TEATRO LA FENICE PRESENTA...
 

Sir Andrew Davis

Luciano Berio: “Folk Songs”
Soprano: Lauren Curnow
 

Antonín Dvorˇák
Sinfonia n. 9 in mi minore op. 95
Dal nuovo mondo

Orchestra del Teatro la Fenice

Teatro Malibran, venerdì 10 aprile
 

di Gabriele FRANCIONI

 

 

Collegamenti:

- Teatro la Fenice

Missing Berberian
 

Non eravamo a Torino, lo scorso settembre, quando Sir Andrew Davis ha diretto la Sinfonia n.6 di Dvorak, ma da varie fonti possiamo dedurre che sia senza ombra di dubbio tra i compositori più amati e meglio interpretati dal plurilaureato direttore d’orchestra britannico, che brilla per sorprendente eclettismo, salvo individuare nella sua sterminata attività almeno tre gruppi dominanti: la patriottica ensémble Elgar-Tippett-Vaughan Williams-Britten; alcuni grandi dell’Est europeo (Prokofiev, Dvorak, Mussorgsky, Rachmaninov, Liadov, addirittura Lutoslawski); e tutto Mozart - opera, concerti, sinfonie -  in particolar modo quando dirige negli Stati Uniti, tra Los Angeles, Boston, New York o Chicago, dove è master conductor della Lyric Opera Orchestra.

Tale generosità tipicamente anglosassone, che lo rende così simile a Sir Neville Marriner (mentre Gardiner costituisce invece la meravigliosa eccezione), spesso si traduce in rara apertura intellettuale nell’accogliere ogni zona del Novecento, altre volte può tramutarsi in accostamenti azzardati o solo apparentemente dettati da profondità analitica.

 

Senza andar troppo a scandagliare nel passato di Davis, dove peraltro rintracciamo programmi ben strutturati, ma altrettanto frequentemente indeboliti da almeno una composizione difficilmente collocabile rispetto al resto, basta soffermarci sull’accoppiata Dvorak-Berio della bella serata al Teatro Malibran.

 

L’accostamento, invece che acuto, ci sembra vagamente superficiale: e non per l’ovvia comune matrice folklorica della selezione scelta o l’omaggio al compositore di casa, ma perché sospettiamo l’intima convinzione del direttore d’orchestra di un programma sbilanciato verso “Il Nuovo Mondo”, rispetto al quale Berio sarebbe mera introduzione.

Il sospetto diventa certezza dopo l’intervallo, quando sembra di assistere ad una trasformazione (in positivo) dell’atteggiamento complessivo dell’orchestra e del conduttore, più concentrati, compatti, attenti a sfumature spesso trascurate nella partitura dvorakiana.

Che, va comunque detto, rimane tra le pochissime composizioni accessibili a tutti, basata com’è sull’inesausta, quasi ossessiva esposizione di temi su temi, ispirati a spirituals della tradizione afroamericana o a canti dei nativi americani disposti su strutture ritmiche cangianti, ricche di sincopi.  

Però, se è innegabile il lirismo accattivante della Sinfonia n.9, che ha tutto per lasciarsi memorizzare anche dallo spettatore più distratto (gli andamenti modali sono tratto caratteristico di ogni “musica etnica” comprensibile da un pubblico vasto, emotivo, così come l’imprevedibilità di ritmi esotici), è altrettanto vero che Sir Andrew Davis si sforzi, per quanto può, di abbassare i toni e definire zone interpretative non scontate.

Rallenta ove serve e, nel secondo movimento (“Largo”), riprendendo la lezione abbadiana, lascia cantare il corno inglese; quindi crea una specie di ottetto da camera con gli archi isolati dal resto dell’orchestra, salvo riservarsi il solito finale con pieni e pienissimi di pura esaltazione.

Il pubblico è in trance e ritiene di avere ottenuto quello che chiedeva.

 

Il problema è che si è già dimenticato delle “Folk Songs” di Luciano Berio, licenziate con una certa nonchalance da Davis e dal mezzosoprano Lauren Curnow.

Una “leggerezza” elaborata, per così dire, senza malizia, nella convinzione di un’adesione empatica da parte di Berio alla materia trattata, mentre è noto il distacco profondo e meditato del compositore ligure riguardo a brani approcciati per la loro ricchezza e diversità linguistica e nient’affatto perché testimoni di nuovi o antichissimi mondi degni di rinnovata attenzione da archeologo della cultura.

 

Chissà se il pubblico del Malibran avrebbe gradito allo stesso modo “Stripsody”, composta da Cathy Berberian, moglie di Berio fino al 1964, anno in cui le “Songs” furono completate per essere espressamente eseguite dallo straordinario mezzosoprano armeno-americano.

La coerenza intellettuale dell’autore Berio e della sua musa, vengono affossate dalla gradevolezza interpretativa di Curnow & Davis.

“Le mie trascrizioni sono analisi (…). Non è mia intenzione conservare l’autenticità di un canto popolare” (e la sua piacevole diversità).

Stabilito questo e detto che per la commemorazione della Berberian del 1994 Berio fu costretto a servirsi di diversi mezzosoprano, in quanto “(…) ogni brano necessita di una voce diversa e solo lei poteva cambiare timbro, colore, stile e personalità in un attimo (…)”, possiamo affermare che le “Folk Songs” sono quasi impossibili da affrontare da parte d’interpreti non adeguate.

 

 

Cathy Berberian, tra le massime intelligenze della musica contemporanea, non può essere rifatta da nessuno, un po’ come Demetrio Stratos: intellettuali impegnati in ricerche di fonologia a Milano e Padova, non erano solo interpreti, ma anche compositori, interessati a tutti gli aspetti del processo creativo.

Non è un caso che la Berberian, senza alcun intento polemico, affermasse: “Quando si canta, non ci si deve preoccupare della sola ricerca del SUONO PURO.  Monserrat Caballé ora e Renata Tebaldi in passato ragiona(va)no con mentalità ottusa, come “mucche”, nel senso di animali ammaestrati. Vogliono solo che il suono venga fuori, non si preoccupano del fraseggio né del significato di ciò che canta”.

 

L’emarginazione e l’oblio della Berberian dipendono da queste affermazioni; da scelte di repertorio (ovviamente assolutamente élitarie anche quando eseguiva “Ticket to ride” dei Beatles con la stessa ironia di Felicity Lott che canta il Richard Rogers di “Tutti insieme appassionatamente/The sound of music”); dal non essere italiana; dall’accusa di avere forzato o influenzato il marito (?!?) nelle sue ricerche musicali e, non ultima, dalla fortissima personalità di donna indipendente ante-litteram, cioè ben prima del ’68.

 

Ascoltiamola attentamente: qui qui e qui.

O leggiamo “Cathy Berberian Cant'actrice, di Marie Christine Vila: “(…) Her study of dance, theatre, costume design and languages gave her all she needed to nurture the star quality, which was so evidently hers in abundance”.

 

Forse capiremo che, se fosse stata un soprano (copriva tre ottave e mezza), adesso si parlerebbe di lei come della più grande.

 

Musa del repertorio solo contemporaneo? No, perché cantò con suprema arte Monteverdi, Purcell, Debussy, Stravinsky, Berio, Maderna, Bussotti, Cage, Ravel, Donizetti (LUCIA DI LAMMERMOOR), Henze, Milhaud, Gershwin, Weill, Rossini, Saint Saens, Satie, Villa-Lobos, Rimsky Korsakov, Offenbach.

(“L’Orfeo” del ’69 diretto da Harnoncourt è in assoluto l’interpretaziona preferita da chi scrive).

Sylvano Bussotti, John Cage, Hans Werner Henze, William Walton, Bruno Maderna, Igor Stravinsky e ovviamente Berio hanno composto musiche per lei e l’hanno richiesta per le relative prémieres.

Quest’onore non è toccato a nessuna delle interpreti normalmente ricordate tra le grandi dell’ultimo secolo.

E nessuna possedeva il suo inimitabile rapid-reflex.

 

Quarantadue anni dopo il passaggio di Cathy a Venezia (1967), purtroppo non documentato da alcuna registrazione, gli sforzi di Andrew Davis e Lauren Curnow sembrano, in tutta onestà, vani.

Può un mezzosoprano lirico (!), appena trentenne, con attitudini comiche e a suo agio tra Papagena e Berta, pensare di avvicinarsi a Berberian?

Non bastassero le incertezze delle prime 3-4 songs, cantate a mezza voce, per quanto il direttore faccia di tutto per mettere il silenziatore all’orchestra - la versione è quella allargata del ’73, dopo quella cameristica a sette elementi del 1964 - Curnow insiste nel non mutare timbro e nel ribadire un canto solo gioioso, ignorando completamente il significato delle liriche, prese da tradizioni distantissime: armena, siciliana, americana, francese, sarda.

Può, quindi, una fresca campionessa dello ZAUBERFLOTE  e di Rossini affrontare un compito così ingrato, ignorando sicuramente ciò che Berberian diceva delle colleghe innamorate solo del belcanto ?

La colpa, però, non è di Curnow, ma del suo pigmalione, ovvero lo stesso Davis, che la dirige abitualmente a Chicago e ha pensato di non doversi sforzare a cercare qualche altra cantante.

 

Serata quindi stimolante per poter sviluppare certe considerazioni, sopra riportate, ma non esaltante e, semmai, utile a farci tornare ad ascoltare Cathy Berberian.

 

Nota extra-musicale

Occorre dire come questa sorta di “Suite”, per la concezione di raccolta di motivi popolari provenienti da diverse parti del mondo, abbia oggi unito il pubblico in un comune sentire dovuto ai tragici eventi di domenica 6 aprile: sembra quasi che una particolare coincidenza abbia saldato la matrice, a volte, contadina delle “Canzoni”, all’afflato ottimistico del “Nuovo Mondo” dvorakiano.

Forzando un po’ le cose, la serata, che si è aperta con un drammatico, oltre che cageano, minuto di “silenzio”, pare orchestrata per essere un’accorata dedica alle origini contadine della regione colpita dal sisma e, nel contempo, l’indicazione (forse utopistica) di un “nuovo” periodo che ci si augura migliore.

 

(Ma che sia un nuovo costruito sulle salde radici del passato, come c’insegnano Berio e Dvorak, e non sulla qualunquistica spinta verso improbabili nebbie del nulla speculativo, nelle quali già s’inoltrano i pessimi teorici delle “new town”…)

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Luciano Berio: “Folk Songs”,
Soprano: Lauren Curnow
 

Antonín Dvorˇák
Sinfonia n. 9 in mi minore op. 95
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