Giunto alla sua 19ma edizione “Il
cinema ritrovato” consolida
sempre più se mai ce ne fosse bisogno la sua fama di squisita vetrina per
cinefili, addetti ai lavori o semplici curiosi di un cinema che non c’è più.
Organizzazione impeccabile, pubblico attentissimo ed eterogeneo, occasioni
d’incontro innumerevoli, percorsi differenziati. Pienamente d’accordo con le
parole che introducono il ricco catalogo: si ha l’impressione di potersi
costruire “il proprio personale festival”, scegliendo uno degli itinerari
proposti dalla fittissima programmazione. Che, forse è vero, rischia di
disperdere un po’ quell’intimismo che caratterizzava le prime edizioni, di
solito spezzato soltanto dal mondanissimo evento di chiusura della
proiezione nelle splendide sale del Teatro Comunale, con l’accompagnamento
orchestrale dal vivo. Quest’anno due sono state le serate a teatro: in
apertura la proiezione di quella “Corazzata Potemkin”, per i più condannata
a rimanere di fantozziana memoria ( “La corazzata Potemkin è una cagata
pazzesca!” osava il ragioniere commentare di fronte a una sala perplessa poi
entusiasta nei suoi 95 minuti d’applauso); in chiusura quella "Woman of
Paris" di Sir Charles Chaplin che si premurava di avvertire il pubblico
nelle locandine pubblicitarie all’uscita del film che nella pellicola il suo
volto non sarebbe apparso. A fianco delle proiezioni la mostra “La donna di
Parigi: la prima volta del Vagabondo - Fantasma” dedicata appunto a quello
che è un unicum nella storia del maestro, con gustosi
dietro-le-quinte relativi alla lavorazione del film.
Anche noi abbiamo scelto un nostro personale itinerario, quello sul
film muto, in particolare la sezione dedicata ai film del 1905, giusto un
secolo fa. Un occhio su ciò che il cinema produsse nella sua infanzia,
quando la decima musa fece la sua trionfale comparsa togliendo pubblico alle
sale dei teatri, alle bettole e ai cafè-chantant, quando il cinema era
industria, e industria lucrosissima, alla ricerca però di una nobilitazione,
di un conferimento di patente artistica, quando il suo alfabeto era ancora
tutto da costruire, quando il “buio wagneriano” delle prime sale di
proiezione doveva essere costantemente interrotto da grida di stupore o
terrore, da commenti a voce alta, frivoli cappelli da signora, lazzi di
fanciulli, seri sparati e tube di gentiluomini e borghesi.
A noi spettatori smaliziati d’oggi, sommersi da una produzione ipertrofica e
immediatamente deperibile, di cui è facile deprecare l’attenzione rivolta
soltanto allo spettacolo di largo consumo, agli investimenti colossali e
agli introiti altrettanto consistenti non sfugga però una considerazione,
che ci consenta di evitare un facile atteggiamento nostalgico: anche il
primo cinema è fatto di spazzatura, di pellicole che, se oggi riescono
difficili da digerire per la distanza che ce ne separa, anche allora non
dovevano essere particolarmente apprezzate e apprezzabili: non è un caso se
l’intellettualità storceva il naso di fronte alle lacrimevoli storie, agli
svenimenti della diva di turno aggrappata alle tende, alle passioni
pruriginose e tragiche trasferite semplicemente dal feuilleton di fine
Ottocento alle immagini in movimento. Il primo cinema era in primis
industria redditizia, che aveva facile gioco a dare in pasto ad un pubblico
“primitivo” e digiuno di ogni strumento critico e valutativo qualsiasi
storia, qualsiasi trama. E accanto a quella produzione indiscriminata, fatta
di cronache comiche capolavori della letteratura di ogni tempo ridotti in
dieci minuti di immagini tremolanti nascono i primi cineasti, i primi grandi
registi, i primi grandi comici, le prime articolate riflessioni su quello
che non può più essere considerato soltanto come spettacolo da fiera e
baraccone. E allora Andrè Deed, Giovanni Pastrone, David W.
Griffith, Sergej Ejzenstein. Nomi che paiono lontani anni luce,
uomini che con il loro pionieristico entusiasmo fecero del cinema forse
l’arte più rappresentativa del nostro tempo, intuendone le potenzialità
infinite.
In principio era il cinema muto. Le immagini in movimento da sole
bastavano a tenere incollati gli sguardi e l’attenzione, tale doveva essere
il prodigio di quelle ombre in movimento. L’arte comica era forse quella che
più agevolmente poteva approfittare del silenzio del nastro: il gesto da
solo poteva bastare a suscitare il riso, coi capitomboli le rincorse le
goffaggini del comico di turno. In principio fu Cretinetti, al secolo
Andree Deed, il francese innamorato dell’Italia per la quale divenne un
mito. Una ricchissima retrospettiva su Deed ce ne mostra la maschera
stralunata, l’irresistibile forza comica, il gesto scomposto: Cretinetti che
mangia un gambero e si ritrova a camminare all’indietro combinando ogni
sorta di disastro, Cretinetti che si ingozza dei dolci custoditi gelosamente
sull’albero di Natale e in sogno si ritrova in uno straordinariamente
divertente aldilà di cartapesta, per la giusta punizione, inseguito da San
Pietro e Dio, precipitante tra i forconi infernali di una sarabanda di
diavoli, Cretinetti che con la testa tra le nuvole si veste col gilet sopra
il cappotto, le calze sopra gli scarponi, Cretinetti che lotta per
conquistare una bella donna ed esser poi beffato dal rivale di turno. E
poi Chaplin, non ancora regista di se stesso, quando lavorava per la
Keystone diretto da Henry Lehrman, la prima volta in assoluto del vagabondo,
irresistibilmente attratto dalla macchina da presa durante una gara
automobilistica (in Kid auto Races
at Venice), il sogghigno più duro di quello che siamo sempre stati
abituati a vedere, uno Charlot più sadico e misogino, che ama flirtare con
la divetta cinematografica o con la vicina annoiata, che non perde occasione
per attaccare briga e creare scompiglio. Il Progetto Chaplin della
Cineteca bolognese continua ad offrire chicche di inestimabile valore, coi
restauri e le proposte di pellicole che altrimenti sarebbero di impossibile
accesso. E’ la scoperta di un lato inedito del personaggio di Charlot,
intriso di una certa violenza, che non risparmia soprusi, come quando in The
property man costringe il rattrappito custode del teatro a caricarsi su una
spalla un pesantissimo baule mentre lui si occupa dell’attrice compiacente.
Nulla a che vedere con il poetico e triste vagabondo che poi Chaplin metterà
a punto divenuto regista di se stesso, costruendo il leggendario personaggio
che conosciamo.
Ma non è necessario andare oltreoceano per tentare un approccio alla storia
del primo cinema. Per quanto possa sembrare sorprendente oggi (non siamo
certo abituati a primeggiare in campo cinematografico) l’Italia mantenne per
anni una posizione di primato indiscusso nell’arte della celluloide. Torino
come Hollywood, recitava il titolo di un saggio di Gianni Rondolino. E
non fu solo Cabiria: anzi
quel film segnò in qualche modo il climax di una parabola che da allora
sarebbe stata inevitabilmente discendente.
La caduta di Troia di
Pastrone fu il primo grande lungometraggio, pietra miliare di quel
film storico in cui prestissimo si specializzarono le maggiori case di
produzione italiane, e che divenne un vanto all’estero. Ci fu un tempo in
cui le pellicole italiane venivano acquistate a scatola chiusa sul mercato
americano, un tempo in cui il marchio italiano era garanzia di qualità
e sicuro richiamo per il pubblico. Un tempo in cui Griffith guardava per ore
la Cabiria pseudodannunziana (in realtà di Pastrone) per carpirne i segreti,
i movimenti di macchina (Cabiria
fu il primo film in cui si utilizzarono movimenti di macchina: prima di
allora l’inquadratura rimaneva fissa, a evocare la quinta di un teatro, la
scena statica di un palcoscenico). Era il tempo delle ricostruzioni
storiche, per le quali l’Italia offriva un patrimonio artistico che si
prestava da naturale scenografia. Ma era anche il tempo dei drammoni di
sangue e sesso, come in Un amore
selvaggio, del 1912, con la rozza contadina che si innamora non
corrisposta del padrone elegante e invoca vendetta al fratello per l’onta
del rifiuto subito. Le situazioni sono standardizzate: c’è sempre l’amore
tragico, o la miseria più squallida, la gelosia più accecante, la cattiveria
più spietata: non esistono sfumature, i sentimenti sono sovraccarichi nelle
loro tinte rosee o fosche. Broken
Blossoms di Griffith, di qualche anno più tardo ( siamo nel
1919) dipinge la lacrimevole storia della fanciulla fragile come un giglio,
spezzata dalla fatica che però non piega la sua bellezza pura, vessata dal
padre pugile e ubriacone che finirà per ammazzarla di botte. E il timido
cinesino imbevuto di filosofia buddistica non può fare a meno di cercare di
salvare quel fiore, accogliendola nella sua casa come una regina,
“raccogliendo di notte i raggi della luna per posarli sui suoi capelli”.
Sono frasi che ci fanno sorridere, ma è impossibile non essere rapiti da
quel bianco e nero sgranato, dalle bocche a cuore perennemente schiuse sui
volti di porcellana, dalla magia che doveva accompagnare quelle proiezioni
mute ed eloquenti al tempo stesso, quando il cinema doveva davvero essere
sogno e prodigio. Al di là dei contenuti dei film, delle evoluzioni tecniche
e narrative, ciò che questo festival ha il merito di mostrare anno dopo anno
è un ritratto d’epoca, di una sensibilità che nessuna ricostruzione
storica o documentaristica sarebbero in grado di offrirci con altrettanta
immediata evidenza. Il cinema
ritrovato è senza dubbio un evento unico nel suo genere e
straordinario, al quale auguriamo una lunghissima e florida vita.
Bologna, 20:07:05 |