festival di cannes

66.ma edizione

 

Cannes, 15 / 26 maggio 2013

 

 

recensioni

di Marco GROSOLI

> behind the candelabra di Steven Soderbergh

> LA VENUS A LA FOURRURE di Roman Polanski

> LA VIE D'ADELE di Abdellatif Kechiche

> NORTE... di Lav Diaz

> only Lovers Left AlivE di Jim Jarmush

> Soshite chichi ni naru di Kore-eda Hirokazu

> the immigrant di James Gray

> tian zhu ding di JIA Zhangke

 

blue is the warmest colour
di Abdellatif Kechiche
Francia 2012, 177'

 

Palma d'oro 2013

24/30

E tanto tuonò che piovve e fu Palma. Non è un brutto film, intendiamoci, ma si fa fatica a sorvolare più di tanto sulla banalità di questa iniziazione all'amore saffico di una liceale, sul suo offrire sempre esattamente quello che ci si aspetta. Brave attrici, va bene, una macchina da presa che si attacca stretta a loro in cerca di scampoli di espressività aggiungendo dettaglio a dettaglio, ottimo, ma a che pro, di grazia? Dalla sua, il film ha solo uno scorrere fluidamente televisivo, l'addizione di istante a istante, goccia a goccia, sul manto soffice di ciò che è facilmente prevedibile, che culla piacevolmente lo spettatore fino all'affezione verso i personaggi. Miglior film della selezione.

behind the candelabra

di Steven Soderbergh
Stati Uniti 2013, 118'

 

29/30

È il cinema americano nel suo complesso a mostrarsi particolarmente in salute: col che non ci si riferisce certo alle banalità dei Coen (incomprensibile Grand Prix) o di Alexander Payne (resistibile il premio al protagonista Bruce Dern), ma alle robuste ricognizioni storicizzanti sullo Spettacolo da parte di Steven Soderbergh e James Gray. Behind the Candelabra, racconto dell'amore tra il leggendario pianista Liberace ormai anziano e un baldanzoso giovanotto tra gli anni Settanta e gli Ottanta, è in fondo un lucido, analitico funerale dello Spettacolo, dal punto di vista di ciò che, nella sua fase terminale, fu incaricato di procrastinarne la morte: lo spettatore, chiamato come estrema ratio ad occupare la scena per salvarla. Un autentico saggio di mediologia che ci ricorda che l'epoca dello “spettatore attivo” è alle nostre spalle, e non innanzi a noi come vorrebbero i ciarlatani.

like father, like son

di Kore-eda Hirokazu
Giappone 2013, 120'

 

30/lode

Nel palmarès, abbastanza ridicolo, spicca il Premio della Giuria concesso a Soshite chichi ni naru di Hirokazu Koreeda, probabilmente il capolavoro del regista, che dunque avrebbe meritato una più prestigiosa consacrazione. Si tratta di una variazione sul sempiterno topos commedico dei bambini scambiati nella culla che finiscono in famiglie opposte alle proprie (una ricca e rigida, l'altra povera e disordinatamente vitale): Koreeda cesella questo topos fino a farlo diventare una meravigliosa lezione sulle illusioni del pensare il tempo come qualcosa di continuo e lineare.

only Lovers Left AlivE
di Jim Jarmush
Regno Unito 2013, 123'

 

30/30

Parlando di “quadratura del cerchio”, davvero non si può non pensare al bellissimo inizio di Only Lovers Left Alive di Jim Jarmusch: un vinile che gira viene montato in parallelo a un movimento di macchina circolare dall'alto che inquadra prima “lui” e poi “lei”. Trattasi di una coppia di vampiri (sì: esistono ancora, e tra loro c'è anche nientemeno che Christopher Marlowe, riciclatosi spacciatore di sangue), che tra Detroit e Tangeri cerca di ammazzare il tempo a fronte della stagnazione del (nostro) presente, in cui imperversano i deleteri zombie (cioè noi “mortali”). Ecco il crinale: esseri storici contro esseri post-storici, questi ultimi ormai votati solo alla consumazione di piaceri insieme modesti e immensi: libri, chitarre, musica, scacchi. Opera stupendamente e lucidamente “geopolitica”, che cerca con coraggio una conciliazione tra i due poli in cui siamo condannati a muoverci oggi, ovvero dopo la sparizione definitiva di qualunque futuro: da un lato il chiudersi in un dandysmo obbligato, volto al godimento del presente, dall'altro l'aprirsi a una forma residuale e praticamente ancora inesplorata di socialità. Se il cinema di Jarmusch riesce ad essere magistralmente a servizio del primo per via del suo minimalismo quieto e frontale e dei suoi ritmi rilassati, sbuffa un po' quando deve occuparsi della seconda; il film rimane tuttavia uno dei più preziosi del concorso.

a touch of sin
di Jia Zhangke
Cina 2013, 133'

 

30/30

Altra pellicola meritatamente premiata è Tian zhu ding di Jia Zhang-Ke, ma ad apparire fuori luogo è la natura del premio: miglior sceneggiatura. Certo, questa indagine sulla violenza nella Cina di oggi si regge su una struttura straordinariamente ben congegnata, ma tutto sommato lontana dall'essere il suo aspetto migliore, che andrebbe piuttosto cercato nei prodigiosi movimenti di macchina che legano insieme personaggio e ambiente, azione e descrizione, continuità e discontinuità, ordinarietà quotidiana e strappo violento. Sono loro a scrivere, letteralmente, questo eccellente romanzo realista (nel senso più tradizionalmente letterario del termine) sulla Cina di oggi e le sue fratture

VENUS in fur
di Roman Polanski
Francia 2012, 96'

 

30/lode

Sempre francese è il film migliore del festival, un film che prende la prevedibilità (della pièce di David Ives) e la trasforma invece in supremo compimento (di un'intera carriera, la propria). La Venus à la fourrure è la definitiva quadratura del cerchio del masochismo che da sempre ha connotato il cinema di Roman Polanski (dai primi corti a La morte e la fanciulla a Luna di Fiele e oltre), il quale (attraverso la pièce, ma andando molto oltre) prende il romanzo omonimo di Leopold von Sacher-Masoch e gli imprime una geniale torsione “ebraicizzante”. La ricerca dell'eterno femminino si mescola in maniera “inestricabile” (parola chiave del film, già da subito) con il divino “nobody's shot” che la prospettiva “fallocentrica” maschile idealizza quale proprio limite; la serrata teatralità dell'impianto (due personaggi chiusi in teatro che si spostano continuamente dal palco alla platea e viceversa) si mescola con una messa in scena sottilmente ma potentemente cinematografica (in virtù di angolazioni, di montaggio, di lotta corpo a corpo contro la frontalità). Un appassionante, vertiginoso, abissale gioco di inversioni tra sguardo maschile (quello del regista teatrale, interpretato da Mathieu Amalric, che cerca l'interprete ideale di una messa in scena contemporanea del libro di Sacher-Masoch) e “oggetto femminile” (Emmanuelle Seigner, per giunta moglie di Polanski).

the immigrant
di James Gray
Stati Uniti 2013, 119'

 

28/30

Parlando di “quadratura del cerchio”, davvero non si può non pensare al bellissimo inizio di Only Lovers Left Alive di Jim Jarmusch: un vinile che gira viene montato in parallelo a un movimento di macchina circolare dall'alto che inquadra prima “lui” e poi “lei”. Trattasi di una coppia di vampiri (sì: esistono ancora, e tra loro c'è anche nientemeno che Christopher Marlowe, riciclatosi spacciatore di sangue), che tra Detroit e Tangeri cerca di ammazzare il tempo a fronte della stagnazione del (nostro) presente, in cui imperversano i deleteri zombie (cioè noi “mortali”). Ecco il crinale: esseri storici contro esseri post-storici, questi ultimi ormai votati solo alla consumazione di piaceri insieme modesti e immensi: libri, chitarre, musica, scacchi. Opera stupendamente e lucidamente “geopolitica”, che cerca con coraggio una conciliazione tra i due poli in cui siamo condannati a muoverci oggi, ovvero dopo la sparizione definitiva di qualunque futuro: da un lato il chiudersi in un dandysmo obbligato, volto al godimento del presente, dall'altro l'aprirsi a una forma residuale e praticamente ancora inesplorata di socialità. Se il cinema di Jarmusch riesce ad essere magistralmente a servizio del primo per via del suo minimalismo quieto e frontale e dei suoi ritmi rilassati, sbuffa un po' quando deve occuparsi della seconda; il film rimane tuttavia uno dei più preziosi del concorso.

NORTE, THE END OF HISTORY
di Lav Diaz
Filippine 2013, 250'

 

un certain regard

30/30

Sempre a proposito di durate-monstre, impossibile non citare l'immenso Lav Diaz, e il suo nuovo Norte, Hangganan ng kasaysayan (4 ore e dieci). Dopo più di dieci anni, Diaz torna a girare a colori (e che colori!), rinnovando (complice anche un cambio significativo a livello di circostanze produttive, ora più “solide”) molti aspetti della sua estetica, tra cui la natura e la funzione dei movimenti di macchina. Firma così una variazione sul tema del dostojevskijano Raskolnikov, in cui il cul de sac morale dello studente idealista/nichilista (migliori sono le sue intenzioni, peggiore è il risultato, implacabilmente) si fonde con il cul de sac materiale della condizione umana. Responsabile di questo miracolo, l'altissimo senso della messa in scena di Diaz, che fa toccare con gli occhi l'ordine invisibile connaturato al caos della materia. Il cineasta filippino (decisamente tra i migliori in attività), approdato per la prima volta a Cannes, riceve così non una consacrazione, ma il primo passo verso il riconoscimento internazionale che merita, verso un significativo allargamento del seguito che le sue opere ottengono. Poteri del Festival più importante del mondo.

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66.mo festival di cannes
Cannes, 15 / 26 maggio 2013