il cinema ritrovato

02/09:07:2005

BOLOGNA

 

di Luciana APICELLA

 

Giunto alla sua 19ma edizione “Il cinema ritrovato” consolida sempre più se mai ce ne fosse bisogno la sua fama di squisita vetrina per cinefili, addetti ai lavori o semplici curiosi di un cinema che non c’è più. Organizzazione impeccabile, pubblico attentissimo ed eterogeneo, occasioni d’incontro innumerevoli, percorsi differenziati. Pienamente d’accordo con le parole che introducono il ricco catalogo: si ha l’impressione di potersi costruire “il proprio personale festival”, scegliendo uno degli itinerari proposti dalla fittissima programmazione. Che, forse è vero, rischia di disperdere un po’ quell’intimismo che caratterizzava le prime edizioni, di solito spezzato soltanto dal mondanissimo evento di chiusura della proiezione nelle splendide sale del Teatro Comunale, con l’accompagnamento orchestrale dal vivo. Quest’anno due sono state le serate a teatro: in apertura la proiezione di quella “Corazzata Potemkin”, per i più condannata a rimanere di fantozziana memoria ( “La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca!” osava il ragioniere commentare di fronte a una sala perplessa poi entusiasta nei suoi 95 minuti d’applauso); in chiusura quella "Woman of Paris" di Sir Charles Chaplin che si premurava di avvertire il pubblico nelle locandine pubblicitarie all’uscita del film che nella pellicola il suo volto non sarebbe apparso. A fianco delle proiezioni la mostra “La donna di Parigi: la prima volta del Vagabondo - Fantasma” dedicata appunto a quello che è un unicum nella storia del maestro, con gustosi dietro-le-quinte relativi alla lavorazione del film.


Anche noi abbiamo scelto un nostro personale itinerario, quello sul film muto, in particolare la sezione dedicata ai film del 1905, giusto un secolo fa. Un occhio su ciò che il cinema produsse nella sua infanzia, quando la decima musa fece la sua trionfale comparsa togliendo pubblico alle sale dei teatri, alle bettole e ai cafè-chantant, quando il cinema era industria, e industria lucrosissima, alla ricerca però di una nobilitazione, di un conferimento di patente artistica, quando il suo alfabeto era ancora tutto da costruire, quando il “buio wagneriano” delle prime sale di proiezione doveva essere costantemente interrotto da grida di stupore o terrore, da commenti a voce alta, frivoli cappelli da signora, lazzi di fanciulli, seri sparati e tube di gentiluomini e borghesi.
A noi spettatori smaliziati d’oggi, sommersi da una produzione ipertrofica e immediatamente deperibile, di cui è facile deprecare l’attenzione rivolta soltanto allo spettacolo di largo consumo, agli investimenti colossali e agli introiti altrettanto consistenti non sfugga però una considerazione, che ci consenta di evitare un facile atteggiamento nostalgico: anche il primo cinema è fatto di spazzatura, di pellicole che, se oggi riescono difficili da digerire per la distanza che ce ne separa, anche allora non dovevano essere particolarmente apprezzate e apprezzabili: non è un caso se l’intellettualità storceva il naso di fronte alle lacrimevoli storie, agli svenimenti della diva di turno aggrappata alle tende, alle passioni pruriginose e tragiche trasferite semplicemente dal feuilleton di fine Ottocento alle immagini in movimento. Il primo cinema era in primis industria redditizia, che aveva facile gioco a dare in pasto ad un pubblico “primitivo” e digiuno di ogni strumento critico e valutativo qualsiasi storia, qualsiasi trama. E accanto a quella produzione indiscriminata, fatta di cronache comiche capolavori della letteratura di ogni tempo ridotti in dieci minuti di immagini tremolanti nascono i primi cineasti, i primi grandi registi, i primi grandi comici, le prime articolate riflessioni su quello che non può più essere considerato soltanto come spettacolo da fiera e baraccone. E allora Andrè Deed, Giovanni Pastrone, David W. Griffith, Sergej Ejzenstein. Nomi che paiono lontani anni luce, uomini che con il loro pionieristico entusiasmo fecero del cinema forse l’arte più rappresentativa del nostro tempo, intuendone le potenzialità infinite.

In principio era il cinema muto. Le immagini in movimento da sole bastavano a tenere incollati gli sguardi e l’attenzione, tale doveva essere il prodigio di quelle ombre in movimento. L’arte comica era forse quella che più agevolmente poteva approfittare del silenzio del nastro: il gesto da solo poteva bastare a suscitare il riso, coi capitomboli le rincorse le goffaggini del comico di turno. In principio fu Cretinetti, al secolo Andree Deed, il francese innamorato dell’Italia per la quale divenne un mito. Una ricchissima retrospettiva su Deed ce ne mostra la maschera stralunata, l’irresistibile forza comica, il gesto scomposto: Cretinetti che mangia un gambero e si ritrova a camminare all’indietro combinando ogni sorta di disastro, Cretinetti che si ingozza dei dolci custoditi gelosamente sull’albero di Natale e in sogno si ritrova in uno straordinariamente divertente aldilà di cartapesta, per la giusta punizione, inseguito da San Pietro e Dio, precipitante tra i forconi infernali di una sarabanda di diavoli, Cretinetti che con la testa tra le nuvole si veste col gilet sopra il cappotto, le calze sopra gli scarponi, Cretinetti che lotta per conquistare una bella donna ed esser poi beffato dal rivale di turno. E poi Chaplin, non ancora regista di se stesso, quando lavorava per la Keystone diretto da Henry Lehrman, la prima volta in assoluto del vagabondo, irresistibilmente attratto dalla macchina da presa durante una gara automobilistica (in Kid auto Races at Venice), il sogghigno più duro di quello che siamo sempre stati abituati a vedere, uno Charlot più sadico e misogino, che ama flirtare con la divetta cinematografica o con la vicina annoiata, che non perde occasione per attaccare briga e creare scompiglio. Il Progetto Chaplin della Cineteca bolognese continua ad offrire chicche di inestimabile valore, coi restauri e le proposte di pellicole che altrimenti sarebbero di impossibile accesso. E’ la scoperta di un lato inedito del personaggio di Charlot, intriso di una certa violenza, che non risparmia soprusi, come quando in The property man costringe il rattrappito custode del teatro a caricarsi su una spalla un pesantissimo baule mentre lui si occupa dell’attrice compiacente. Nulla a che vedere con il poetico e triste vagabondo che poi Chaplin metterà a punto divenuto regista di se stesso, costruendo il leggendario personaggio che conosciamo.


Ma non è necessario andare oltreoceano per tentare un approccio alla storia del primo cinema. Per quanto possa sembrare sorprendente oggi (non siamo certo abituati a primeggiare in campo cinematografico) l’Italia mantenne per anni una posizione di primato indiscusso nell’arte della celluloide. Torino come Hollywood, recitava il titolo di un saggio di Gianni Rondolino. E non fu solo Cabiria: anzi quel film segnò in qualche modo il climax di una parabola che da allora sarebbe stata inevitabilmente discendente. La caduta di Troia di Pastrone fu il primo grande lungometraggio, pietra miliare di quel film storico in cui prestissimo si specializzarono le maggiori case di produzione italiane, e che divenne un vanto all’estero. Ci fu un tempo in cui le pellicole italiane venivano acquistate a scatola chiusa sul mercato americano, un tempo in cui il marchio italiano era garanzia di qualità e sicuro richiamo per il pubblico. Un tempo in cui Griffith guardava per ore la Cabiria pseudodannunziana (in realtà di Pastrone) per carpirne i segreti, i movimenti di macchina (Cabiria fu il primo film in cui si utilizzarono movimenti di macchina: prima di allora l’inquadratura rimaneva fissa, a evocare la quinta di un teatro, la scena statica di un palcoscenico). Era il tempo delle ricostruzioni storiche, per le quali l’Italia offriva un patrimonio artistico che si prestava da naturale scenografia. Ma era anche il tempo dei drammoni di sangue e sesso, come in Un amore selvaggio, del 1912, con la rozza contadina che si innamora non corrisposta del padrone elegante e invoca vendetta al fratello per l’onta del rifiuto subito. Le situazioni sono standardizzate: c’è sempre l’amore tragico, o la miseria più squallida, la gelosia più accecante, la cattiveria più spietata: non esistono sfumature, i sentimenti sono sovraccarichi nelle loro tinte rosee o fosche. Broken Blossoms di Griffith, di qualche anno più tardo ( siamo nel 1919) dipinge la lacrimevole storia della fanciulla fragile come un giglio, spezzata dalla fatica che però non piega la sua bellezza pura, vessata dal padre pugile e ubriacone che finirà per ammazzarla di botte. E il timido cinesino imbevuto di filosofia buddistica non può fare a meno di cercare di salvare quel fiore, accogliendola nella sua casa come una regina, “raccogliendo di notte i raggi della luna per posarli sui suoi capelli”. Sono frasi che ci fanno sorridere, ma è impossibile non essere rapiti da quel bianco e nero sgranato, dalle bocche a cuore perennemente schiuse sui volti di porcellana, dalla magia che doveva accompagnare quelle proiezioni mute ed eloquenti al tempo stesso, quando il cinema doveva davvero essere sogno e prodigio. Al di là dei contenuti dei film, delle evoluzioni tecniche e narrative, ciò che questo festival ha il merito di mostrare anno dopo anno è un ritratto d’epoca, di una sensibilità che nessuna ricostruzione storica o documentaristica sarebbero in grado di offrirci con altrettanta immediata evidenza. Il cinema ritrovato è senza dubbio un evento unico nel suo genere e straordinario, al quale auguriamo una lunghissima e florida vita.

 

 

Bologna, 20:07:05