. Ma Rybczynski si spinge oltre qualsiasi
metafora esistenziale che pure è sottesa a tanta produzione coeva di film
d’animazione. Lo stile di questi formidabili cortometraggi è semmai
ascrivibile al clima di sperimentazione che si respirava al Se.Ma.For.
Vincitore al festival di Annecy prima e di un Oscar come miglior
cortometraggio animato poi, Tango è ancora una volta un lavoro sulla
simultaneità della visione, ma è soprattutto il risultato di un paziente
lavoro artigianale che ha richiesto mesi di lavoro. L’utilizzo del collage
fotografico, dei mascherini e della stampatrice ottica, solo sette anni dopo
sarebbe stato rimpiazzato con il procedimento dell’ultimatte, hardware in
grado di sovrapporre elettronicamente figure e sfondi con la massima
precisione. Tuttavia il fascino di Tango risiede proprio nell’imperfezione
delle tecniche analogiche: è facile scorgere il trucco di tanto in tanto,
ovvero la zona nera del mascherino che è servita a inserire un nuovo
personaggio in campo, a far coesistere un’azione accanto all’altra, in un
meccanismo folle di compressione spaziale.
La componente sonora è sempre stata determinante nel lavoro di Rybczynski.
Take Five (1972) – realizzato quando Zbig era ancora studente dell’Accademia
– e Plamuz (1973), sono due cortometraggi strutturati anche visivamente su
brani jazz: nel primo il ritmo del celebre pezzo di Brubeck è tradotto
visivamente dai corpi di un ragazzo e di una ragazza sovrimpressi e
accelerati; nel secondo, in scena, vi sono gli stessi musicisti del trio
Namysiowski, sottoposti ad una serie di trasformazioni cromatiche e
decostruiti attraverso un violento e ipnotico gioco optical. Inevitabile che
Rybczynski si ricolleghi in più di un’occasione ai maestri dell’animazione
sperimentale classica, che hanno esplorato a lungo il rapporto suono/segno;
autori come Fischinger, McLaren e Len Lye: le sagome colorate di Plamuz, che
ritroviamo anche nel clip di Rybczynski Stereotomy (1987), ricordano quelle
di Rainbow Dance, realizzato nel 1935 dal maestro neozelandese.
Una volta approdato negli Usa, Rybczynski – soprattutto per ragioni di
sopravvivenza – comincia a dirigere videoclip musicali. Ma non si tratta
certo di un impegno per lui minore. Il regista polacco non sottovaluta
affatto il potenziale di sperimentazione insito in questa nuova forma
espressiva (nata appena qualche anno prima) e realizza alcuni piccoli
capolavori, escogitando ogni volta un particolare effetto visivo o
meccanico. Ad esempio, per restituire il vigore e l’energia di All That I
Wanted (1984) della rock band Belfegore, allestisce un’improvvisata
seggiovia nella baia di New York per riprendere in movimento da una
prospettiva plongée i musicisti mentre suonano correndo. Lo stesso
éscamotage lo usa anche per The Real End (1984), ma stavolta seguendo più
lentamente la cantante Rickie Lee Jones mentre cammina per una tipica strada
di Soho, passando in rassegna una folta schiera di giovanotti. In Who Do You
Love (1985) inventa un altro singolare dispositivo collegato alla cinepresa
che fa ruotare di 180° nello spazio Bernard Wright e la sua partner mentre
si esibiscono. Fortemente dinamici sono anche Midnight Mover (1985) degli
Accept, con riprese velocizzate della band, frutto dell’animazione a passo
uno; The Original Wrapper (1986) di Lou Reed, protagonista una squadra di
imballatori che scorrazza per la città inscatolando tutto ciò che gli capita
a tiro; Let's Work (1987) con Mick Jagger che canta e corre (anche lui) per
strada, seguito da una folla di lavoratori di ogni classe sociale. Un’altra
passione di Zbig è quella di filmare la distruzione: gli Art of Noise in
Close to the Edit (1984) che fanno a pezzi strumenti musicali con motoseghe
e fiamme ossidriche come in una performance Fluxus, oppure i Blancmage che
demoliscono un’intera villetta unifamiliare in Lose Your Love (1985).
È un videoclip musicale anche il primo lavoro in alta definizione,
tecnologia che diventa ben presto il principale marchio di fabbrica
dell’immaginario di Rybczynski. Si tratta di Candy (1986) dei Cameo. Qui,
come in numerosi altri videoclip girati in HDTV – da Why Should I Cry (1987)
di Nona Hendryx a All the Things She Said (1986) dei Simple Minds, da
Something Real (1987) dei Mister Mister allo straordinario Keep Your Eyes on
Me (1987), in cui il trombettista Herb Alpert cammina in equilibrio su una
corda sospesa tra i grattacieli di New York – Rybczynski gioca con la
moltiplicazione all’infinito dei personaggi, nonché con la creazione di più
livelli spaziali, generando da un lato un effetto di simultaneità e di
fluidità tra corpi e sfondi, dall’altro sopperendo alla scomparsa del
serialismo cinematografico: è come se avesse nostalgia del lavoro fotogramma
per fotogramma e volesse riproporlo, sotto forma di costante stilistica,
nell’inquadratura senza cesure del supporto elettronico.
Ed è appunto costruito su un interminabile (e virtuale) piano-sequenza il
capolavoro di Rybczynski, Imagine (1987). Qui diversi personaggi
attraversano varie stanze comunicanti tra loro (nella realtà è sempre la
stessa) con vista su New York, aprendo tante porte e passando per i diversi
stadi della loro esistenza: dall’infanzia alla maturità. Gli ambienti sono
rappresentati in sezione, con un carrello che da sinistra si muove verso
destra. Il clip inizia e termina ciclicamente, con una stanza vuota dove
l’unico oggetto è un triciclo: un’immagine di purezza che contrasta con i
turbolenti rapporti tra uomini e donne rappresentati nel video, in cui tra
l’altro compaiono lo stesso Rybczynski e il suo bassotto Buba, una sorta di
mascotte presente in quasi tutti i lavori del filmmaker polacco.
Imagine sottolinea anche un ulteriore aspetto dell’estetica di Rybczynski:
il bordo dell’immagine; sia essa la cornice dell’inquadratura
cinematografica che i margini della scatola televisiva. Nel clip Diana D
(1984) una ragazza si diverte a disporre in maniera sempre diversa alcuni
monitor che compongono l’immagine del trombettista Chuck Mangione. Una
trovata ripresa anche nella sigla della trasmissione televisiva della Rai,
Fluff (1988), dove un signore (Lev Shekhtman, uno dei performer preferiti da
Zbig) attraversa tanti monitor affiancati o impilati l’uno sull’altro,
annullando così le soglie fisiche e virtuali.
La riflessione sulla cornice/soglia, diventa in molti casi un discorso sul
confine tra cinema e video. In uno degli ultimi lavori del periodo polacco,
Media (1980), un signore incorniciato dal visore di una moviola (il
dispositivo cinematografico, dunque) comincia a giocare con un palloncino
riprodotto in un piccolo monitor in bianco e nero (il dispositivo
elettronico), che saltella sul tavolo di montaggio: nell’attraversare
l’inquadratura il monitor ritaglia al suo interno porzioni di spazio che
fanno parte dello sfondo. Lo scarto tra l’immagine cinema e l’immagine video
si interrompe non appena il palloncino scoppia e il signore barbuto esce
fuori dal visore.
Il dialogo (o meglio il conflitto) tra cinema e video verrà ripreso, qualche
anno dopo, in uno dei video più celebrati di Rybczynski, Steps (1987), che
rappresenta un ultimo tributo all’era del cinema analogico. In una maniera
intelligentemente ironica il regista congiunge nello stesso spazio
personaggi provenienti da due diverse dimensioni: i corpi fotochimici in
bianco e nero degli abitanti di Odessa trucidati dai soldati de La corazzata
Potëmkin di Ejzenstejn; quelli elettronici e colorati di alcuni “degni”
rappresentanti della società americana, che si ritrovano catapultati dentro
una delle più famose sequenze della storia del cinema. I corpi si sfiorano,
si incrociano, trapassano gli uni negli altri, restando ciascuno nella
propria dimensione temporale e strutturale (un po’ come la folla di Tango).
Il sangue delle vittime della repressione zarista del 1905, è solo
inchiostro che imbratta i frivoli e variopinti turisti, i quali – spinti da
morbosa curiosità e da inarrestabile cinismo – riprendono con le videocamere
e le macchine fotografiche la scena dal di dentro, creando un fatale corto
circuito nella rappresentazione, il cui dispositivo viene per una volta
esplicitamente rivelato. 2
Come giustamente osserva Paul Virilio, 3 l’approccio di Rybczynski
all’immagine è quello di un geologo. Del resto egli costruisce l’immagine
non a partire dai punti (i pixel) bensì dalle linee, magari ritardandone la
lettura, ottenendo una modificazione plastica dell’immagine e modellando la
materia elettronica come una scultura (The Fourth Dimension, 1988).
Rybczynski procede insomma per stratificazioni. Aggiungendo agli sfondi,
ulteriori livelli di figurazione. Nei suoi lavori si può arrivare a cinque,
sei, anche sette strati di immagini. Ciò era già evidente – come abbiamo
visto – nel periodo fotochimico e analogico, in cui Zbig usava le tecniche
di animazione. Lo è ancor più in questa nuova fase all’insegna
dell’“incrostazione” e della sedimentazione per mezzo del chroma-key e
dell’ultimatte.
C’è però un elemento che differenzia l’estetica di Rybczynski da quella di
altri videasti. Il suo ridurre al minimo la post-produzione, intervenendo in
diretta sulla messa in scena, attraverso il dispositivo del motion control.
Questo aspetto di creazione “dal vivo” è già evidente in Steps, lo sarà
ancor più in The Fourth Dimension, video per il quale Rybczynski esclama:
“non sono che l’osservatore, ho programmato l’operazione e guardo ciò che ne
scaturisce”, ovvero le metamorfosi e le anamorfosi di una coppia che
simboleggia Adamo ed Eva; due corpi che si fondono con lo spazio e con gli
oggetti, avvitandosi tra loro a spirale, davanti a finestre che lasciano
intravedere cieli nuvolosi di magrittiana memoria. Magritte è del resto un
riferimento iconografico costante dell’universo di Rybczynski; un universo
disegnato con una precisione (e una definizione) iperrealista, abitato da
figure che levitano nello spazio, da “oggetti d’affezione” che affiorano
sulla superficie. Virilio preferisce invece citare Delvaux riferendosi alla
“ieraticità” delle donne di Rybczynski, (4) anche se, per la verità, più che
muse fredde e inquietanti sembrano femmes fatali nude o in biancheria intima
che rendono ancor più sensuali le situazioni surreali che scorrono davanti
agli occhi ipnotizzati dello spettatore.
Corpi sensuali e meccanici. Corpi-strumenti musicali, (5) come quelli –
ancora una volta un maschio e una femmina clonati, ovvero Adamo ed Eva in
smoking e abito da sera – di Capriccio no. 24 (1989), che intonano una buffa
sinfonia rumorista, ripetendo gli stessi gesti all’interno della medesima
inquadratura. Ancora una coazione a ripetere, dunque, ma con la precisa
funzione di riprodurre la musica di Paganini, con risultati davvero
esilaranti. Corpi che fluttuano nello spazio notturno di una cattedrale, in
una coreografia dove la vita si fonde con la morte, come in quel videoclip
formato gigante che è L’orchestre (1990), composto da sei fantasmagorici
“quadri musicali”. Le regole del gioco sono sempre le stesse: la
moltiplicazione dei personaggi, il loro ininterrotto passarsi la staffetta,
scomparire e riapparire, sconfinare da un contesto spaziale all’altro, nella
fluidità dell’azione che termina solo con la conclusione del brano e con il
cambio di scena. L’orchestre è un’interminabile processione: inizia sulle
note della Marcia funebre di Chopin con decine di fantasmi elettronici che
si alternano alla tastiera di un pianoforte; si conclude al ritmo crescente
del Bolero di Ravel, su una scalinata dove viene rappresentata la lunga
marcia del Comunismo, fino al suo crollo inevitabile e definitivo.
Con Kafka (1992), il suo lavoro drammaturgicamente più complesso, Rybczynski
padroneggia ormai alla perfezione il meccanismo del motion control,
coniugando con grande maestria gli artifici scenotecnici, gli effetti di
intarsio, i movimenti di macchina che simulano la tridimensionalità dello
spazio. Imponendosi tuttavia di controllare e misurare meglio gli elementi
in gioco. La visionarietà del cineasta polacco non è altro che la traduzione
dei luoghi e dei topoi letterari dello scrittore praghese, “il più
pittorico, il più visivo”, come lo definisce Rybczynski, aggiungendo:
“quando ho letto Kafka, non ho avuto solo idee, ma immagini”. (6)
Sono passati oltre dieci anni da Kafka e Rybczynski non ha realizzato altri
video. Tutto questo tempo lo ha impiegato a studiare nuovi modi di
riproduzione dell’immagine digitale, probabilmente a riflettere su nuove
possibilità di rappresentazione e di messa in scena. La tavola della città
ideale di Urbino è ancora lì. Deserta. È in fondo una tavola rasa, pronta ad
accogliere azioni, personaggi, microstorie, ulteriori stratificazioni.
Speriamo che Rybczynski – uno dei protagonisti del rinascimento elettronico
della fine del ’900 – tragga ispirazione da questo nuovo viaggio a Pesaro e
a Urbino (dove tra l’altro terrà un workshop con gli studenti della scuola
d’arte), per regalarci nuove e vertiginose immagini, per suggerirci quale
potrà essere il cinema digitale di questo secolo appena iniziato.
NOTE
1 Questo saggio riprende e sintetizza analisi da me svolte nei seguenti
testi: Rybczynski o il non-luogo (a procedere) della visione, in “Close Up”,
Febbraio-Aprile 1999; Clip! – 20 anni di musica in video (1981-2001), Roma,
Castelvecchi, 2001; Interferenze dello sguardo. La sperimentazione
audiovisiva tra analogico e digitale, Roma, Bulzoni, 2002; Zbig Rybczynski:
le avventure di un Méliès post-moderno e (pre)digitale, in Zbigniew
Rybczynski, Roma, Rarovideo/Interferenze 2003.
2 Zbig replica l’impossibile incontro tra due realtà distanti nel tempo in
altre due occasioni: il videoclip Dragnet (realizzato nello stesso anno) –
protagonista una spaurita troupe televisiva prigioniera tra gli spezzoni
dell’omonimo film di cui il brano musicale è il leit motiv – e il
cortometraggio The Duel (1988), ispirato ad una pellicola di Méliès, suo
nume tutelare.
3 Paul Virilio, Le phénomène Rybczynski, in “Cahiers du cinéma”, Gennaio
1989.
4 Ivi, p. 64.
5 Cfr. Alessandro Amaducci, Segnali video. I nuovi immaginari della
videoarte, Vercelli, GS editrice, 2000. L’autore dedica un’analisi
particolarmente dettagliata a Capriccio no. 24.
6 Dichiarazione di Rybczynski, riportata nell’intervista di Bernardo
Carvalho, in “Folha de S. Paulo”, 24 aprile 1992.
FRAMMENTI DALLO ZBIG-PENSIERO
Dalla scuola di Lodz...
Ero un appassionato della pittura e della storia dell’arte. Ho studiato al
Liceo delle arti plastiche di Varsavia. Ero nella stessa classe del figlio
del professor Piwocki, docente all’Accademia di Belle Arti di Varsavia. Un
giorno, a casa sua, confessai la mia intenzione di iscrivermi al corso di
regia a Lodz. “La regia non è una professione”, mi disse il professore,
“dovresti scegliere il corso di operatore, così potrai conoscere i mezzi
tecnici, sarai un professionista”. Non mi sono mai occupato di fotografia,
perciò scelsi un centinaio di disegni che avevo fatto e andai per un
consulto dal professor Mierzejewski. Dopo aver guardato quello che avevo
portato, disse: “fai domanda di ammissione e vattene! [1]
Ho fatto l’esame di ammissione alla Scuola di Lodz nel 1969. Allora contava
il livello generale della conoscenza dell’arte. Gli altri la imparavano dai
libri, per me l’arte era tutta la vita, e quindi ho preso un voto alto. Nel
mio caso, la scelta della scuola è stata assolutamente consapevole. Ritenevo
che la pittura, cioè l’immagine statica, oramai fosse superata, e che dovevo
ravvivare, trovare stimoli per la mia passione. [1]
La Scuola di Lodz è stata un’esperienza molto importante. Per l’epoca era
una scuola perfetta. Allora c’era poca tecnologia. Studiai dal 1969 al 1973
[...]. L’istruzione era seria, studiavamo cinema, chimica, elettronica,
ottica; c’erano attrezzature di ottima qualità. [2]
Il rettore era consapevole dei rischi del futuro. La crisi del cinema
all’epoca consisteva principalmente nel fatto che gli artisti non ricevevano
un’istruzione tecnica, mentre nel mondo c’era già la rivoluzione elettronica
e senza questo sapere non era possibile fare un film veramente moderno.
Nella scuola regnava una sorta di disordine inconscio. L’ateneo lasciava
allo studente la massima libertà – vuoi perdere tempo, bene, vuoi studiare,
eccoti la possibilità. Ma i miei compagni erano in genere dei playboy e non
si applicavano volentieri alla tecnica. [...] Ero l’unico studente ad avere
le chiavi della scuola, non andavo in vacanza ma realizzavo film. Mi
aiutavano in primo luogo il rettore Kotowski e Konrad, ma anche il
magazziniere, le addette al montaggio, i tecnici del suono e quelli delle
luci. Il personale tecnico apprezzava in noi la passione. Era importante
avere delle buone relazioni con queste persone. Se non riuscivi a trattare
con loro personalmente, non avevi praticamente la possibilità di fare film.
[1]
I began my career as a painter. Then, at the end of the 60s, I decided that
painting was dead – I wanted movement not stillness. So I turned to film.
But I had a problem. On film, in general we record the “real” – what is
front of the camera. But I was interested in recording things which don’t
exist in reality – though we are sure they are quite real. I was looking to
record images which exist in our minds, in our dreams, in our consciousness,
in our fantasy. That is the kind of “real”. I care about, and I am still
searching for a new method of “filming”, which all allow me to create such
images on the screen in such a way as to be totally convincing. [3]
Il Surrealismo mi ha insegnato, e ha insegnato al cinema in generale, a
pensare per immagini, a riformulare il reale mediante l’immaginazione. Se
fotografassimo il reale senza in qualche modo reinterpretarlo, avremmo
solamente un suo doppio insignificante e improduttivo. Il Surrealismo, con
la sua carica eversiva di scardinamento linguistico del reale, ci ha
insegnato a guardare le cose con altri occhi, e questo penso sia
fondamentale per il cinema. Per quanto mi riguarda, questo guardare le cose
da punti di vista sempre differenti si coniuga, nel mio lavoro, con il
discorso della tecnologia applicata alle arti visive. [4]
...al cinema elettronico
Penso che il cinema sia qualcosa che, come forma di spettacolo, appartenga
al passato, un po’ come l’opera. E’ una forma d’arte, senza alcun dubbio, ma
la più commerciale in circolazione. Ho proprio la sensazione di un mondo
retrò, quando vedo il titolo di un film sulle insegne luminose dei cinema,
come se dovesse andare in scena l’Aida. E’ il film, inteso come pellicola
che si consuma in sala, a darmi l’idea di un modello che appartenga al
passato. Basta pensare alle miriadi di possibilità che l’odierna tecnologia
può consentire; tuttavia, da un punto di vista cinematografico, non ho
ancora visto un grande impiego di mezzi tecnologici che abbia sviluppato
significativamente la macchina cinema come prodotto e consumo. Mi auguro che
con l’impiego dei computer, e della stessa computer graphics, qualcosa possa
cambiare in maniera decisiva. [4]
Ero stato invitato alla presentazione di un videofilm in uno studio di
Manhattan. Sono arrivato che c’era già una proiezione in corso. L’ho
guardata, convinto di vedere un film girato in 35mm. La luce si è accesa. Ho
aspettato fino a quando qualcuno mi ha spiegato che, ciò cui avevo
assistito, erano immagini in alta definizione. Ero stupefatto poiché sapevo
quale potenziale rappresentava per me. Ho avuto la fortuna che il primo
possessore di questa tecnologia mi ha chiesto di fare degli esperimenti. E
dopo qualche produzione ho deciso di lanciarmi tutto solo e diciamo pure che
ci sono riuscito. [...]
Il supporto in pellicola sarà utile fino a quando i luoghi di proiezione non
saranno attrezzati con dispositivi video. E’ folle girare tutti questi film
in celluloide. Si sporcano, si usurano al termine di un centinaio di
proiezioni. E’ una tecnologia primitiva in confronto alle immagini digitali,
il cui master può essere mostrato in tempo reale in numerosi luoghi per
volta, via cavo o via satellite. Il film è stato scoperto nel XIX secolo.
Niente è cambiato da allora, salvo la forma delle cineprese, una migliore
qualità dei negativi, ma la concezione stessa del cinema appartiene al XIX
secolo.
Nel momento in cui faccio i miei film, centinaia di migliaia di altri
vengono girati. Si è già esplorato tutto. Non c’è più nulla da scoprire.
Guardate il pianoforte o il violino. I più grandi compositori hanno messo in
pratica tutto ciò che potevano fare con questi strumenti. Oggi è finita. E’
chiaro che si utilizzano, ma essenzialmente per interpretare opere del
passato. Ho assistito a una proiezione in alta definizione su uno schermo di
circa otto metri di base. Non c’è più granulosità, l’immagine è migliore di
quella del 35mm. Non si vedono le linee, il colore è perfetto. Ma
curiosamente sono quasi il solo a interessarmene. Come se la comunità
cinematografica avesse paura. Questione di abitudini. Ciò richiederà un po’
di conoscenza nel campo dell’elettronica e dell’informatica. La ripartizione
dei posti di lavoro sarà stravolta. Dunque la situazione è piuttosto
bizzarra: c’è questa tecnologia sorprendente e nessuno che la utilizza. Ora
è chiaro che da qui a qualche anno tutti gli standard cambieranno. La posta
commerciale in gioco è immensa per quel che concerne il rinnovamento dei
televisori domestici e questo nel quadro di un contesto più vasto, che
ingloba i computer, le banche dati, la telefonia... [5]
In the course of my experiments I made some very interesting discoveries:
that motion, visual motion, if I can call it that, gives us the possibility
of photographing “reality”, in a very different way from what we know from
our experience. I built a motion control system which allowed the camera to
make any “motion” in space, at any “speed” – very complex and curious
“motions”, some of which cannot exist in physical reality as we know it. For
example, using this device, we can actually “move” forwards at very high
speed and then reverse immediately, without stopping or even slowing down.
We are used to the idea that we are observing the world – let’s say the
ceilings, wall, floors and other objects are then located at diffrents
points in space. But I decided to tear this perception apart and reverse it.
At any given moment, we are looking at only one object, which is always
located at same point in space. Every object is associated with a unique
position relative to the camera in space. [3]
...e oltre.
If an artist touches technology – though note that only the most modern
technology of the time is forbidden: the older kind is allowed to be touched
– or if by chance an artist should invent a new technology, they are
automatically disqualified from membership of the exclusive club. For
example: Mr. Talbot, Mr. Eiffel, the Lumières – all are chance inventors! Of
course they achieved something important, and it is proper that something
should be written about them in technical books. But not in book about the
arts, thank you! They cannot be permitted to rank with someone of the
stature of a Van Gogh. An artistic hand cannot be permitted to produce a
modern machine or build a new pyramid; an artistic eye cannot look into
mathematical or physical formulae. Everything has become so complicated!
The belief in “specialisation” – which in fact destroyed the old
intellectual artist-scientific élite – has caused terrible devastation in
our culture. The belief in the mutual exclusivity of art and science has bee
taken seriously – as it still is – by some of the greatest minds of our
time. Even Einstein played the violin in his closet only – just as a hobby.
It is a pity the Einstein, Chaplin, Jung, Kafka, Picasso, Joyce, to mention
but a few out our potential hundreds, did not meet together in Hollywood and
work together on the development of the most fascinating technology of the
twentieth century – the technology of “live pictures”.
[...]
If today using computers, we cannot produce images which are actually better
than those a lens can photograph, it means we are confused in our concept of
how to do it. Because, if we really understand the nature of picture, of the
image, creating each images with the aid of technology becomes a very easy
task.
For example, in all my video productions I have always used the Ultimatte –
the fantastic machine invented by Paul Vlahos – a device which allows us to
make an extract with blue matte, and then combine the foreground with the
background. It has a panel and the panel has some twenty buttons. The
operator pushes combinations of buttons to achieve the matte.
[...]
We still have a lot of problems to solve. Good working the powerful buffers
for real-time storage don’t yet exist, so we have to build them. The
transition of data from camera to recorder, from recorder to buffer, from
buffer to computer, from computer to buffer and from buffer to record still
needs to be very much simplified. The computer for the processing of
optically recorded pictures has to be simplified. The computer for
generating artificial images has to be built from scratch. We also need to
construct a new kind of lens, a zoom, with a field of view from 180 degree
to maybe 4 degree which delivers the image having the same geometrical
properties as a computer graphics “lens”. We are developing a new method of
composing different visual components into one coherent picture without a
matte. We are also developing new methods of transfer between different
formats: HDTV, PAL, NTSC and FILM. By 1996, we hope that our “machine” will
already have produced impressive images.
I will be one step nearer to my kind of “realism”: to showing on the screen,
solid and completely convincing as they are our mind’s eye, those things
which are absolutely “real”, but do not offer themselves for capture by the
photographic lens. [3]
[1] Aa.Vv., Filmόwka. Powieść o lόdzkiej szkole filmowej, Wydawnictwo
Tenten, Łόdź 1992, pp. 196, 197, 206.
[2] Dal video di Paola Hilda Melcher, Sara Petri, Gianluca Paoletti,
Zbigniew Rybczynski: appunti per un cinema elettronico, 1999.
[3] Zbig Rybczynski, Looking to the Future – Imagining the Truth, in
François Penz, Maureen Thomas, edited by, Cinema & Architecture. Méliès,
Mallet-Stevens, Multimedia, London, BFI, 1997, pp. 182, 186-7, 191, 196,
197.
[4] Il cinema appartiene al passato. Conversazione con Zbigniew Rybczynski,
a cura di Mauro F. Giorgio, in “Close Up”, febbraio-aprile 1999, p. 92, 93.
[5] Jacques Kermabon, Zbigniew Rybczynski, l’autre dimension, in “Bref”,
maggio-luglio 1990, pp. 12-13.
SEZIONE CINEMA FRANCESE
Nota introduttiva
di Giovanni Spagnoletti
Al di là di ricorrenti polemiche distruttive – le ultime a conclusione del
recente Festival di Cannes – la vitalità del cinema francese è un dato
evidente e si è dimostrata ripetutamente negli ultimi anni, anche e
soprattutto oltre le sue proposte mainstream o le insorgenze autoriali più
assodate e conosciute all’estero. Non si tratta di una vitalità soltanto
frutto di un sistema produttivo che per quantità e importanza specifica
resta, senza ombra di dubbio, il maggiore d’Europa. E’ invece, ci sembra, un
fenomeno polimorfo e apparentemente sotterraneo che merita ben di più dello
sguardo che la nostra selezione e questo volumetto riusciranno ad
abbracciare. Si tratta di un vasto “arcipelago” di proposte, di cui come
altre rassegne e manifestazioni italiane proseguiamo l’esplorazione, e che
abbiamo sussunto sotto il termine – non trovando di meglio - ambiguo e
cangiante di “cinema indipendente”, una nozione che spesso si è prestata e
si presta al fraintendimento. Ma al di là delle ambiguità o sottigliezze
terminologiche, una cosa ci è chiara: il panorama cinematografico francese –
dal film di finzione a low budget al documentario, a tutto il variegato
spettro delle esperienze d’avanguardia – è più che mai in fermento. La
presente pubblicazione si propone proprio di gettare un primo rapido, ma non
per ciò distratto, sguardo su questo paesaggio, con l’intenzione di
dimostrare che non tutto è stato ancora scoperto o adeguatamente studiato
dalle parti transalpine. A partire dal territorio della fiction, cui
Philippe Azoury dedica la sua analisi, articolata etimologicamente
nell’individuazione di sette grandi “famiglie” attraverso cui si organizza
la disamina di una serie di titoli e nomi più (Cantet, Ozon, Breillat) o
meno noti. La nostra mappatura prosegue nel capo della non fiction, dove lo
strepitoso successo internazionale di Être et avoir (Essere e avere, 2002)
di Nicolas Philibert è solo la fioritura più evidente di un terreno assai
fertile che trova il suo humus nei festival specialistici e in una ricca
riflessione teorica: non solo Philibert, allora, ma anche Gheerbrant, Simon,
Dieutre, e tanti altri, posti sotto osservazione dalla penna di Luciano
Barisone. Francesca Leonardi invece analizza i fondamentali snodi produttivi
e distributivi attraverso cui questi autori e queste opere possono nascere e
proporsi a un pubblico: ecco quindi l’Acid (Agenzia per la diffusione del
cinema indipendente) e le sue compagne, e il discorso va a intrecciarsi con
la politica, il protezionismo culturale e le strategie di resistenza allo
strapotere hollywoodiano, in cui i francesi sembrano o sono dei maestri.
La seconda parte del volume si concentra infine sul rinascimento del cinema
d’avanguardia e di ricerca nella Francia del terzo millennio: con una
precisa introduzione di Stefano Masi, e con una serie di testimonianze
dirette di alcuni tra i protagonisti di quest’avventura nelle emulsioni,
nelle meraviglie del Super 8, nella moltiplicazione degli schermi: da Rose
Lowder a Cecile Fontane, da Yann Beauvais e Miles McKane a Pip Chodorov.
TENDENZE DEL CINEMA FRANCESE CONTEMPORANEO
Edizioni Fondazione Pesaro Nuovo Cinema Onlus
A cura di Stefano Masi e Giovanni Spagnoletti
PRIMA PARTE
Certe tendenze del cinema francese contemporaneo
Philippe Azoury: Il gioco delle sette famiglie del cinema francese
Cristina Piccino: I misteri del femminile
Luciano Barisone: Le contaminazioni del reale – Il documentario francese di
“creazione”
Francesca Leonardi: L’Acid: un’agenzia per il cinema indipendente
SECONDA PARTE
Percorsi e strategie dell’avanguardia cinematografica
Stefano Masi: re:naissance – La nuova âge d’or dell’avanguardia francese
Jean-Damien Collin e Loïc Diaz Ronda: Intervista a yann beauvais e Miles
McKane
Rose Lowder: Scratch e gli Archivi: due utopie
Pip Chodorov: The Birth of a Labo e la rete dei laboratori indipendenti in
Francia
Cecile Fontaine: Mosaico o ricamo
SELVAGGI SGUARDI DALLA FRANCIA
Di Stefano Masi
Il cinema dell’avanguardia francese sta vivendo in questi ultimissimi anni
una stagione entusiasmante, che si potrebbe forse paragonare a quanto
avveniva nell’Underground americano negli eroici anni Sessanta, un vasto
fiorire di idee, stili, personaggi nuovi, luoghi d’incontri, strutture,
organizzazioni, riviste, battaglie culturali, associazioni che forniscono
supporto logistico, tecnico e distributivo. I cataloghi delle società che
fanno circolare i film, Light Cone in primo luogo, di anno in anno si
arricchiscono di decine di nuovi titoli. Alcuni di questi sono opere di
maniera, altri sono prodotti interessanti che ripropongono in forme
aggiornate antiche esperienze già percorse da altri cineasti, alcuni (pochi)
sono piccoli capolavori che aggiungono pagine assolutamente nuove alla
storia della visione cinematografica, come L’oeil sauvage di Johanna Vaude o
Boy’s best friend di Cecile Fontaine.
Sarebbe un grossolano errore pensare – come talvolta si fa riferendosi ai
contenuti del cosiddetto “cinema sperimentale” – che tutto sia già stato
detto e fatto, che nessuna nuova esperienza possa profondamente innovare il
panorama dell’avanguardia cinematografica: ogni generazione rilegge il mondo
con una sensibilità diversa e non tutte le ribellioni sono la copia carbone
di quelle avvenute in passato. Cambiano gli scenari sociali e politici di
fronte ai quali gli artisti si trovano e con i quali si confrontano nel
momento di progettare la propria missione, cambiano le prospettive
dell’espressione formale del mainstream dal quale gli artisti
dell’avanguardia sentono di doversi allontanare, cambiano le possibilità che
la tecnologia offre loro (tipologia delle macchine, tipologia delle
pellicole, costi, formati), cambia l’aria che si respira. Ma quel che cambia
sono soprattutto i cuori, con i loro amori, le loro ossessioni, le loro
passioni, che ogni volta sono straordinariamente diverse.
La generazione che in Francia ha scoperto il cinema sperimentale negli
ultimi sette o otto anni (e sono tantissimi cineasti, più o meno grandi,
destinati a un futuro più o meno importante) deve fare i conti – in quanto a
influenze culturali – con una serie di codici che le generazioni precedenti
non frequentavano, a cominciare da quello che vive nella commistione di
immagini e musica dei videoclip, che ormai vengono bevuti col latte materno
di MTV, e per i ventenni degli anni Novanta non potevano più costituire un
“nemico” dal quale discostarsi. Essi sono semplicemente un elemento in più
che sta nell’humus dell’artista, il quale ne manipola il Dna e lo
metabolizza – insieme a mille altre suggestioni provenienti dalla storia
dell’arte antica e contemporanea – per ricavarne stimoli utili alla
creazione del proprio mondo espressivo. Così, per esempio, nel cinema di
Johanna Vaude, che pure non si può considerare in nessun modo una cineasta
imparentata al videoclip o vogliosa di esserlo, si percepisce che
l’organizzazione del materiale è stata progettata da un’artista nata e
cresciuta nell’epoca della televisione musicale, un’artista che ha avuto nei
polmoni e nel cervello i pomeriggi trascorsi davanti alle trasmissioni di
MTV, magari soltanto sullo sfondo, magari senza guardare attentamente. Non è
una circostanza strana, da stigmatizzare o da sottolineare. È il bagaglio
culturale di una generazione, che è diverso da quello delle precedenti
generazioni. La cultura visiva si è evoluta fortemente negli ultimi
vent’anni, per quel che riguarda la grafica, la pubblicità, la moda, il
video. C’è MTV, ma c’è anche l’organizzazione ipertestuale dei multimedia,
ci sono le navigazioni in internet. E allora il montaggio cessa di essere
lineare, progressivo, diventa multistrato e multidirezionale, si allarga in
tutte le direzioni e in tutte le dimensioni, producendo un andamento che a
qualcuno sembrerà disordinato. Ma si tratta soltanto di un ordine diverso,
basato su coordinate differenti, che ambisce comunque a dominare il rumore
di fondo del caos. Ora ci riesce bene, ora meno bene. Quando le cose
funzionano parliamo di capolavoro, altrimenti…
I “nemici” e gli “amici” sono quelli di sempre: da una parte l’entropia,
dall’altra la natura, cioè noi stessi.
Anche l’antica separazione fra pellicola e video non ha più molto senso e –
pur senza spostarsi nel campo della video-arte – gli artisti del cinema
sperimentale saltano dal nastro alla pellicola con una facilità che una
volta avremmo definito sconcertante (o addiritttura una bestemmia),
rifilmando in pellicola da un monitor video o in video da una proiezione in
pellicola, per un numero variabile di passaggi, con lo scopo chiaro di
manipolare la pasta dell’immagine e arrivare a un risultato estetico che
vent’anni fa non sarebbe stato nemmeno immaginabile. Accanto a questa
maniera di lavorare ne esistono tante altre. Tanti modi diversi per
manipolare l’immagine e arricchirla di senso.
Non si può parlare di una nuova scuola francese dell’avanguardia
cinematografica, perché non esiste un paradigma comune, né stilistico, né
tematico, né tantomeno ideologico. Eppure i cineasti francesi della nuova
generazione hanno in comune almeno un tratto formale, che non si
materializza in nessuna costante stilistica, ma nel fatto di utilizzare
tutti (o meglio, quasi tutti) strutture come i laboratori indipendenti:
luoghi come L’Abominable, dove il contatto fisico con i materiali è
praticamente obbligato. Queste strutture, che non erano disponibili negli
anni Settanta, hanno diffuso una consapevolezza tecnica più ampia,
accessibile a un maggior numero di cineasti e con una maggior possibilità di
sviluppare conoscenze tecniche approfondite. Allora potremmo dire che nella
Francia di oggi portare all’estremo limite le modalità espressive del mezzo
cinematografico è più facile, perché anche i procedimenti che una volta
erano standardizzati dal “collo-di-bottiglia” dei laboratori di sviluppo e
stampa oggi possono essere messi in crisi dalla creatività dell’artista e
dalle sue contingenti esigenze, entrando a far parte di un processo
espressivo che si configura come individuale.
Nel cuore di Le Fresnoy : il cinema
Di Alain Fleischer
Le Fresnoy – Studio national des arts contemporains, è un centro
dinsegnamento, di produzione e diffusione artistica e audiovisiva di alto
livello, animato da un programma pedagogico unico nel suo genere, che si
trova vicino a Lille, nel nord della Francia (a qualche chilometro da
Bruxelles), in un edificio progettato da Bernard Tschumi, riconosciuto come
una delle opere più originali dell’architettura degli ultimi anni.
A volte definito la “ Bauhaus dell’Elettronica ”, la “Villa Medici” high
tech” o l’“Ircam delle arti plastiche ”, il progetto di questa scuola di
nuovo genere mi fu commissionato dal Ministero della Cultura nel 1987, per
realizzare un luogo importante nel campo dell’insegnamento artistico alle
nuove tecnologie della creazione numerica e all’ipermedialità. Lontano da
ogni certezza per quanto riguardava le mie analisi e i miei propositi, e
riguardo la possibilità che queste potessero raggiungere uno scopo, ho
elaborato un progetto per molti aspetti utopico, basato sull’unione di tutte
le pratiche artistiche – favorendone l’ibridazione e l’impurità – e su una
pedagogia di passaggio all’azione e alla realizzazione con mezzi tecnici
professionali. Questo presupponeva un personale esperto e un parco di
materiali considerevoli e costosi. Da una volontà politica di cui non si
conoscono che pochi altri esempi, questa utopia è diventata realtà.
Contrariamente alle istituzioni che – in Germania, in Nord America o in
Giappone – hanno isolato i nuovi media di creazione artistica in specie di
ghetti popolati di computer, ho calcolato che non c’era nessuna ragione
teorica, estetica o epistemologica per separare le immagini di sintesi, i
supporti quali i CD Rom o i DVD, la realtà virtuale, i racconti
arborescenti, le opere interattive, ecc., da una storia generale delle
immagini meccaniche, inaugurate dalla fotografia e largamente dominate nel
XX secolo dal cinema che, d’altronde, non ha cessato di ispirare e
affascinare gli artisti di ogni disciplina. Per esempio, non è difficile
osservare in certe opere di cinema sperimentale, di cinema d’animazione o di
cinema degli artisti plastici, gli antecedenti storici della Video Arte e
delle opere dell’audiovisivo numerico. Un continuum estetico è chiaramente
visibile, oltrepassando l’incontestabile rottura per quanto riguarda
supporti e materiali. Per creare un racconto interattivo arborescente, o per
fabbricare delle immagini interamente calcolate – che siano realistiche o
che provengano da una immaginazione inusitata –, non è vero che, malgrado
tutto, bisogna illuminare, organizzare lo spazio, immaginare dei movimenti,
associare immagini e suoni, sottostare alla sintesi del montaggio? E le
immagini elettroniche, già confinate nei limiti del tubo catodico, non sono
oggi proiettabili in una perfetta imitazione di quelle cinematografiche ?
È così che a Le Fresnoy i corsi si svolgono nell’arco di due anni, dei quali
il primo è dedicato alle realizzazioni su pellicola – fotografia e cinema –,
fino al video tradizionale e al campo sonoro e musicale, mentre il secondo
chiama gli studenti a raccogliere la sfida di una creazione aperta alla
manipolazione delle immagini o alla loro creazione numerica,
all’interattività, alla non linearità del racconto (e all’emancipazione
dalla temporalità naturale), alla rete, ecc. In entrambi gli anni, le opere
prodotte coi materiali comuni possono essere destinate a spazi di diffusione
molto differenti: è così che il cinema lascia il dispositivo di proiezione
di fronte allo schermo, nella sala buia, per insediarsi altrimenti negli
spazi dell’arte e nelle sale espositive. Accade anche che sia presente in
interazione con ballerini o attori, sulla scena di uno spettacolo dal vivo.
Di fronte all’offerta delle nuove tecnologie dell’immagine e del suono, ho
spesso pensato che se Cervantes avesse conosciuto tali possibilità, la sua
immaginazione si sarebbe trovata idealmente a proprio agio nel distribuire
le proprie storie in quegli spazi e su quei supporti dove immagini e suoni
si manipolano come le innumerevoli pagine di tanti libri.
Malgrado tutto, resto convinto della sovranità di questa forma che affascina
tutto il ventesimo secolo : il film al cinema, e del dispositivo che, per
catturare lo spettatore, lo rende prima fisicamente bloccato, destinato a un
posto fisso, di fronte ad uno schermo, prigioniero di una temporalità della
finzione che lo estrae provvisoriamente dal tempo generale: evasione. La
forza di questo meccanismo che convoca e riunisce un pubblico, vale a dire
una comunità di osservatori di fronte alla potente espressione di un
creatore unico, maestro assoluto delle immagini, dei suoni e dei tempi, mi
sembra ancora promettere qualcosa per il futuro. Finché si continuerà a
chiamare “cinema” delle opere che hanno tutte le caratteristiche estetiche e
narrative dei film, anche quando saranno definitivamente emancipate dai loro
vecchi supporti su pellicola, dalla bella meccanica del proiettore a 35 mm e
dalla croce di Malta, riservata alle sole cineteche o ai musei del cinema,
si potrà continuare a vedere le opere del primo secolo di cinema nelle
condizioni originali per le quali furono concepite.
Per queste ragioni di ordine teorico, alle quali si aggiungono le ragioni
del cuore, il cinema resta nel cuore di Le Fresnoy. E se è cinema, che tutto
vada, non ci sia niente di proibito. I fratelli Lumière inventarono una
macchina d’illusione più perfezionata di ogni altra attrazione da fiera, ma
di fatto in concorrenza con esse e per lo stesso pubblico. Le invenzioni
tecnologiche d’oggi – computer, software e apparecchi collegati – proseguono
in qualche modo l’opera dei Lumière, con lo stesso obiettivo, quello di una
illusione sempre più stupefacente, che invade lo spazio e modifica il tempo.
Il cinema, quello di ieri e quello di domani, è invenzione di altro ordine :
quella dei cineasti, quella degli artisti.
OMAGGIO MASTRELLA - REZZA
Mastrella-Rezza: un’introduzione
Di Paolo D’Agostini
Da quale pianeta sono caduti sulla Terra Flavia Mastrella e Antonio Rezza? E
con il cinema che c’entrano? E con quello italiano, con quello italiano
degli anni Novanta, poi? Non ci si può appellare e tanto meno appigliare a
niente per definire, classificare, contenere la loro opera o il loro
operato. Due marziani. Due marziani da Nettuno, località balneare poco a sud
di Roma.
Cinema, si diceva. Effettivamente Mastrella e Rezza (la bandiera della
coppia è lui, ma lei si ha l’impressione che sia, con rispetto parlando,
l’uomo di casa: chissà se la mente, certamente la musa) hanno lambito, solo
lambito il cinema.
Si sono espressi nella misura del corto, soprattutto, e del video
cortissimo. Ma hanno tentato due volte, sia pur nell’anomalia che è il loro
regno, anche il lungometraggio. Escoriandoli praticamente regolamentare di
misura e perfino con quattro attrici famose o quasi (Valeria Golino,
Isabella Ferrari, Valentina Cervi, Claudia Gerini) e Delitto sul Po
stiracchiato a 74 minuti. Perché in realtà non voleva essere un film ma era
un’ipotesi di (ridete, immaginate l’effetto su mamme e nonne) sceneggiato
televisivo.
Hanno molto praticato, e praticano, il palcoscenico con quelle scenografie
essenziali e mostruose: un lenzuolo con tre buchi da cui escono le mani
adunche e l’espressione contorta di Antonio con la sua voce gracchiante e la
sua lingua da Petrolini burino. Hanno poi abitato anche gli angoli di quella
televisione ultraminoritaria ma trendy, come Ciprì e Maresco, che ha
scoperto talenti. La Rai Tre di Ghezzi, di Fuori orario e imparentati. Ma
anche dell’inchiesta: se Troppolitani può essere rubricato come tale,
intriso com’era, questo programma che forse sarebbe piaciuto a Nanni Loy con
Rezza che andava non a intervistare ma a molestare la gente con il microfono
legato a un dito con lo scotch, degli stessi succhi paradossali ed
esasperanti, irritanti grotteschi esilaranti di tutto il resto. Ma anche
Telepiù, dove i due si sono spesi in pillole di critica cinematografica, sui
generis manco a specificarlo, come ai bei tempi di Benigni a L’altra
domenica.
Non sono un cultore dell’off-off. E all’epoca dell’ubriacatura nordista e
pre-leghista (tale anche se i promotori si ritenevano molto ma molto di
sinistra) del cosiddetto cinema indipendente che indipendente non era quasi
mai ed era assistito tale e quale a quello “di Roma” – pagavano enti locali
e Rai, e quanto a vedere quei corti e video, se non ci fosse stata la
compagnia dei festival loro supporter e complici, Bellaria e Torino in
testa, e a sbornia passata è arrivato Arcipelago, mai nessuno li avrebbe
visti – mi interessavano più i film che facevano i conti con la realtà,
Moretti compreso, che non gli scadenti sgrammaticati balbettii in maschera
trasgressiva.
Ma quando mi capitò l’onore di far parte di una giuria, a Torino 1992, e
vidi i venti minuti de La divina provvidenza di un tipo che non avevo mai
sentito, tal Rezza, rimasi scioccato. Quella parata di frati a testa bassa e
culo all’aria mi indusse, senza sforzo, a pensare a un sacco di cose.
Capivo che questo Rezza pescava solo nella farina del proprio sacco ma che
al tempo stesso il suo stile e il suo mondo così speciale trasudavano
memoria di altre esperienze estetiche. In questo caso lui non è
particolarmente visibile, ma la luce sinistra e la cupezza di questa messa
in scena, le angolature oblique e le asimmetrie, così come tante altre volte
la prepotenza del corpo e della facciaccia di Rezza invadente in scena fino
a pochi centimetri dall’obbiettivo, secondo lo stesso gusto e la stessa
visione dello spazio, scomodo, inospitale, ostile su quegli sfondi scrostati
e cadenti, medievali anche se postindustriali: ebbene tutto questo mi ha
fatto subito pensare a Nosferatu.
Antonio Rezza e Flavia Mastrella sono due vampiri, ecco. Succhiano il sangue
di qua e di là – dall’espressionismo e da Petrolini, dai massimi campioni e
cantori del Brutto dello Schifoso del Laido del Deforme come il sommo Buñuel
(altro che Ciprì e Maresco) e da Franchi e Ingrassia, dall’Avanguardia
Storica e da Carmelo Bene, da Totò e da Mel Brooks (Rezza è Nosferatu ma è
anche “Aigor” e un po’ anche Capannelle nella versione Armata Brancaleone e,
va da sé, il Nerone petroliniano: “Bravo! Grazie!”) – ma neanche sai e
capisci se tutte queste fonti e riferimenti li conoscano o li degnino di
considerazione.
Perché la loro è invenzione. Sono artisti poveri, poverissimi (bastano due
stracci, un fazzolettaccio in testa e una boccaccia per creare un mondo) e,
che lo siano davvero o no, coltissimi.
La faccia distorta in smorfie orrende e sdentate (che poi dal vero Rezza non
è così brutto). La lingua, la fonetica. Sono i due punti di forza. Una
lingua che Rezza maneggia e manipola come un giocoliere, come un trapezista
senza paura. Il solo precedente che mi viene in mente è l’impasto
ciociaro-umbro-marchigiano creato da Age e Scarpelli: per Brancaleone ma
anche per Straziami ma di baci saziami. E poi, certamente, i virtuosismi
vocali di Carmelo.
Non lo so mica se sia da auspicare il loro approdo a platee meno ristrette
di quelle (per quanto, soprattutto a teatro, hanno un piccolo esercito di
fan) raggiunte finora. Per il loro conto in banca sì, dopo tanto lavoro
meriterebbero più gratificazioni. Ma il loro è veramente un regno di libertà
totale, dove l’efferatezza non deve rendere conto a nessuna regola di
presentabilità, e fa bene sapere che qualcuno lo abita. Come dicevano i duri
dei film noir: è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo.
Il corporeo
Di Flavia Mastrella
Il corporeo - l’incorporeo – l’inanimato …tutto è materia, ogni elemento
montato o assemblato può raccontare una storia, comunicare. L’atmosfera del
momento, la finzione, l’atto nello spazio, diventano immagine, frammento da
trasformare per costruire un ritmo - il film - il corto .
Video, digitale, cinema, TV, teatro, hanno regole con sotto-regole, modalità
spaziali e poetiche antitetiche, si avvalgono di strumentazioni e linguaggi
che dettano legge…..regole e leggi sono il materiale che preferisco… dove
c’è la regola posso sempre infrangermi in ragionamenti sconnessi scoprire
nuove prospettive da aberrare.
Con intenti precisi sono stati realizzati da me e Antonio Critico e critici
per Telepiù su richiesta di Fausto Galosi e Fabrizio Grosoli e Troppolitani
per Rai 3 ideato con Annamaria Catricalà che c’istruiva spiegandoci la
logica della comunicazione in TV con una pazienza aggressiva e
irresistibile. La complicità raggiunta con loro ha arricchito la percezione
che ognuno di noi due aveva - della critica cinematografica con Fausto – e
dell’intervista con Annamaria. In questi due lavori lo studio sul
personaggio é il punto di partenza: c’è Antonio nei panni del critico
disfattista seduto in poltrona, e Antonio conduttore che vaga nella realtà
urbana romana con il microfono incastonato tra le dita. Confusus è stato
concepito sfruttando le pulsioni del festival del cinema indipendente
“Anteprima” di Bellaria. Il Piantone invece porta con sé l’atmosfera che si
respirava in quel periodo al “Torino Film Festival” mentre l’uomo sorridente
vinceva e cominciava a lottizzare nuovi spazi.. Con Antonio ho scritto la
sceneggiatura e i dialoghi di EScoriandoli… la nostra prima sceneggiatura
che è stata trasformata in film senza troppe rivisitazioni…non siamo stati
mai più così precisi, il primo contatto con le attrici professioniste, la
gioia di avere una troupe era a tratti offuscata da Galliano Juso,
produttore spietato ma di buon cuore.
I cortissimi sono figli della trance - li realizzavamo soli partendo da
dialoghi scritti da Antonio e poi era tutto un lavoro sul corpo, lo spazio,
sulle espressioni, e la mitizzazione…la voce aspra scandiva il ritmo delle
immagini; parlavano di concetti basilari dell’uomo, solo, misero ma
straordinariamente umano.
Delitto sul Po è nato in preda al delirio… sullo scheletro del poliziesco,
la storia non c’era e i dialoghi sono tutti improvvisati. Per la prima
volta, una certa professionalità si era impossessata di noi - ma i nostri
anticorpi hanno reagito….e non abbiamo cercato di fare un film. Durante le
riprese sul Po si è instaurato un nuovo rapporto con la videocamera, le
inquadrature respirano e vibrano, c’è molto movimento, sia io che Antonio ci
siamo fusi con il mezzo. Nello spazio acquoso la storia è rigida i
personaggi eterei muti, le inquadrature seducenti sono rese mistiche dalla
musica, negli uffici i corpi degli attori mischiati agli oggetti trasudano
carnalità, urlano, la confusione è totale, il Film è stato scritto in fase
di montaggio con le immagini già girate e altre girate a volo per comodità
della storia. In Delitto sul Po, i doppiaggi, qualche volta fuori sinc sono
l’unica forma stilistica che abbiamo mantenuto, innovativi sono i cinque
secondi di nero tra un frammento di storia e l’altro, il tempo giusto per
sprofondare nel vuoto. Delitto Sul Po è un’opera che io ritengo
Testamentaria.
I nostri nuovi progetti cinematografici sono Samp iniziato a girare in
digitale come cinema da strada negli spazi della Puglia, al momento
ibernato, e Pedardo a Luci Rosse scritto tra il 1999 e il 2001 concepito
come film in pellicola con effetti digitali.
Il teatro è un’altra cosa… I miei allestimenti scenici interagiscono con
l’azione, si amalgamano alla rappresentazione, sconvolgono i contenuti dei
testi di Antonio in senso visivo, determinano personaggi e movimenti ,
parlano il linguaggio della forma e del colore. Ogni singolo elemento ideato
per l’allestimento ha un senso indipendente, ma non estraneo alla storia che
poi andrà ad accogliere, i quadri di scena sono il contrario della maschera
e grazie all’intervento corporeo di Antonio si trasformano in sculture vive.
Quando lavoriamo agli spettacoli le nostre idee nascono separatamente, e poi
si uniscono…
Nel teatro la rappresentazione momentanea prende il sopravvento: si parla di
spazio definitivo, mutabile nei limiti di una realtà oggettiva; cinema e
video invece mi permettono la comunicazione attraverso un linguaggio più
adeguato alla mia natura, tutto in un film od in un corto parla e
significa…Il teatro come il cinema in questo momento soffrono, sono umiliati
dalla cultura televisiva, produttori e distributori ottenebrati dal
marketing, tendono ad emarginare e mettere in scatola ogni forma di
comunicazione che non mastichi la gomma americana a bocca aperta.
Al di là del talento molto poté la noia
Di Antonio Rezza
Come in ogni inizio ci fu l’entusiasmo che accompagna le cose da conoscere:
il teatro mi affascinò non poco proprio in virtù della mediocrità di ciò che
studente mi veniva imposto. Ricordo bene le “deportazioni” al Quirino, al
Valle e al Teatro Argentina per vedere attori statali che si affannavano
godendo così poco. Ma non provai tristezza, provai noia. La tristezza a 18
anni è cosa rara mentre la noia nasce con noi e ci accompagna spietata fino
all’ultimo giorno, quando avremo poca noia di finire. Non c’è noia che non
sia eterna ed io questa eternità me la sono inflitta. Immaginavo, già
allora, di poter essere io su un palco a fare quel che mi passava per una
testa mai completamente votata al sacrificio. Iniziai a 18 anni e per almeno
7 di quelli a venire mi dedicai anima e nulla all’idea del palcoscenico.
L’incontro con Flavia Mastrella, altra persona che si annoia, raddoppiò la
mia insofferenza. Con l’aiuto di Massimo Camilli, tutt’ora muso e ispiratore
delle opere teatrali, allestimmo una mostra fotografica sull’espressività
del volto umano, il mio volto, la mia poca umanità. Spostammo le performance
su carta fotografica e dopo sul nastro magnetico di una telecamera. Ebbe
inizio così, tra il 1990 ed il 1996, una produzione accuratamente selvaggia
di corti e cortissimi metraggi che puntualmente sbaragliavano la concorrenza
e si imponevano nei festival di cinema nazionali. Ma di produttori nemmeno
l’ombra, il nostro trattare oltre le mediocri righe dei loro spartiti ci
faceva infetti e senza casa. Costretti all’autarchia alternavamo, in quel
periodo, film corti a spettacoli teatrali e, se con il teatro mi muovevo
insieme alle intenzioni, con il cinema storicizzavo il mio incedere
sconnesso. Ma la noia era nell’aria. Nel 1996 sentimmo l’esigenza di fare un
film con la pellicola, con un produttore, con una troupe, con delle attrici
vere e con tanta gerarchia, gerarchia cui non voglio aver diritto. Il
risultato fu sorprendente: si può lavorare bene anche con chi è pagato per
farlo. Incredibile, non credevo ai loro occhi. Escoriandoli venne fischiato
a Venezia con un accanimento sincero e bigotto. Contemporaneamente mi
esibivo sui palchi di questa povera striscia di terra fatta a stivale per
galleggiare nella melma. Mi veniva negata la televisione, il nostro teatro
ed il linguaggio cinematografico venivano tenuti lontani dagli occhi di un
pubblico a dir loro, a detta dei garanti delle pattumiere, poco preparato
alla novità. Invece il pubblico è sempre preparato. L’ho imparato a spese
loro. Comunque il consenso cresceva, “attore e autore contro”, “innovatore
della parola e dello stare in scena”. Ma costretto a stare dove si vuole che
tu stia. Ed io non sono ciò che vuole un altro, sono a malapena ciò che io
non vorrei mai. E quindi oltre alla noia insita nell’arte si faceva spazio
la noia verso il genere umano detentore degli spazi della comunicazione. Una
noia che avrei volentieri camuffata in sterminio. “Da certi mali ci si
libera solo con la morte”.
L’attività procedeva frenetica e incessante, mi venivano proposti libri che
raccogliessero i testi degli spettacoli con video allegati. Proposte fatte
su misura per pezzenti. E chi è pezzente ha ben motivo di accettare. Ma io
nasco con l’aristocrazia nel cuore e ad ogni passo mi giro indietro per
vedere se sono già passato. Decisi di scrivere il mio primo romanzo
pubblicato da Bompiani. In quel periodo ero impegnato sul palco, sulle
immagini e sulla pagina bianca. Al primo seguì il secondo. E tanto teatro. E
ancora cinema. Il tutto accompagnato da recensioni entusiasmate: ma la
popolarità che mi fa disperare continuava ad essermi lontana. Finalmente, in
preda a nuove insofferenze, ci venne proposta una trasmissione televisiva
dove potevamo fare tutto noi. Benissimo. Erano interviste a corpo libero
assolutamente deflagranti, tanto esplosive da venir ben presto confinate a
notte fonda. Ma è dal fondo della notte che salimmo il viale alberato della
popolarità solo apparentemente occulta. Dopo tanta espansione, teatro,
cinema, letteratura e televisione, una sana ed imbecille ritorsione. Ci
vennero negati quasi tutti gli spazi teatrali, la televisione, nonostante il
successo del programma, se ne andò, ed il cinema iniziò a farci brutti
scherzi: finanziamenti negati, pellicole censurate da distributori che sono
quel che fanno. E in quel che fanno troveranno un rimpianto inconsapevole.
Questa persecuzione rende la vita di me, grande attore, molto più
interessante. Diventerò miliardario per accumulo, non ho bisogno dei
miliardi ora. Ora ho le idee a tenermi in vita. E mi accorgo di essere
veramente popolare. Davanti a me c’è ammirazione ed io amo chi mi ammira, lo
tocco, lo bacio, lo ritengo veramente migliore. Ma deve essere
un’ammirazione fatta solo di sguardi. O di baci. Usatela la bocca per
baciare e uscite dalla bocca insieme al bacio per poi posarvi sulle guance
di chi non vi prevede. Ecco, il non prevedere quello che piacerà al
pubblico, è un privilegio cui non potrò mai sottrarmi. Se tra tutte le cose
che faccio dovessi sceglierne una preferirei la noia: che si trasformerà in
noia per la vita. Peccato.
L’autarchia è un peccato capitale.
17° EVENTO SPECIALE – ERMANNO OLMI
PREMESSA
di Adriano Aprà
L'attività di Ermanno Olmi è fra le meno lineari del cinema italiano, anche
se a sostenerla c'è una coerenza umanistica che si manifesta, nelle tante
interviste che ha concesso, in forme spesso sin troppo semplificate. Il suo
ultimo film, Il mestiere delle armi (2001) – in attesa di Cantando dietro i
paraventi che potrebbe complicare, una volta di più, il tentativo di
classificazione che mi propongo di fare –, riapre sotto un segno stilistico
radicalmente nuovo un percorso già molto variegato: quello, stavolta, di un
universo che non ha più alcun referente "realistico", interamente inventato,
forse "sognato".
Le origini tuttavia sono, all'opposto, un prolungamento degli stimoli
neorealistici che lo avevano colpito in gioventù (Paisà, Ladri di
biciclette), o forse un modo di portarli alle estreme conseguenze per farli
quindi esplodere. Lo fa in due direzioni, che resteranno separate nonostante
le reciproche influenze: quella del documentario e quella della finzione. Da
una parte c'è una linea di documentario "espositivo", la cui funzione
primaria è appunto quella di documentare una realtà data come oggettiva al
di là della presenza di una macchina da presa: è la fase, prolifica (18
cortometraggi e un mediometraggio, Michelino I° B), che va dal 1954 al 1961
(a rigore, un'eccezione è il già più metaforico Grigio). Dall'altra, nel
campo della finzione, questa attenzione alla realtà si manifesta nel "cinema
di prosa" dei suoi esordi nel lungometraggio: Il tempo si è fermato (1959) e
Il posto (1961). Qui ciò che lo appassiona è un'attenzione alla superficie,
diciamo pure alla pelle di tale realtà, come se essa potesse render conto,
per suggestione, anche di ciò che le sta dietro: in maniera più depurata,
quasi astratta, nel primo film; con una maniacale cura del dettaglio nel
secondo. Entrambe queste linee avranno prolungamenti e dilatazioni, che le
renderanno non più praticabili, come per l'esaurimento di una ricerca e di
uno stile, molti anni più tardi: in Milano '83 (1983) e Artigiani veneti
(1986) nel caso del documentario espositivo, qui depurato da scorie
precedenti (sono due variazioni analoghe su temi opposti); ne I recuperanti
(1970) e L'albero degli zoccoli (1978) nel caso del cinema di prosa. Lungo
questa duplice linea stilistica Olmi abbandona sempre di più il mondo
industriale e urbano, che pure lo interessa e in parte lo affascina, in
favore della cultura contadina vista come depositaria della sapienza antica
ma, nella sua concretezza, valida e verificabile anche oggi, almeno per le
virtù riproduttive del cinema.
Con I fidanzati (1963) Olmi innesta sistematicamente nella realtà oggettiva
le forme di quella soggettiva, attraverso flashback e flashforward in
funzione introspettiva assai più che narrativa. Questa linea, che si può
definire di "cinema di poesia" (era stato Pasolini a contrapporre proprio il
cinema di prosa de Il tempo si è fermato al più "moderno" cinema di poesia
del quasi coevo Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci), prosegue in
maniera stilisticamente sempre più complessa col televisivo Giovani (e la
sua sintesi per il cinema Racconti di giovani amori, 1967) e con Un certo
giorno (1968), per trovare la propria apoteosi ne La circostanza (1973).
Non deve sorprendere che le linee che sto cercando di definire si
intersechino fra di loro. Olmi, almeno stilisticamente, non è un autore
"coerente". Pur facendo sempre con estrema naturalezza il proprio cinema,
forse anche perché ne padroneggia come pochi altri, in prima persona, i
mezzi tecnici (fotografia, montaggio), conserva lo spirito dello
sperimentatore. Il nuovo esperimento si chiama E venne un uomo (1965) che,
nel ripercorrere ricostruendolo il cammino di Angelo Roncalli dalla nascita
al pontificato, affronta la linea che oggi possiamo definire del
film-saggio, di un documentarismo cioè ibridato non solo da elementi di
finzione ma soprattutto da una volontà di riflettere, e di far riflettere lo
spettatore, su ciò che gli si sta proponendo. Questa linea andrà affinandosi
in televisione, dove Olmi, per rifarsi del calo d'interesse che c'è nei suoi
confronti come autore di cinema, e approfittando della relativa libertà
concessa dalla Rai, realizza in particolare opere a carattere storico, saggi
sulla storia appunto, come Le radici della libertà (1972) e Nascita di una
formazione partigiana (1973), che trovano il loro compimento nelle tre
puntate di Alcide De Gasperi (1974).
In questi anni prolifici Olmi abbozza una ulteriore linea di ricerca, quella
di un cinema "metaforico", dove la realtà, che era rimasta come sostrato e
sostegno delle varie altre linee fin qui praticate, comincia a perdere di
concretezza in favore di un discorso più esplicito, quasi che invece di
raccontare o descrivere egli volesse comunicare delle parabole, degli
apologhi, degli exempla. Il primo segnale di tale mutamento è avvertibile in
Durante l'estate (1971). Il successivo tentativo, che è anche quello a mio
parere più riuscito in questa impervia direzione, è rappresentato da
Camminacammina (1983), l'unico suo film, fra l'altro, ad anticipare in
qualche modo il sorprendente Il mestiere delle armi. Dopo un periodo di
grave malattia, Olmi torna al cinema proseguendo su questa linea con Lunga
vita alla Signora! (1987), La leggenda del Santo Bevitore (1988) – sorta di
versione in prosa, "normalizzata" e internazionalizzata, del suo cinema
metaforico –, Il segreto del bosco vecchio (1993) e Genesi: la Creazione e
il Diluvio (1994). Sono gli "anni difficili" di Olmi, quelli in cui, nel
campo del cinema di finzione, ci dà le opere a mio avviso meno convincenti.
Ma intanto, a conferma del suo bisogno di sperimentare, trova modo di
affrontare anche l'opera d'arte elettronica con due opere completamente
diverse ma ugualmente esemplari: Apocalypsis cum figuris, da Grotowski
(1979), e Sopra le sette ultime parole del nostro Redentore in Croce, da
Haydn (1985).
Penultimo capitolo di questa incessante ricerca, ancora nel campo del
documentario, è Lungo il fiume (1992), dove l'ansia per le sorti
dell'umanità, che non lo ha mai abbandonato – e che altrove aveva comunque
espresso in termini positivi, cercando nella realtà, in forme dirette o
indirette, una risposta –, si manifesta ora come sublimazione
cinematografica, quasi che il recupero ecologico del Fiume, cioè della
nostra terra, non avesse più senso che come utopia.
È la medesima angoscia che traspare dalla lucentezza metallica e dal
contrappunto audiovisivo de Il mestiere delle armi: gli uomini hanno
distrutto il loro mondo, solo nella finzione del cinema se ne può
ricostruire il senso.
Ermanno Olmi. Il cinema, i film, la televisione, la scuola
Marsilio Editore
a cura di Adriano Aprà
Il cinema
Saggio introduttivo di Adriano Aprà
Il cristiano muore ogni giorno e ogni giorno rinasce. Osservazioni
teologiche sul cinema di Olmi di Virgilio Fantuzzi
Olmi fra mondo contadino e mondo industriale di Luca Mazzei
Olmi: il racconto, il montaggio di Luciano De Giusti
L'esperienza di Ipotesi cinema di Marco Bertozzi
Olmi: la fortuna critica di Laura Buffoni
I film (e un romanzo)
I cortometraggi industriali di David Bruni
"Dialogo tra un venditore di almanacchi e un passeggiere" di Laura Vichi
"Il pensionato" e "Grigio" di Ivelise Perniola
"Il tempo si è fermato" di Luca Mosso
"Il posto" di Lorenzo Pellizzari
"I fidanzati" di Alberto Pezzotta
"…E venne un uomo" di Adriano Piccardi
"Racconti di giovani amori" di Alberto Scandola
"Un certo giorno" di Piero Spila
"I recuperanti" di Mirco Melanco
"Durante l'estate" di Morando Morandini
"La circostanza" di Tullio Masoni
"L'albero degli zoccoli" di Sandro Bernardi
"L'albero degli zoccoli" di Peppino Ortoleva
"Camminacammina" di Nuccio Lodato
"Ragazzo della Bovisa" (romanzo) di Luca Mazzei
"Lunga vita alla Signora!" di Bruno Di Marino
"La leggenda del santo bevitore" di Paolo Spaziani
"Lungo il fiume" di Tullio Masoni
"Il segreto del bosco vecchio" di Fabrizio Natalini
"Genesi - La creazione e il diluvio" di Fabio Francione
"Il mestiere delle armi" di Antonio Costa
"Il mestiere delle armi" di Alberto Scandola
La televisione
Olmi e la religione in tv di Marco Vanelli
Alle radici del nostro presente. La storia nei film per la Rai di Olmi di
Pasquale Iaccio
"Apocalypsis cum figuris" di Paolo Spaziani
La Milano televisiva di Olmi di Lorenzo Pellizzari
"Artigiani veneti" di Vincenzo Borlizzi
"Mille anni" di Luca Mazzei
Testimonianze
Intervista a Lamberto Caimi e Roberto Seveso di Luca Mosso
Intervista a Olmi e Loredana Detto di Tatti Sanguineti
Intervista a Sandro Panseri di Lorenzo Pellizzari
Intervista ad Anna Canzi di Alberto Pezzotta
Intervista a Olmi e Mario Rigoni Stern di Mirco Melanco
Intervista a Renato Paracchi di Alberto Pezzotta
Testimonianza di Corrado Stajano
Intervista a Mario Brenta di Marco Bertozzi
Intervista a Roberto Cicutto di Adriano Aprà
Intervista a Fabio Olmi di Luca Mosso
Bibliografia a cura di Laura Buffoni e Stefania Carpiceci
Filmografia a cura di Laura Buffoni e Stefania Carpiceci
TATTI SANGUINETI
SU “IL POSTO” E IPOTESI CINEMA
Intervista con Ermanno Olmi e Loredana Detto
Su “Il posto”
Ermanno Olmi: Il posto non lo rivedo da almeno 15 anni. Ero con mia moglie
in una camera d'albergo: in televisione, dopo il telegiornale, quando hanno
annunciato il film siamo rimasti un po' a vederlo, molto curiosi e anche un
po' nostalgici… Ma dopo poco ci siamo addormentati… anche perché sapevamo
entrambi come andava a finire.
Come hai incontrato tua moglie?
Ho mandato dei fotografi in giro per Milano a fare delle fotografie
all'uscita delle scuole, o nei negozi dove c'erano delle giovani commesse al
primo impiego. Volevo molte facce, di ragazze e di ragazzi, per poter già
fare una selezione di fotografie, e poi contattare i più interessanti per
dei provini. Fra queste c'era una foto di Loredana, e ho sentito subito in
lei le basi possibili per creare un personaggio giusto.
Come si è svolto il provino?
La prima volta non si è mossa, è restata immobile tanta era l'emozione.
Povera piccina, era terrorizzata, un blocco di marmo. Ma se il nostro occhio
è soggettivo, la macchina ha un occhio tecnologico che si chiama
"obiettivo". Dopo, guardando il girato, ho capito che malgrado la sua
immobilità, negli occhi traspariva tutto ciò che in quel momento cercava di
fare, e in fondo è lo sguardo a rivelare i sentimenti della gente. Poi il
film è andato a Venezia, ma non c'era alcun rapporto sentimentale fra di
noi. Tutto è successo un anno dopo, quando è venuta in lacrime a vedermi
perché non voleva andare a Roma per fare la carriera del cinema.
Hai fatto insomma un matrimonio "riparatore"…
Ecco, ma non c'è niente di peggio di un uomo che si mette a proteggere una
ragazza… È la fine.
Come mai non ha fatto più niente dopo?
È lei che non ha più voluto far niente. L'ho portata una volta a Roma perché
Pietrangeli mi aveva telefonato non so più quante volte per farle un provino
per Io la conoscevo bene. Dopo il provino Pietrangeli era entusiasta, e
insisteva con me perché la convincessi. Ho detto a Loredana: “Guarda, è una
brava persona, un tipo per bene, gentile…”, e lei era d'accordo. Ma appena
salita in auto mi ha detto che non sarebbe tornata a fare il film. Ho capito
quindi che per lei era un vero problema, non un capriccio. Non ha più voluto
fare del cinema. Devo dire che la cosa mi ha incuriosito. È stato uno dei
motivi iniziali che mi ha fatto spostare l'attenzione dall'attrice
improvvisata alla persona. E ho capito che per questa ragazza, del resto
molto carina, le cose importanti erano altre.
Nel film il suo personaggio appare più maturo, più responsabile, più
assennato. È molto più donna di quanto lui non sia uomo: è uno degli
elementi chiave del film, lo squilibrio nella coppia.
Il personaggio in sé aveva le proprie connotazioni, ma questa particolarità
esce fuori così perché Loredana era fatta così. “Non ho mai fatto l'attrice,
ho fatto solo ciò che avrei fatto se avessi vissuto quelle cose”. Si capisce
così anche il valore antropologico importante del personaggio, che riflette
proprio il tipo di ragazza di quegli anni. Ha quindi messo nel personaggio
la maturità, la consistenza e la coscienza delle persone della sua età, alle
quali il personaggio corrisponde. Io stesso quando giravo mi ricordavo del
provino e mi dicevo: “Mio Dio, quella non si muove!”. Poi rivedevo il
girato, e solo allora mi rendevo conto che Loredana si muoveva dentro. In
definitiva sono quelli che non sono attori gli interpreti che si implicano,
che guidano il personaggio. Per meglio dire: io li guido e loro lo rivelano.
Meno intervieni, più esce fuori la verità interiore della persona che
incarna il personaggio.
Il film sembra molto cattivo, meno cristiano per così dire di altri tuoi. Ho
l'impressione che sia molto più duro.
Probabilmente è perché quando a 15 anni mi sono messo a lavorare, ho passato
anch'io un po' tutte le stesse tappe del protagonista, gli esami
psicotecnici ecc. E probabilmente non sopportavo l'idea di restare impiegato
tutta la vita, quel mondo di impiegati mi sembrava quello dei polli
d'allevamento.
Non c'è compassione, indulgenza, misericordia.
Forse perché questi personaggi tendono a rinunciare, perché si vendono in
cambio di un posto fisso, e si servono del rispetto dei ruoli per
deresponsabilizzarsi.
È anche la critica che faceva la sinistra. Paolo Gobetti disse per esempio
che il neocapitalismo è così più a causa della sottomissione dei servi che
per volontà del padronato.
Ma è chiaro che la generazione dei servi del padronato non è nata
all'improvviso, solo perché i cromosomi hanno determinato una generazione di
soggetti sottomessi. Non bisogna dimenticare che la classe dei sottomessi
era ancora quella dei rurali, dei lavoratori a giornata, o anche quella dei
contadini per i quali, se il raccolto un anno andava male, era la fame, la
miseria, bisognava stringere la cinta. Per questa classe il mondo
dell'industria, dunque del padronato, ha rappresentato una garanzia di
sopravvivenza. Hanno scambiato una vita da disperati contro una vita di
rinunce, e l'hanno poi presa per una condizione di progresso.
Dove si trova lo stabile in cui è stato girato il film?
A Milano. Era uno degli uffici della Edison dislocati in città, che mi
avevano presatato senza sapere, ahimé, ciò che ne avrei fatto. La cosa
interessante è che dopo Venezia, il rumore che il film ha suscitato, e
articoli come quello di Gobetti per esempio, hanno messo la pulce
all'orecchio dei dirigenti. Pur avendo prodotto da me il film, ero
conosciuto come il documentarista della Edison. Ho fatto un film sugli
impiegati essendo io stesso impiegato della Edison. La reazione della Edison
non poteva non essere immediata. Dopo Venezia, i dirigenti, il presidente,
l'amministratore delegato hanno voluto vedere il film in una saletta
privata. Uno dei dirigenti che mi aveva sempre sostenuto e che ancora mi
sosteneva aveva detto: “Stavolta Olmi ci ha preso la mano”. Era un modo per
dire che avevo superato i limiti. Sono andati dunque in proiezione, i più
importanti in prima fila, gli altri dietro. Sembrava la gerarchia
dell'ufficio. A un certo momento c'è nel film, durante gli esami, un uomo
che non riesce a risolvere un problema, che si confonde. Quello con la fede
al dito. Il che significa che oltre al problema del lavoro ha il problema
della famiglia. Durante la scena, uno dei dirigenti dietro si mette a
ridere. Il capo della Edison allora si è girato e gli ha detto: “Non c'è
niente da ridere”, e lo ha gelato. E alla fine della proiezione ha detto: “È
un capolavoro”. Questo dirigente era l'ingegner De Biasi, che faceva tremare
le gambe di tutti i suoi impiegati. Voglio dire con ciò che quella classe
dirigente non aveva paura di vedersi rappresentata, uno come Adriano
Olivetti era una persona straordinaria. Oggi c'è una decadenza della classe
dirigente, del mondo imprenditoriale, di tipo morale, civile, culturale.
Chi erano gli interpreti degli altri personaggi? La signora della mensa, il
capo che rimprovera tutti gli impiegati, l'usciere che assiste il ragazzo
all'inizio, la vecchia impiegata che gira la tazzina del caffè, quando serve
il caffè orienta il manico della tazza verso di lui…
…e di conseguenza lui non ha bisogno di guardare. Il ragazzo non guarda mai
nessuno negli occhi. Mi sono reso conto di questo quando mi sono impiegato a
15 anni. C'era un ingegnere, un capoufficio, che non ha neppure alzato gli
occhi su di me. Sono andato davanti all'ufficio e mi ha detto: “Lei è stato
destinato al nostro ufficio ma in questo momento non c'è un posto da
impiegato. Se vuole cominciare subito deve adattarsi a fare il fattorino”.
Che potevo rispondere? E quello: “Ripeto, faccia del suo meglio, vada!”.
Quanto alla signora, era un'attrice della filodrammatica, quindi non proprio
una professionista, che avevo visto in uno spettacolo e che mi aveva
colpito. Il capo è un qualsiasi impiegato, uno che aveva quell'aria da
lumacone… Era così quel mondo, sembravano tutti scolaretti, quando vedevano
passare un dirigente rinculavano subito nei corridoi… L'usciere era un
impiegato della Gaggia, quella delle macchine da caffè.
Parliamo un po' del ragazzo, che sembra un misto di Franco Interlenghi,
Gianni Rivera e Kafka. Magro, occhi quasi bianchi, spalle strette, e che
sogna di comprarsi un impermeabile coi bottoni, come quelli che piacciono
alla ragazza delle foto…
La sua è un'iniziazione: viene da un mondo contadino, vive ancora a Meda, in
campagna, nella cascina del padre, benché sia già operaio. Davanti alla
casa, dove qualche anno prima c'erano le stalle, cominciano ad arrivare i
motorini e le Fiat 600. Questo ragazzo che viene da Meda e ha ancora addosso
l'odore della stalla va a lavorare a Milano. Arriva nella grande città, la
città della metropolitana, e vede una bella ragazza milanese… e
l'iniziazione comincia.
Chi era l'interprete?
Un quindicenne di Treviglio, dove andavo quando ero bambino. Si trovava a
Milano per seguire dei corsi di formazione professionale. Ha saputo dei
provini e ha partecipato. Mi ha colpito quando gli ho chiesto da dove
veniva, perché avevo notato una cadenza familiare; ha detto Treviglio e la
mia affezione per quel luogo ha influenzato la mia scelta. Comunque era
proprio lui che cercavo. Era proprio l'imbranato che ero io a 15 anni,
quando sono stato catapultato all'improvviso in un mondo più grande di me.
Per noi che appartenevamo al mondo operaio-contadino, l'impiegato possedeva
già un livello di considerazione superiore: andava a lavorare senza
sporcarsi le mani, era il cosiddetto colletto bianco.
Nel film si vedono i lavori della metropolitana a San Babila e si ha
l'impressione di un tempo che non sarà più come prima.
Non era il seplice maquillage di una città, ma un cambiamento delle viscere,
una mutazione epocale. Ti colpisce perché vedi la Milano di allora, le
persone di allora che si preparano alla grande avventura del neocapitalismo.
Il titolo del film allude alla città ma anche al posto di lavoro e
all'ufficio. Ci sono tre posti: il posto di lavoro che i genitori vogliono
dare al figlio per la vita; il luogo intenso della città; e il luogo fisico,
la sedia dove appoggiare le natiche per quarant'anni…
Ripenso in proposito all'episodio in cui viene svuotato l'ufficio
dell'impiegato morto. È quello che scrive dei romanzi di notte per così
dire, il solo ad avere un barlume di libertà espresso attraverso quelle
pagine scritte di nascosto. I fogli, nascosti in un cassetto, finiscono fra
le altre carte dell'impiegato morto. Uno dei colleghi va dal capoufficio per
chiedere spiegazioni, perché non capiscono e si chiedono: “Sarà un
romanzo?”. Insomma, ne fanno un pacchetto e lo mettono in cima a un armadio.
Il protagonista assiste a questa sepoltura, resta in piedi e capisce che fra
la sua posizione e il primo tavolo della fila c'è tutta la sua vita. Si
siede e dà un ultimo sguardo, poi piega la lampada ma d'un tratto rialza di
nuovo lo sguardo. Mi sono aggrappato a questo sguardo come per dire:
“Ricordati sempre di guardare su, sopra a quella lampada che illumina solo
verso il basso”. Il resto poi dipenderà da lui…
C'è una scena che hai tagliato…
Il film finiva col ragazzo che usciva e vedeva delle modelle che posavano,
cioè la città si proponeva come sogno. L'ho tagliata perché non era giusto
far uscire il ragazzo da quella stanza.
Quale è stata la scena più difficile da girare?
Nessuna, perché erano tutte, come dire, consapevolmente inconsapevoli.
E per lei, Loredana Detto, come è andato il provino?
Loredana Detto: All'inizio è stata una cosa disastrosa. Non so come Ermanno
abbia potuto avere fiducia in me. Ero completamente in tilt, impappinata,
non sapevo parlare… Un disastro, veramente.
Desiderava avere la parte?
Non ci credevo, pensavo che fosse tutta una cosa finta, organizzata da quel
tipo di persone che poi ti fanno pagare, un imbroglio insomma. Ero andata
così, per curiosità… Quando mi hanno detto che avrei fatto il film ci
credevo e non ci credevo. Il primo giorno volevo scappare via. Mi ero fatta
tutta carina dal parrucchiere, e loro mi hanno messo la testa sotto un
rubinetto e mi hanno sciolto tutti i ricci. Tornata a casa ho detto alla
mamma: “Io non ci vado più”. “Ma come? Abbiamo firmato”. “Io non torno. Sono
tutti matti”. Il giorno dopo mi ha dovuto accompagnare, e così mi ha
rincuorato. Durante le riprese Ermanno era molto autoritario, era ascoltato
da tutti, quando passava lui - “Arriva, arriva…” - tutti a posto! Era un
capo, anche se gli altri erano più grandi di lui.
Delle riprese ho un bel ricordo, una cosa gioiosa, tutte quelle persone che
mi stavano vicino, Attilio Torricelli e gli altri, ero proprio la ragazzina
che veniva coccolata, tutto molto semplice e molto bello. Ma dopo non ho più
avuto voglia. Non sono andata al festival di Venezia, solo in qualche grande
città dove la Titanus aveva organizzato delle prime. Il provino con
Pietrangeli me l'ha imposto Ermanno, e io non ho avuto il coraggio di dire
subito di no. Ma appena finito gli ho detto: “Guarda che io a Roma non ci
vengo”. Sentivo che non era la mia strada, questo lo sentivo proprio bene.
Il cinema mi ha fatto sempre l'impressione di una gabbia di matti. Anche
ora.
Su Ipotesi Cinema
Ermanno Olmi: Ci sono varie ragioni che spiegano la decisione di trasferire
Ipotesi Cinema presso la Cineteca Comunale di Bologna, una decisione che
oltretutto ha provocato lo spostamento di pesi fisici non indifferenti,
cataste di nastri registrati, moviole… Intanto il mio rapporto come Ipotesi
Cinema con il mondo istituzionale veneto, comune ecc., si è col tempo
esaurito, in quanto l'assetto politico è cambiato. Ai nuovi non glie ne
importa proprio niente di Ipotesi Cinema. Allora, se dobbiamo essere degli
ospiti sopportati, o si chiude o si va da un'altra parte. Fra le cose che
sono cambiate c'è anche la ricchezza improvvisa del Veneto. Ti faccio un
esempio. Quando ci hanno ospitato a Bassano del Grappa, il sindaco Bonomo,
che era anche della Biennale nonché funzionario della terza rete Rai a
Venezia, voleva smuovere l'apatia che c'era in città. C'era una grande
struttura vuota, nuova, una casa per anziani con circa 500 posti letto,
cucine ecc., perfettamente allestita. I veneti di 21 anni fa non mandavano i
vecchi all'ospizio. Nel giro di 20 anni adesso non c'è più un posto libero.
Vuol dire che quando i veneti erano dei poveri contadini o dei piccoli
artigiani i vecchi se li tenevano a casa. Appena son diventati ricchi li
hanno sistemati subito all'ospizio. Hanno costruito le nuove case senza
prevedere assolutamente questa convivenza, secondo un antico modello di vita
dove il vecchio era il depositario dell'esperienza. Passando dalle realtà
rurali a quelle artigianali e poi all'industria, la sapienza del vecchio non
serviva più a nessuno. Riempiendo l'ospizio noi non abbiamo più avuto lo
spazio e quindi ci siamo dovuti trasferire. Prima però siamo andati a Padova
per 3-4 anni, in una struttura che ci ha messo a disposizione un vero
mecenate. Prima della Cineteca, avevamo comunque avuto un'altra proposta
ancora, che ci veniva da un'altra area veneta, dove la ricchezza smisurata
fa sì che il potentato si esprima anche in attività culturali. Ma la
delusione del Veneto nel suo complesso mi ha fatto subito propendere per la
Cineteca. La differenza con un mecenate pur illuminato è che saremmo stati
sempre in balìa dei suoi eventuali capricci. Io ho invece sempre cercato una
complicità con le istituzioni, che hanno il dovere di accogliere proposte
che abbiano a che fare con la cultura, con la socialità. Per il mecenate una
volta era il piacere il motivo, oggi è un'opportunità di immagine.
Nella prima fase di Ipotesi Cinema la sollecitazione è venuta dai ragazzi
che volevano fare gli assistenti, ed erano un numero considerevole. Per non
deludere tutte queste richieste, alcune anche molto appassionate, ho avviato
questo luogo di incontro che è Ipotesi Cinema, dove coloro che sono
interessati a confrontarsi con il cinema possono trovare un'occasione per
farlo.
Quando è subentrata la malattia, dopo che per sei mesi sono rimasto in
carrozzella e dopo circa un anno ho ripreso un po' a muovermi, i ragazzi di
Ipotesi Cinema sono venuti a scovarmi a casa mia e mi hanno preso di peso,
letteralmente, per finire un documentario che avevo cominciato quando ero
sano, Artigiani veneti. Di fronte a cose di questo genere non puoi tirarti
indietro, l'emozione che provi di fronte a un attaccamento così ti dà la
gioia per andare avanti; non lo spirito di sacrificio, se no fai l'eroe, e
non è nel mio temperamento. Per chi si ammala, il desiderio di chiudere
definitivamente viene quando non c'è nessuno che ha bisogno di te. Da qui è
partita la seconda ondata di Ipotesi Cinema, dopodiché sono mutate le
condizioni politiche. Eravamo rimasti una dozzina. L'estate scorsa sono
arrivati in delegazione e hanno detto: “Dobbiamo andare avanti”.
La nostra è una scuola anomala, tanto è vero che non voglio che si chiami
scuola. Non prepariamo dei professionisti da inserire nell'industria del
cinema. Questo lo si fa semmai come corollario all'esperienza principale,
che è quella di creare i presupposti morali per essere dei comunicatori.
Devo capire se la mia osservazione della realtà viene poi tradotta in una
comunicazione interessante di tale realtà, se riesco davvero a diventare un
interprete che aiuta l' interlocutore a capire meglio la realtà che ho
osservato. Se no vengo meno a quelle che dovrebbero essere le mie
prerogative fondamentali, perché nel momento in cui divento un comunicatore
ho il dovere di essere leale col mio interlocutore. Il concetto di
professionalità rischia di confondere le idee. Il comunicatore ha una
responsabilità talmente alta da non poter rinunciare a tutti quegli
interrogativi morali che deve porsi.
Per quanto riguarda la Postazione per la memoria, ci tendo alla differenza
fra "della" e "per la". "Della" vuol dire che vado a ricercare dei reperti
del passato da recuperare oggi; "per la" vuol dire che ciascuno di noi come
individuo, singolo, unico, esclusivo osservatore della realtà, dice a se
stesso: “Ecco, oggi questa cosa io la devo mandare a memoria perché è
importante”. Se oggi registro con la telecamera un frammento di realtà è
perché è importante. Questo significa rendere il cittadino, non importa se
cineasta o meno, consapevole di una gerarchia di valori che il presente ha,
che deve avere, perché lo si è capito e non perché qualcuno ce li ha
imposti.
La nostra scuola si basa sul furto: ognuno deve rubare alla realtà ciò che
ritiene utile alla propria comunicazione. Io sono a Ipotesi Cinema perché
voglio rubare la freschezza dello sguardo dei ragazzi.
(Bologna, aprile 2002; parte di questa intervista è stata pubblicata in
francese nel dépliant che accompagnava la proiezione a Cannes della copia de
Il posto restaurata dalla Cineteca del Comune di Bologna)
PREMI
PREMIO KODAK
Una giuria di esperti premierà il miglior cortometraggio italiano di
fiction, non fiction, documentario o animazione. Il premio, in
collaborazione con Kodak, consiste in 1.200 metri di pellicola negativa
Kokak 16mm.
PREMIO CINEMAVVENIRE
Una giuria di Cinemavvenire premierà il miglior documentario della sezione
60 + o -
PREMIO DEL PUBBLICO
Il pubblico di Pesaro premierà il miglior film della sezione Cinema in
Piazza
39a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema/Pesaro Film Festival
Online all’indirizzo: www.pesarofilmfest.it
Sul sito del festival sarà possibile consultare il catalogo on-line, foto
della manifestazione e una sezione news aggiornata in tempo reale.
Durante il periodo della Mostra (21-29 giugno) inoltre, sarà attivata una
sezione con video, interviste e testimonianze riprese durante il festival e
offerta in streaming agli utenti grazie all’apporto di “streamingland-il
video nella rete”..
Il festival vuole inoltre ricordare la collaborazione con riviste e
quotidiani specializzati di settore: CIAK, FILMTV, KW CINEMA, TAM TAM
CINEMA, CINEUROPA.
FONDAZIONE
PESARO NUOVO CINEMA Onlus
Soci fondatori
Comune di Pesaro
Oriano Giovanelli, Sindaco
Provincia di Pesaro e Urbino
Palmiro Ucchielli, Presidente
Regione Marche
Vito D’Ambrosio, Presidente
Fiorangelo Pucci, Delegato
Consiglio di Amministrazione
Oriano Giovanelli, Presidente
Luca Bartolucci, Gianaldo Collina, Alessandro Fattori, Simonetta Marfoglia,
Franco Marini, Ornella Pucci, Paolo Sorcinelli, Aldo Tenedini
Segretario generale
Massimo Barilari
Amministrazione
Lorella Megani
Coordinamento
Viviana Zampa
39a MOSTRA INTERNAZIONALE DEL NUOVO CINEMA
Comitato Scientifico
Bruno Torri, Presidente
Adriano Aprà
Pierpaolo Loffreda
Lino Miccichè
Giovanni Spagnoletti
Vito Zagarrio
Direzione artistica
Giovanni Spagnoletti
Organizzazione generale
Pedro Armocida
Assistente alla programmazione
Natasha Senjanovic
Ufficio Documentazione e Catalogo
Alessandro Borri
Segreteria
Maria Grazia Chimenz
Movimento copie
Anthony Ettorre
Accrediti e ospitalità
Alessandra Scotti
con la collaborazione di
Marina Oddo
Ufficio stampa
Studio Morabito
Mimmo Morabito (responsabile)
Rosa Ardia (assistente)
con la collaborazione di
Giulia Conte, Mara Sartore
Stampa regionale
Beatrice Terenzi
Corrispondente in Francia, collaborazione alla sezione “Cinema francese”
Francesca Leonardi
Corrispondente in Germania
Olaf Möller
Sito internet
Claudio Gnessi
Realizzazione immagini su internet
Barbara Faonio
Luca Franco
Silvia Lazzarini
Stagisti
Laura Fabbri, Azzurra Proietti
Traduzioni schede
dal francese Laura Palandrani
dall’inglese Alessandro Borri, Sandra Grieco, Laura Palandrani
dallo spagnolo Pedro Armocida
Collaborazione alla sezione “Cinema d’avanguardia francese contemporaneo”
Stefano Masi
Collaborazione alla sezione “Personale John Sayles”
Roberto Pisoni
Collaborazione alla sezione “Personale José Luis Guerín”
Pedro Armocida
Collaborazione alla sezione “Personale Zbigniew Rybczynski”
Bruno di Marino
Selezione “Proposte Video”
Andrea Di Mario
Giuria concorso video “L’attimo fuggente”
Giuliana Gamba, Presidente
Franco Bertini, Gualtiero De Santi, Alberto Pancrazi, Enzo Polverigiani,
Fiorangelo Pucci
Video della sezione “L’attimo fuggente”
in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Macerata
Corso di Teorie e tecniche della Comunicazione Visiva Multimediale,
coordinatore Massimo Puliani
Cattedra di Cinematografia digitale e Produzione arte mediale,
Pierpaolo Loffreda
Coordinamento conferenze stampa e concorso video
Pierpaolo Loffreda
Traduzioni simultanee
Gigliola Viglietti, Anna Ribotta, Simonetta Santoro, Marina Spagnuolo
Progetto di comunicazione
la COLONIA della comunicazione
Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo"
Marco Livi, direzione creativa
Gianni Cinti, Alessandro Paganelli, Fabio Serrago, concept & graphic design
Coordinamento proiezioni
Gilberto Moretti
Consulenza assicurativa
I.I.M. di Fabrizio Volpe, Roma
Trasporti
Stelci e Tavani, Roma
Ospitalità
A.P.A., Pesaro
Sottotitoli elettronici
Napis, Roma
Allestimento “Cinema in piazza” e impianti tecnici
L’image s.r.l., Padova
Pubblicità
Dario Mezzolani
Viaggi
Viaggi Ratti by Holidays s.r.l., Roma
17° EVENTO SPECIALE
Direzione artistica
Adriano Aprà
Organizzazione generale
Pedro Armocida
Quaderno a cura di
Laura Buffoni, Stefania Carpiceci
Il volume Ermanno Olmi. Il cinema, i film, la televisione, la scuola edito
da Marsilio, è a cura di
Adriano Aprà
L’Evento Speciale è stato realizzato da
Fondazione Pesaro Nuovo Cinema Onlus
Fondazione Scuola Nazionale di Cinema – Centro Sperimentale di
Cinematografia / Cineteca Nazionale
Hanno collaborato
Rai Teche
Cineteca Griffith
FONDAZIONE SCUOLA NAZIONALE DI CINEMA – CENTRO SPERIMENTALE DI
CINEMATOGRAFIA
CINETECA NAZIONALE
Francesco Alberoni, Presidente
Angelo Libertini, Direttore Generale
data: 06 - 06 - 03
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