MUSEO DEL CINEMA DI TORINO
 

RETROSPETTIVA TAKASHI MIIKE

di Riccardo FASSONE

Abbiamo incontrato Miike Takashi in occasione della retrospettiva a lui dedicata dal Museo del Cinema di Torino, che ha visto il regista giapponese presentare circa un terzo della propria sterminata produzione. Dai lavori più recenti, come IZO o THE GREAT YOKAI WAR,visti a Venezia, a quelli che l’hanno consacrato regista anarchico e abrasivo pronto a ribaltare le forme e i modi del cinema per assoggettarle alle proprie urgenze. Prima della presentazione, in una sala gremitissima, di DEAD OR ALIVE, uno dei suoi lavori più importanti, Miike Takashi ha accettato di raccontare a Kinematrix qualcosa del proprio cinema, della propria violenza e delle proprie visioni.

Iniziamo parlando di IMPRINT, l’episodio che ha girato per la serie americana Masters Of Horror e che è stato censurato in America. Durante la realizzazione del film ha mai avuto la sensazione che sarebbe stato difficile farlo arrivare sul mercato degli Stati Uniti?
 

T.M.- Ho girato il film interamente in Giappone, poi, finita la post produzione, l’ho mandato al produttore americano di Masters Of Horror. Per un po’ di tempo non ho avuto risposte e ho cominciato a sospettare che ci fosse qualcosa che non stava andando per il verso giusto. La produzione pensava che ci fossero alcune scene che andavano rimontate; io ho risposto che se si trattava di un’imposizione l’avrei fatto, ma che, potendo scegliere, avrei preferito non toccare il film. Alla fine IMPRINT non è stato trasmesso in TV, ma sarà pubblicato solo in DVD. Il film è una cosa mia, ma è l’emittente televisiva ad avere il potere di trasmetterlo; se loro hanno deciso di non trasmetterlo, non c’è problema.

Pensa che IMPRINT avrebbe trovato la stessa “accoglienza” in Giappone? Qual è l’atteggiamento della TV giapponese rispetto alla violenza?
 

T.M.- Non credo che sarebbe mai stato trasmesso in Giappone. In America il sistema della tv via cavo è molto diffuso e permette anche a prodotti più violenti di ottenere un passaggio televisivo, mentre in Giappone la situazione è un po’ diversa. C’è una forte auto censura da parte delle emittenti televisive non solo nei confronti della violenza, ma anche del linguaggio, che deve sempre essere il più possibile politicamente corretto.

In ogni caso lei ha lavorato spesso per la televisione, trovandosi costretto a sottostare a dei criteri piuttosto rigidi. Considera i suoi lavori televisivi meno riusciti? Meno “liberi”?
 

T.M.- I limiti ci sono sempre, nella televisione e nel cinema. Io cerco sempre di svincolarmi da questi limiti senza forzarli, piuttosto eludendoli. Ci sono delle regole a cui devo sottostare e ciò che mi diverte è trovare delle anomalie, delle variazioni che mi permettano di giocare con le regole.

Ha dichiarato che THE TEXAS CHAINSAW MASSACRE è uno dei film che l’ha colpito di più. Tsukamoto Shinya ha detto lo stesso de LA CASA di Sam Raimi. Come mai i registi giapponesi della sua generazione sono stati tanto scossi dall’horror americano degli anni Settanta e Ottanta? Cosa la sconvolgeva di quei film?
 

T.M.- Per me è fondamentale il momento in cui vedo un film. Da bambino vedevo molti film per bambini, poi, arrivato a quell’età delicata e ambigua in cui si pensa di essere pronti a vedere un film “da grandi”, ho deciso di guardare THE TEXAS CHAINSAW MASSACRE. E’ stato uno shock fortissimo che mi ha segnato per molto tempo. Col tempo, continuando a vedere film horror, mi sono abituato a quel genere di emozione, ma in quel momento quel film ha scatenato in me una reazione che ha contribuito in modo fondamentale a formare il mio approccio al cinema. La mia generazione è diventata adulta con quei film.

Mi sembra che anche lei con i suoi film cerchi di ricreare quel momento di shock, di estasi fanciullesca che ha provato durante la visione dei film di Tobe Hooper. Intende creare sconvolgimento nello spettatore o gli eccessi del suo cinema sono dovuti ad un approccio più istintivo?


T.M.- Personalmente non ricerco l’effetto shockante. Quando giro un film penso solo al fatto che mi sto divertendo, che faccio ciò che mi piace. Penso che fosse lo stesso anche per Tobe Hooper. L’horror giapponese contemporaneo, tanto amato da Hollywood, ha invece la tendenza a “programmare” lo shock, a fare calcoli circa la reazione dello spettatore a determinate sequenze. Penso che si tratti di film indubbiamente efficaci, che, però, raramente intaccano la coscienza dello spettatore.

Immagino che il fatto che ami così tanto stare sul set sia la ragione dell’ipertrofia della sua produzione…
 

T.M.- La ragione per cui riesco a fare tanti film è proprio che mi piace moltissimo. Ci sono molti registi che lavorano per anni su un film, sulle inquadrature, sul montaggio. Nello stesso tempo io faccio quindici film. Dal mio punto di vista fare un film ogni tre anni è uno spreco di tempo. Se ci metti tre o quattro anni a fare un film e poi quel film si rivela essere un flop, il fallimento è enorme sia sul piano personale che su quello commerciale. Takeshi Kitano, ad esempio, porta su di sé aspettative enormi che immagino costituiscano uno stress mostruoso per lui; per lui un fallimento sarebbe rovinoso.

Queste sue affermazioni così pragmatiche mi fanno pensare che si consideri meno “autore” di quanto pensino i direttori dei festival di tutto il mondo. Pensa di essere un artigiano del cinema?
 

T.M.- Non mi interessa lo status di autore, né mi interessa corrispondere alle aspettative dei critici. Mi considero un artigiano, perché il cinema è il mio lavoro, la mia professione. Mi piacerebbe essere percepito così anche dal pubblico, ma ognuno si fa un’immagine di me diversa. In ogni caso preferisco essere un artigiano, avere la possibilità di fallire senza drammi, senza dover rendere conto di un’ “autorialità”.

Nei suoi film spesso il sesso e la violenza assumono risvolti grotteschi, puramente estetici e a volte slegati dalla funzionalità narrativa. Si è mai posto una “questione morale” rispetto ai propri film e al suo approccio al sesso e alla violenza?
 

T.M.- La violenza ha molti significati. Tutti mi chiedono del mio uso della violenza, ma io non ho una risposta precisa, perché la mia elaborazione della violenza non è mai meditata. La violenza è ovunque, così come il brutto è ovunque. Se squilla il telefono e rispondi, speri sempre che sia una bella notizia, ma potrebbe essere la tua ragazza che ti dice che suo padre è morto. Eppure continuiamo a rispondere al telefono, perché la morte e la violenza sono parte della vita di tutti. L’utilizzo simbolico o estetico della violenza non mi pone alcuna “questione morale”. Credo che una violenza più subdola si trovi nel cinema americano, in cui i personaggi secondari sono sempre “spendibili”, vivono in funzione del protagonista. E’ una forma di violenza estremamente mortificante.

Credo che IZO sia il suo film più sorprendente, perché oltre ad essere visivamente straordinario ed estremamente maturo è un attacco molto esplicito e brutale al cinema inteso come macchina narrativa. Le regole della sceneggiatura, del dialogo, della definizione dei personaggi vengono sistematicamente infrante, il cinema viene attaccato alle sue fondamenta…
 

T.M.- IZO nasce dall’idea di uno sceneggiatore costretto a scrivere per anni sceneggiature “tradizionali”, costruite su stereotipi tragici o comici. Quando questo sceneggiatore mi confessò di aver scritto una sceneggiatura “ribelle”, che sovvertiva tutte le regole del cinema, ho voluto leggerla. Ho pensato che il film si potesse fare, così ho cominciato a girare. Durante le riprese ho cambiato quello che volevo, aggiungendo anarchia ad anarchia, arrivando ad avere un prodotto del tutto inclassificabile. Personalmente amo molto IZO, perché ha rappresentato una grande valvola di sfogo. Per qualche anno farò film “normali”, poi, forse, ci sarà un altro IZO.

In molti suoi film l’infanzia ha un ruolo fondamentale. Spesso i bambini intuiscono ciò che gli adulti non vedono e rappresentano tasselli di normalità nell’entropia delle sue storie. Con THE GREAT YOKAI WAR ha realizzato un film che, oltre a parlare di bambini, parla ai bambini con un linguaggio pensato per loro. Come si è trovato a realizzare un film destinato al pubblico dei bambini?
 

T.M.- Mi piace lavorare con i bambini, perché un attore adulto ha un bagaglio accademico, mentre un bambino è una lavagna vuota. Puoi guidarlo, plasmarlo, puoi lavorare sulla loro imprevedibilità. Il rapporto con un bambino non è mai filtrato dalla formalità. Mi piace pensare di riuscire a catturare in un mio film un momento che non si ripeterà più, un’età che andrà inevitabilmente persa. Mi piace fare film per i bambini, ma quello che voglio continuare a fare è fare film sui bambini.



 

Torino, 14:05:2006