biografilm festival

01/05:06:2005

BOLOGNA

 

di Luciana APICELLA

 

anteprima

GUIDA GALATTICA PER AUTOSTOPPISTI

(The Hitchhiker's guide to the galaxy)

di Garth Jennings

(USA/UK, 2005, 110')


Avete presente quelle mattine in cui ci si sveglia e va tutto storto? Dalla sveglia assordante ai toast bruciati all’ennesima capocciata ad un muro troppo basso? Immaginate ora di uscire dalla porta e trovare una ruspa gigante ed un ordine di demolizione della vostra casa che malauguratamente sorge sul percorso di costruzione di una nuova tangenziale. Bene, tutto sommato non è nulla di così rilevante, soprattutto se il vostro migliore amico vi annuncia di provenire da un altro pianeta e vi porta a scolarvi la vostra ultima birra perché tra pochi minuti il pianeta terra sarà polverizzato. Inizia così il viaggio di Arthur Dent attraverso le galassie: vestito di un accappatoio e munito di un indispensabile asciugamano - sempre utile per un viaggetto nel cosmo - si mette a fare l’autostoppista interspaziale con l’amico marziano Ford Prefect, viene caricato da un’astronave che viaggia con una propulsione “ad alto grado di improbabilità”, dove incontra la deliziosa e annoiata Trisha-Trillian, corteggiata sul fu pianeta Terra ad una festa in maschera, fuggita poi con il capitano stesso della astronave nonché presidente di tutte le galassie Zaphod Beeblebrox, bello senza cervello e fratello di sangue di Ford. Una selva di personaggi, situazioni, eventi, incontri. Zaphod vuole raggiungere Magrathea, il pianeta sul quale il Grande Cervello ha elaborato la risposta alla fondamentale domanda “sulla vita l’universo e tutto quanto”. Zaphod cerca la domanda- più importante dell’enigmatica risposta- per soldi, Ford si adatta ad ogni situazione, Trisha vuole muoversi, vedere, viaggiare, scoprire, lanciarsi all’ignoto, Arthur vuole solo una tazza di thè e l’amore di Trisha. Dopo viaggi mirabolanti nello spazio in compagnia del robot depresso Marvin ( personaggio delizioso!) i quattro approdano a Magrathea e raggiungono il Grande Cervello, un desolante testone monolitico a forma di monitor, il mento poggiato su due sottilissime braccia di pietra. Che non ha elaborato la domanda ultima perché impegnato a guardare la tv. Arthur incontra Slartibartfast, il creatore, che ha conservato un file di backup della Terra. Ma dopo aver rivisto i luoghi a lui noti alla fine Arthur scoprirà che è più divertente scorazzare per l’universo ed abbandonare una volta per tutte false e stupide certezze, fragili e transitorie come un muro che si sgretoli sotto alla pressione di un bulldozer. Satira graffiante sul relativismo di ogni certezza o presunta grandezza terrestre, la Guida galattica è un film divertentissimo e irriverente. Ma lo dico da profana, non facendo parte della schiera di cultori della saga di Adams, non avendo mai letto i suoi libri. Alla ricerca di conferme alle mie impressioni di spettatrice entusiasta mi sono imbattuta in stroncature pesanti di un film che pare tradire totalmente il sacro testo, demolendone le parti più divertenti, sostituendone le battute con dialoghi banali e sciapi. Resto fedele al mio entusiasmo però. Il film è spassosissimo, intelligente, ironico. Si fa beffe di tutto e tutti, politica religione potere burocrazia letteratura quotidianità amore: tutto disintegrato sotto i colpi di uno sguardo irriverente e sardonico, tutto ribaltato e scrutato da cento mille punti di vista come in una prospettiva cubista. L’unica certezza? Non esiste nessuna visione certa, nessun punto di vista che offra consolanti risposte. Fulminante il siparietto all’inizio del film, che già fa capire che tipo di viaggio si stia intraprendendo. Credete che i delfini che saltano gioiosi sotto i vostri occhi in un lucido acquario, ai quali dispensate sorridenti pesciolini per nutrirli, siano uno spettacolo consolante ed idillico? Niente affatto: vi stanno avvertendo, andatevene terrestri, il vostro pianeta è marcio. Restate lì? Beh, noi si parte…. Tanti saluti e grazie per il pesce!

Voto: 30/30
 

 

BOLA DE NIEVE

di Pablo VILLASEÑOR

(Spagna/Cuba/Messico, 2003, 75')


Ancora una volta - e negli occhi abbiamo ancora la poesia del Buena Vista Social Club wendersiano amato alla follia - un viaggio alla scoperta dell’isola cubana sulle note di un pianoforte, quasi non esistesse davvero altro modo di afferrare Cuba, di raccontare Cuba se non attraverso l’ineffabile voce della musica, quasi non ci fossero altri contorni possibili che ne possano marcare l’incanto e la miseria, la gioia e l’oppressione, le eterne irrisolte contraddizioni. Non le note malinconiche e struggenti del son ma la vitalità dei ritmi afrocubani, il martellare delle dita sui tasti di un pianoforte trasformato in percussione sotto le dita di Ignacio Villa - Bola de Nieve. Musicista osannato, amato da artisti intellettuali scrittori - come ci testimonia un biglietto di Pablo Neruda mostrato orgogliosamente dalla sorella. L’incanto della sua musica rivive attraverso immagini di repertorio, attraverso la narrazione sua e di coloro che ebbero la fortuna di incontrarlo, di lavorare con lui, di rimanere incantati da uno straordinario talento quasi confessato sotto voce per paura di esser tacciato di superbia. Bola de Nieve, sorriso largo e corpo enorme in contrasto con la sua voce sottile e timida, rivoluzionario, omosessuale, nero: il documentario di Pablo Villasenor ce ne mostra nascita, vita, morte, camminando con la macchina da presa nelle strade affollate di ninos alla ricerca delle sue tracce, attraverso filmati d’epoca, attraverso le interviste a familiari e amici che ne ricostruiscono lo straordinario percorso artistico e umano.

Voto: 26/30

 



DANILO DOLCI MEMORIA E UTOPIA

di Alberto Castiglione

(Italia, 2004, 57')


Se questo festival ha un merito enorme, al di là della qualità più o meno alta delle singole pellicole, è quello di avere offerto la possibilità di riscoprire persone e personaggi che per i motivi più disparati, magari solo anagrafici, non facevano parte della nostra memoria e del nostro patrimonio di informazioni. Accade così per la straordinaria figura tratteggiata da questo documentario del giovane regista palermitano Alberto Castiglione. Danilo Dolci è un nome che nella maggior parte dei giovani non evoca nessun ricordo: eppure, leggiamo nelle poche righe di presentazione, fu definito il Ghandi italiano, candidato per tre volte al premio Nobel per la pace che mai vinse, molto plausibilmente per la tenace opposizione di alcuni partiti particolarmente potenti all’epoca dei fatti (parliamo degli anni tra il ’50 e il ’70) come il partito socialista per il quale Dolci era personaggio scomodo. Chi era dunque costui? I trafiletti di giornale che la cinepresa inquadra lo definiscono di volta in volta “l’agitatore”, “lo scrittore-apostolo”, più genericamente l’intellettuale. Uomo che dal nord dopo una breve vacanza in Sicilia fu folgorato non tanto dalla bellezza dei luoghi quanto dallo stato di miseria desolante e priva di speranza dei luoghi dell’interno gravitanti attorno alla Valle del Belice, villaggi di uomini imbruttiti dalla fame e dalla necessità, dalla povertà e dalla disoccupazione, dalla mancanza delle minime condizioni igieniche, dalle discariche a cielo aperto. Uomo che si propose una missione: condurre battaglie di civiltà promuovendo una presa di coscienza da parte di “poveri cristi” ormai rassegnati alle loro miserie come fatto ineluttabile. Spingere quelle popolazioni oppresse al riscatto, far capire loro che avevano il diritto di chiedere ad uno stato assente lavoro, pulizia, cibo, dighe, speranze per un futuro migliore. Fece scioperi della fame, promosse uno scandaloso “sciopero al contrario”, portando centinaia di disoccupati a lavorare la terra, fu arrestato, processato, amato e odiato come un padre premuroso ma inflessibile ed autoritario nel perseguire i suoi scopi. Fece costruire una scuola nella quale i bambini imparassero a dire i loro sogni, e a costruire il percorso per realizzarli. Non ebbe timore di denunciare senza mezze parole personaggi potenti collusi con quello stato nello stato che è la mafia. E’, lo diciamo al presente, anche se pare calato il silenzio su di essa: siamo abbastanza adulti e smaliziati da capire che l’informazione fa esistere ciò che vuole, ma che l’assenza e i silenzi sono colmi di atrocità, che le guerre e i crimini esistono anche se rimangono fuori dallo schermo a sedici pollici del nostro salotto. Un ottimo documentario, girato con il rispetto e la devozione che inevitabilmente suscita la coerenza di una vita spesa al servizio della giustizia sociale, del riscatto della massa. Che è fatta di individui, giova ricordarlo. Non meno miseri né meno schiavi e oppressi oggi, nonostante tutti si abbia un cellulare e una macchina….

Voto: 28/30
 

 


anteprima

TU CHIAMAMI PETER

(THE LIFE AND DEATH OF PETER SELLERS)

di Stephen Hopkins

(USA/UK, 2004,122')


“Quello che state per vedere è un film brutto” dice Romeo spendendo poche parole prima della proiezione. E l’annuncio non è certo uno dei più confortanti dato che ci aspettano 122 minuti di pellicola. In realtà l’impressione che si ha quando scorrono i titoli di coda è di non riuscire a darne una definizione. E’ un film che si propone un obiettivo smisurato: raccontare un’esistenza straordinaria come può essere quella di un mito come Sellers. Raccontarne cinematograficamente il lato umano e realisticamente quello artistico. Raccontare l’esistenza di un uomo privo di un contorno, esistente soltanto nei panni irreali di personaggio. L’uomo Sellers privo di cuore, privo di sensibilità, uomo-bambino eternamente nelle braccia dell’enorme madre, che distrugge a calci i giochi di suo figlio, che candidamente confessa alla figlia di volerle bene, sì, ma non tanto quanto ne vuole a Sophia Loren. L’attore straordinario e talentuoso, dapprima snobbato per la scarsa avvenenza poi osannato per il suo istrionismo, le sue doti di improvvisatore. Il Dottor Stranamore, l’uomo dai mille volti cui si aggrappa anche fuori dal set per conservare una consistenza, una qualsiasi forma di cui è privo una volta tolto il trucco di scena. L’unica maniera di vivere per non soccombere alla propria inconsistenza, per non dover fare i conti con essa, è quella di entrare nei panni altrui. Non solo in quelli dei suoi personaggi, ma in quelli delle persone che lo circondano, specie di chi lo ha messo al mondo, realmente o cinematograficamente. E Sellers è suo padre, sua madre, Sellers è Blake Edwards, amato e odiato, in un perenne stridere di sentimenti, intrappolato in un’emotività senza freni, convinto che tutto gli sia concesso non per presunzione o superbia, ma perché un bambino deve essere al centro del mondo, perché le sue esigenze devono essere soddisfatte, perché ad un bambino tutto si può perdonare. Geoffrey Rush è bravo nel prestare il suo corpo e il suo volto a Sellers, a restituirne movenze e smorfie, a costruirne una maschera tragica nella sua fragilità immensa di uomo. Le due ore del film scorrono, non si può dire sempre piacevolmente ma scorrono. Ci sono smaccate esagerazioni, una biografia dovrebbe forse avere almeno in parte il sapore della quotidianità, della banalità. Qui tutto è finzione, tutto è grandeur, dalle case alla bellezza delle donne ai dialoghi sempre sopra le righe agli scatti d’ira, ma forse è un gioco voluto. Tutti i personaggi sono esagerati, caricati, tutti recitano il loro ruolo nel film della vita di Peter: Edwards con la sua stazza e i suoi occhialoni da sole, la Loren divissima e ammiccante, perpetuamente inguainata in abiti da gran sera, Kubrick tenebroso e inquieto, Britt Ekland algida e bellissima. Tutti incarnano alla perfezione il loro personaggio, quello che il filtro dello schermo ci ha lasciato, come un precipitato chimico. Nessuno è persona, carne e ossa, tutti sono fantasmi, tutti hanno la consistenza di ombre cinematografiche. In questo senso il film è riuscito. Ma non ci chiedete un voto perché non lo sapremmo dare. Bello, brutto, riuscito o meno? Se come è annunciato da tempo il film uscirà nelle sale italiane lasciamo a chi lo andrà a vedere l’ingrato compito di definirlo. E una volta che ci sarete riusciti, fatecelo sapere.

Voto:?