Le ombre della paura

Il cinema italiano del terrore 1960/1980

 

Un documentario di Paolo FAZZINI, MARCO CRUCIANI, DANIELE CASOLINO

a cura di Paolo FAZZINI

LE OMBRE DELLA PAURA
QUESTIONE APERTA PER IL LETTORE

Diamo uno sguardo al passato e uno al presente: Il sesto senso, THE Blair Witch Project, The others, Scream 1-2 e 3, The ring, The Eye, ma anche i vari SpiderMan, Daredevil, X-Men 1 e 2, non sono altro che pellicole di genere (alcune più puramente horror, altre appartenenti a quello che, con tutte le ampiezze del termine, viene definito fantastico) che sono risultati i maggiori incassi degli ultimi anni fino alla stagione presente. Non hanno incontrato soltanto il favore del pubblico ma hanno sollevato veri e propri dibattiti critici oltre che stilistici. I titoli sopracitati (e sono soltanto i primi che saltano alla memoria) hanno un’altra caratteristica che li accomuna: tutti sono prodotti provenienti dall’estero e, per essere pignoli e anche un po’ nazionalisti ( e di questi tempi è un atteggiamento degno di un pirata temerario) molti plagiano o ‘citano’ (per usare un termine caro ai critici) molti elementi e situazioni che si erano viste già in pellicole italiane firmate dai vari Bava, Argento, Freda, Margheriti, Martino. Non è il caso, né sono le mie intenzioni, di promuovere qui un tipo di cinema che mi è caro e di far riscoprire e rivalutare le opere di registi quasi tutti ormai scomparsi; ciò è già stato ampiamente approfondito da riviste specializzate e saggi più o meno attraenti. Quello che vorrei far notare è molto più semplice e apparentemente più veniale: perché continuiamo a importare pellicole di questo genere (che incassano milioni e milioni) mentre in Italia non se ne producono più? I registi e i critici che ho incontrato durante le riprese di Le ombre della paura – Il cinema italiano del terrore 1960/1980, il documentario che ho diretto insieme a Marco Cruciani, mi rispondevano “Perché sono cambiati i tempi! L’horror non funziona più?” (ma, bollettini alla mano, non sembra che sia così!) oppure “Perché in Italia non esistono più i veri produttori, quelli che si chiamavano Cristaldi, Rizzoli, Amati. Oggi si mette tutto in mano alle distribuzioni e alle televisioni!” (e questo è verissimo, la sudditanza che il nostro cinema vive nei confronti della tv è ormai cosa nota) o ancora “Perché i film horror e thriller costano troppo! In Italia non ci sono i soldi per farli, così li importiamo dall’estero: il produttore non rischia niente e i distributori dormono sonni tranquilli!” (ma allora come spiegare successi di THE Blair Witch Project, Il sesto senso o The ring nei quali gli effetti speciali non ricoprono che un minimo ruolo?). Arrivati fin qui, questo piccolo articolo dovrebbe concludersi tirando le somme delle cose dette, ma per ora mi piacerebbe mantenere la suspense, non fosse altro perché non saprei come terminare, e quale appagante finale proporre al lettore. La questione delle attuali produzioni dei film di genere in Italia (praticamente quasi inesistenti) è, secondo me, ancora molto stimolante e aperta, soprattutto se si guarda anche alle pellicole che continuiamo ad importare (dagli Usa, dalla Cina, dal Giappone, o da qualsiasi altro paese). Proporrei anche di andare a guardare la natura e i film dei registi nostrani: c’è qualcuno che ancora si confronta con i generi cinematografici oppure lo evita perché non fa ‘autore’? Ma soprattutto, c’è ancora qualcuno che riesce a scrivere e mettere in scena una sceneggiatura ricca di trovate, di suspense, avvincente? E quest’ultimo interrogativo, se mi permettete, non lo ridurrei soltanto alle pellicole di genere, ma lo amplierei a tutti i prodotti nati dai registi che popolano l’italico suolo.
 

APPUNTI DI VIAGGIO

Ho da poco ricevuto la notizia (04/06/2003, n.d.r.) che il mio documentario Le ombre della paura- Il cinema italiano del terrore 1960/1980 sarà presentato al Festival di Bellaria di imminente apertura (5-8 giugno 2003). La cosa continua a rendermi felice. Dico ‘continua’ perché la sorte di questo lavoro può ritenersi fortunata: dopo essere passato, lo scorso anno, al Premio Libero Bizzarri, al ToHorror Film festival (nel quale ha ricevuto una menzione speciale della giuria), al Festival di Torino nella sezione Sopralluoghi Italiani, ed essere stato proiettato in numerose manifestazioni e cineclub (dal Detour di Roma, al Link di Bologna, dal Festival del cinema indipendente di Sant’Agapito fino all’Università di Roma Tre), questo lavoro sembra continuare ad avere un vita abbastanza attiva. Parlare dei miei lavori mi risulta abbastanza difficile e imbarazzante (oltrechè invadente nei confronti del lettore) e mi piacerebbe riuscire, seppur velocemente, ricordare alcune situazioni che Le ombre della paura mi ha fatto vivere. Le riprese del documentario si sono svolte e protratte per tutto il 2001, mentre alcuni mesi hanno richiesto il montaggio e la postproduzione delle oltre 15 ore di materiale raccolto, grazie anche alla collaborazione di Marco Cruciani (coregista del film) e di Daniele Casolino, tutt’ora il produttore e montatore principale dei diversi progetti intrapresi. Per circa un anno abbiamo importunato, interrogato, contattato una ventina di ‘addetti ai lavori’ e con la loro preziosa disponibilità siamo riusciti (speriamo) a ricostruire la storia del genere thriller e horror italiano ed a raccogliere prezioso materiale da consegnare, non soltanto agli appassionati, ma a chiunque volesse capire di più su questo tipo di pellicole e produzioni. Quindi come dimenticare il carissimo Antonio Tentori, illuminato compagno divertito e divertente di trasferte e pasti più o meno lauti, durante i quali l'ho interrogato sulla natura e le caratteristiche a me sempre sfuggenti del cinema hard. Oppure Antonio Bido, il regista di Il gatto dagli occhi di Giada e Solamente nero, che mi sorprese proiettandomi in super 8 i primi lavori girati in giovane età e che rivelavano una personalità tutt’altro che limitata al genere cinematografico che più gli era proprio. Surreale fu anche una tavola rotonda alla quale partecipai durante il Festival di Sant’Agapito: vi erano seduti anche Marco Cruciani, Antonio Tentori, Antonio Margheriti (aka Anthony Dawson) e Alberto Grifi. Fu davvero curioso sentire Grifi, uno degli autori indipendenti più estremi, irriducibili, sperimentali che l’Italia abbia mai avuto, esclamare: “Aaah, ecco Margheriti! Che piacere…! Voglio proprio vedere che volto ha!” dimostrando così una perfetta conoscenza del lavoro che Margheriti aveva svolto durante i suoi cinquant’anni di carriera. Margheriti purtroppo è scomparso lo scorso novembre, proprio alla vigilia dell’apertura del Festival di Torino, al quale era stato invitato per presenziare alla presentazione di Le ombre della paura. Estremamente piacevole è stata anche l’esperienza torinese. Gli incontri con Gianfranco Barberi (della sezione Sopralluoghi), Stefano Della Casa (direttore del festival e da sempre appassionato al genere italiano), ma anche con Bressane, al quale Torino ha dedicato una retrospettiva, hanno rivelato non soltanto una curiosità nei confronti dei registi che hanno reso popolare la paura italiana nel mondo, ma anche un occhio molto attento verso quello che si può ancora imparare dal guardare determinati film. Racconto tutto ciò non per compilare un nostalgico e personale quadernetto di viaggio, ma per fermare l’attenzione su chi e perché ancora non vuole porsi barriere nei confronti del cinema di genere; professionisti che potrebbero, molto meglio di me, far capire cosa e come certi registi hanno lasciato in eredità al nostro cinema, e illustrare le invenzioni narrative che ancor oggi vengono saccheggiate (basta guardare ad Hollywood, che da anni detiene tutti i diritti dei film di Mario Bava, pronti a diventare costosi remake). Improbabile e fuori luogo è lo sperare una rinascita del cinema di genere in Italia; inevitabilmente, però, mi chiedo se è possibile ancora parlare del cinema fantastico italiano senza quel sapore di amara nostalgia che rimane in bocca, e se qualcosa invece può ancora accadere.

 

Ombre e suspence

di Mauro BUONOCORE

Quando si parla di cinema italiano del secondo dopoguerra i nomi che vengono all’attenzione di studiosi, critici, studenti e appassionati sono per lo più quelli dei grandi autori che hanno portato la cinematografia nostrana ad essere nota in tutto il mondo. De Sica, Rossellini, Zavattini rappresentano la tradizione di quel modo di raccontare la vita che ha preso il nome di Neoralismo; Visconti, Antonioni, Pasolini, Bertolucci sono riconosciuti dal pubblico e la critica internazionale come esponenti di sensibilità capaci di innovare il linguaggio dell’arte cinematografica grazie all'intuizione poetica; Monicelli e Scola hanno saputo dare anima alla commedia all’italiana mettendo sul grande schermo vizi e virtù di un popolo visto attraverso la lente del sarcasmo, dell’ironia, della risata sferzante e a volte amara. I decenni che dalla seconda guerra mondiale hanno portato fino alla fine del secolo scorso sono stati anche gli anni dei film “di genere”, produzioni che nascevano per intrattenere, considerate da tutti - dai produttori al pubblico alla critica - opere di seconda serie perché realizzate spesso in poco tempo, costruite su storie stereotipate che altro intento non avevano se non quello di far trascorrere agli spettatori un’ora e mezza di puro divertimento.
Tra i generi di questi film, un’attenzione a parte merita l’horror. La paura è il suo elemento caratterizzante, la suspence lo strumento immancabile in grado di avvincere coloro che riempivano le sale dei cinema.
La paura, dal profondo dell’animo di ciascun essere essere umano si proiettava sullo schermo grazie alle opere di registi e sceneggiatori in grado di costruire, tra trama, colonna sonora e fotografia, una macchina narrativa capace di tenere gli spettatori col fiato sospeso.
Le ombre della paura è un documentario che, in novanta minuti, ripercorre due decenni fondamentali della storia italiana di questo genere cinematografico. Gli autori - Paolo Fazzini, Marco Cruciani e Daniele Casolino - hanno intervistato i protagonisti che, tra il 1960 e il 1980, hanno saputo impaurire il pubblico nel buio delle sale dei cinema italiani.

 

 

Registi (da Pupi Avati a Antonio Margheriti, da Aldo Lado a Antonio Bido), sceneggiatori (come Dardano Sacchetti), critici (Antonio Tentori, Antonella Fulci, Gabriele Barrera) ed effettisti (come Giannetto De Rossi) compaiono a raccontare una realtà che spesso la critica ha messo in disparte, rendendo questi film vittime di un ostracismo che per molti versi non hanno meritato e non meritano.
Se in Italia, infatti, solo in tempi recenti i nomi di Mario Bava, Riccardo Freda e Lucio Fulci hanno iniziato a comparire tra gli argomenti di studio nelle cattedre di storia del cinema italiano, all’estero questi stessi autori godono di un’ammirazione vastissima (vedi articoli collegati). Ma in Italia le cose stanno in maniera diversa se Lamberto Bava, figlio di Mario, racconta nell’intervista del documentario che una giornalista una volta gli chiese: “Ma lei, da grande, che film vuole fare?”.
L’opinione comune ritiene che non sono film per persone adulte quelli che raccontano di vampiri e di streghe, di assassini e di misteri. Certo sono film nati tra molte ristrettezze economiche, girati in pochissimi giorni costringendo operatori e tecnici a mirabolanti peripezie, come racconta Antonio Margheriti, notissimo all’estero con lo pseudonimo di Anthony Dawson.
Eppure molti di questi film non sono affatto opere rozze, ma al contrario sono testimoni di un raro gusto cinematografico e un’abilità tecnica esaltata dalle angustie produttive.
Ma ancora un altro merito ha avuto l’horror italiano, e Le ombre della paura non manca di raccontarlo. In venti anni la percezione della paura è cambiata negli italiani. Così come la società ha cambiato pelle, passando da realtà strettamente legate alle tradizioni rurali ai ritmi di vita della civiltà industrializzata, così la paura ha mutato il modo di manifestarsi, sono cambiate le storie. I racconti che vedevano come protagonisti mitiche figure di streghe impossessate dal demonio, vampiri e spiriti maligni che minacciavano la quiete, hanno lasciato il posto ad orrori tutti metropolitani, a serial killer e a omicidi paranoici.
La realtà cambia e la paura, che della natura umana è forse il sentimento più affascinante e meno controllabile, cambia pelle, trova nuove ombre, ma rimane sempre la stessa.

 

 

Antonio Margheriti, artigiano d’altri tempi

 

Lucio Fulci lo chiamava “l’imperatore delle Filippine” perché lì aveva girato più di dieci film; i critici avevano l’abitudine di soprannominarlo “il Roger Corman italiano”, paragonandolo (con avventata sommarietà) al celebre regista-produttore statunitense. Ma lo pseudonimo che Antonio Margheriti aveva scelto per se’ era Anthony M. Dawson, con il quale ha firmato, durante i suoi quarant’anni di carriera, circa sessanta film, senza considerare i progetti ai quali aveva partecipato come produttore o curatore degli effetti speciali. Abbiamo tentato di cogliere il segreto del successo e della longevità professionale incontrando Margheriti pochi mesi della sua scomparsa, avvenuta lo scorso 4 novembre, durante le riprese del film documentario Le ombre della paura – Il cinema italiano del terrore 1960/1980.
“E’ più importante fare un brutto film al momento giusto che un bel film al momento sbagliato! – ci ha raccontato – io ho fatto molti film nei momenti sbagliati perché facevo la fantascienza quando tutti facevano i western, facevo i western quando gli altri facevano i film sugli antichi romani… ero sempre fuori genere! Questo però si rivelò un vantaggio, poiché quando realizzavo un film non incontravo molta concorrenza e così sono sempre riuscito a vendere all’estero i miei lavori.”
Una dichiarazione dai vaghi toni paradossali, ma che fa bene comprendere come e perché Margheriti sia arrivato a dirigere i suoi film attraversando diversi generi cinematografici e specializzandosi soprattutto nella fantascienza, nell’horror e nell’avventuroso.
Ciò che forse possedeva, a differenza degli altri “artigiani” del nostro cinema, era quel senso imprenditoriale che lo portò a dirigere film anche per grandi case di produzione, come la Fox e la Columbia, senza snaturare il metodo di lavoro che il regista ha sempre mantenuto.
“Giravo il film negli Stati Uniti, ma poi tornavo a Roma e nel prato vicino a casa mia realizzavo, con i miei ragazzi, gli effetti speciali. Dopo una settimana consegnavo il girato e si completava così il film.”
Dai lavori che Margheriti ci ha lasciato risalta la bravura tecnica, la credibile messa in scena che, anche scontrandosi in alcuni casi con sceneggiature e storie approssimative, mantiene un ritmo sempre godibile e divertente. Una capacità che gli permetteva di girare battaglie (finte) di elicotteri (finti) nei dintorni del Ponte di Ferro a Roma e trasformarli, sullo schermo, in estenuanti scontri militari in Vietnam.
“Più il budget è povero più tento di farlo apparire grande. Nei miei film ci sono trucchi, impicci, battaglie, esplosioni… e scoppia questo, e succede quell’altro… insomma, riuscivo a dare una grandezza al film più di quanto le spese sostenute consentivano.”
Il suo cinema è fatto di budget controllati, di mezzi tecnici limitati, di previsioni di riscontri commerciali; ma anche di passione, di ostinazione, di sperimentalismo, quando sperimentare consisteva ancora nell’utilizzare un nuovo zoom per riuscire a realizzare una carrellata altrimenti impossibile.
“Mentre giravo Il pianeta degli uomini spenti, Mario Bava, nel teatro accanto, stava girando La maschera del demonio. Una sera mi prestò uno zoom appena uscito sul mercato e ciò mi permise di girare l’inizio del mio film. Mi piace pensare a me e a Mario (Bava) non come a degli avventurieri del cinema, ma a come dei grandi avventurosi.”
Avendo l’occasione di parlare con lui, eravamo curiosi, tra l’altro, di sapere come vivevano, negli anni ’60, i cosiddetti “artigiani” (cioè coloro che avevano gravitato sempre intorno ad un cinema commerciale) e coloro che invece venivano definiti “autori”, che proprio in quel periodo esordivano realizzando opere memorabili per la storia del nostro cinema; volevamo sapere se c’era uno scambio di opinioni tra questi personaggi così differenti o se, anche fortuitamente, si incontravano in qualche ristorante.
“Può sembrare strano – ha raccontato Margheriti – ma io non conosco molta gente di cinema. Ho sempre lavorato per conto mio curando la produzione, la regia, gli effetti, ed ho sempre lavorato molto. Vidi Accattone di Pasolini per la prima volta al cinema insieme a Tonino Delli Colli, che era alle sue prime esperienze, e mi piacque moltissimo, ma non ho mai avuto la fortuna di incontrare questi grandi registi. Io, così come Mario, eravamo più chiusi in un nostro giro, che poi era quello del cinema commerciale. Ma Dario Argento, ad esempio, non l’ho mai conosciuto personalmente!”

 

 

La quasi imbarazzante modestia e pacatezza di Margheriti assurge a simbolo di un certo cinema italiano, di un periodo in cui fare film significava essere pratici, ingegnosi, appassionati, e bravi. Anche perché realizzare pellicole commerciali, fino a una ventina di anni fa, voleva dire confrontarsi con l’estero e cercare di accaparrarsi una nicchia di mercato non trascurabile. Basti pensare che Il mondo di Yor (1982) uscì negli Stati Uniti con 1425 copie, una cifra che non ha nessun paragone con le limitatissime potenzialità del cinema italiano di adesso.
I generi cinematografici sono scomparsi dal cinema italiano degli anni più recenti, colpito da trasformazioni totali che riguardano anche le strutture ed il modo di considerare il cinema da parte di chi il cinema si ostina a farlo e a produrlo.
“Anche in quei tempi non era facile trovare la condizione di produrre film di un certo tipo in Italia. Per poter girare i miei film ho spesso tentato la via diretta della produzione e questo mi ha tagliato un po’ le gambe. Le cose sarebbero andate forse diversamente se avessi avuto dietro di me un produttore importante. Con Addessi (che ha prodotto Danza Macabra, forse il più celebre dei film realizzati da Margheriti, NdA), per esempio, ho fatto molti buoni film, anche se a basso costo; la figura del produttore era e continua ad essere fondamentale, ma oggi proprio non esiste più.”
I diafanoidi vengono da Marte (film citato da Allen Ginsberg e da Wim Wenders), Danza macabra (un capolavoro del gotico italiano), Contronatura (dal quale Kubrick trasse ispirazione per la “cascata” di sangue in Shining), L’ultimo cacciatore (citato da Tarantino come uno dei suoi film preferiti) sono soltanto alcuni titoli della sterminata filmografia di Margheriti; pellicole che andrebbero riviste senza la snobbistica pretesa di elevarli a capolavori dimenticati, ma goderli così come Dawson li avevi pensati e girati: con affetto, attenzione, passione e soprattutto con uno spirito disposto al divertimento.
Cosa, quest’ultima, rara da ritrovare nel cinema italiano di oggi.

 

Paolo Fazzini