di Marco GROSOLI


Le reazioni alla vittoria di Obama provocano soprattutto una domanda. Il monumentale dispendio mediatico di entusiasmo messo in atto in questi giorni, per ragioni sostanzialmente arbitrarie, non lo si poteva dispiegare anche in decine di altre occasioni, altrettanto arbitrarie? Che so, la corsa di tori di Pamplona o la fioritura di ciliegi, o cose di questo genere. Sì, è bello entusiasmarsi insieme per l'aria che tira, ma allora perché non averlo fatto prima? Al di là di quello che tutti facciamo vedere pubblicamente, infatti, è evidente che quasi nessuno in buona fede ripone "davvero" speranza in Obama, cioè in uno che è stato messo lì per simulare un "cambiamento" che non ha affatto l'aria di doverci essere, e lo si capisce dal sostanziale qualunquismo con cui Obama ha affrontato la questione chiave, quella economica.

Insomma: chi se ne frega se si va via adesso dall'Iraq, se tra otto anni salterà fuori un repubblicano qualsiasi a suonare il fischietto, a dire "basta, ora occupiamoci delle cose serie, ovvero della devastante crisi energetica, e torniamo nella penisola arabica". Obama per il momento ha solo messo avanti i soliti paraventi del non-pensiero liberal (tipo le minoranze etniche...), evitando sistematicamente gli scogli fondamentali. Come il crollo di un intero sistema economico - a fronte del quale l'ultimo posto in cui cercare speranze è alla Casa Bianca.

Ma, di nuovo, nessuno in realtà ci è cascato, e nel giro di qualche settimana i milioni di persone che adesso festeggiano torneranno a conformarsi con l'imperativo categorico che oggi è molto più potente e deleterio di qualunque repubblicano alla Casa Bianca: il cinismo.
Quello è il vero nemico, non McCain, e lo si combatte (se lo si combatte: cosa che quasi nessuno prova a fare) tutti i giorni, e non quando alla Casa Bianca ci va un presidente nero.

Che, come pseudo-apertura liberal, avrebbe fatto ridere già ai tempi dei Pitura Freska (il papa nero...).