Massimiliano
Gioni si pone in definitiva come il Virgilio della Commedia. L’insieme delle
opere mostrate al visitatore/Dante, peraltro, non è ancora associato a un
giudizio o a una sistemazione definitivi, per quanto all’idea di “museo”,
seppur in movimento e temporaneo, si richieda propriamente questo. Al
collezionista istantaneo, cioè noi, viene proposto di partecipare al
riordinamento di segni costituenti le opere e gli input da esse prodotti, in
una coazione a ripetere l’ estrazione e il riposizionamento semantico che ci
fa noi stessi curatori. Segue una veloce mitopoiesi che ricolloca
oggetti/azioni d’arte in un contesto accumulativo a seconda dei casi
interiore/privato o collettivo/condiviso.
Crediamo che il senso profondo dell’operazione intellettuale messa in atto
dal direttore e la “epocalità” cui si accennava stia propriamente in ciò: a)
accantonate cosmogonie aventi per definizione l’ artista-dio al proprio
centro, egli si pone IN questo centro quasi fosse un medium intento a
raccogliere sismograficamente ogni possibile vibrazione (tellurica o
ultrasensoriale) proveniente dalla periferia dell’arte, quindi da “altri
tempi” –i semisconosciuti come Auriti o i nobilissimi dilettanti quali Jung-
o da questo tempo ma da “luoghi altri” rispetto alle stanze scintillanti
della compravendita fieristico-galleristica; b) in un secondo momento,
quello che va da fine inizio giugno a fine novembre, costringe il visitatore
a farsi egli stesso riposizionatore intelligente, collezionista istantaneo e
self-curator del museo temporaneo precedentemente allestito. Le modalità di
questa seconda fase de “Il Palazzo Enciclopedico”,inteso come summa di
padiglioni nazionali e internazionale, non possono né devono essere messe in
atto se non virtualmente,immaterialmente: le vibrazioni ultrasensoriali
percepite da Gioni (Steiner,Crowley,lo stesso Jung) ci aiutano a costruire
il nostro palazzo enciclopedico interiore/privato, fatto di nessi
insondabili, segreti; la scossa tellurica deve invece costringere a
confrontarsi con l’universo collettivo-condiviso del presente, illuminato da
un inevitabile razionalismo analitico che scandagli recessione economica e
disastri ambientali.
Altrove si potrebbe discettare all’infinito sulle dinamiche oscure - in
sostanza dettate dalla grande finanza- poste alla base di tale buco nero di
crisi infinita, diretta verso tragiche derive millenaristiche e
belliche: qui e ora, nell’impossibilità di organizzare rivoluzioni
continentali o semplici e più circoscritte “primavere”, che comunque da
qualche lato di quella finanza dipendono, il nostro compito sta nello
svegliare dal torpore tutti coloro che non hanno ancora aperto gli occhi e
rischiano la fine della celebrata orchestra del Titanic. La recessione sta
mangiando a morsi anche il mondo dell’ arte: il rappel à l’ordre, la
quasi-ritirata delle star anni ’90, culminata nell’ autoacquisizione e
successivo ripiegamento verso la pittura da parte di Damien Hirst e nella
rinascita di Matthew Barney sotto forma di guru, suona ormai come la fine di
un modo sciaguratamente autoconservativo d’ interpretare lo Zeitgeist.
Leggere di un Mc Carthy giulivamente ed estemporaneamente riconvertitosi
- anche lui - alla pittura, fa accapponare la pelle. Scorrere le ancora per
poco pagine patinate di riviste tempestate da fulgide analisi sull’
immortalità della medesima arte pittorica perché “più trasportabile” dei
video o delle installazioni, fa sinceramente voglia d’imbracciare metaforici
kalash.
Mentre i mensili mainstream cambieranno veste grafica e si ripresenteranno
in carta riciclata o fogli grezzi da quotidiano, giustamente
riposizionandosi al livello, nobilissimo, di “Exibart”,“Mousse” o
“Artribune” e mentre gioiremo comunque del successo di “Frieze” e
“Artissima”, noi staremo però ancora visitando la Biennale Arte di Venezia,
perché il suo messaggio è più importante. Il compito di questa istituzione è
di guardare negli occhi il demone della contemporaneità: se esso dice “fine”
di un certo modo di fare e pensare, allora occorre raccontare tale FINE,
fermandosi sui titoli di coda. La coda del diavolo.
Massimiliano Gioni, che correttamente e liberamente potrà tornare a futuri
progetti old-style, cosmogonizzanti etc, sa però di doversi diversificare
dai suoi simili quando indossa i panni da doge e allestisce una Biennale
nient’affatto didattica, pedante o attorcigliata su se stessa come qualcuno
crede. Fattosi Virgilio e occasionalmente affiancato da Beatrice-Cindy
Sherman, apre mondi o terreni comuni alla gente che fluttua disordinata nel
mare iconografico dei Giardini e dell’ Arsenale, eleggendo la spirale di
Auriti e i gironi danteschi a forma iconica del suo Palazzo, utilizzabile
anche quale chiave di lettura o possibile spunto per i riordinamenti
curatoriali agiti dal visitatore.
Il minimo comun denominatore di Biennale diventa forma e viene evocato con
chiarezza da Gioni nella tridimensionalizzazione di in una torre spiralata
su cui disporre gli oggetti scelti durante una personalissima trance
psichica o immaginate azioni collettive, dopo aver visitato i padiglioni.
Quello della Romania raccoglie lo spunto gioniano in maniera diretta e senza
divagazioni, in tal modo servendoci da exemplum: i giovani performers
descrivono, citandole attraverso veloci re-enactements, opere presentate dal
1895 al 2011 alla Biennale. La rilettura è selettiva, personale, astratta,
trasognata, dal momento che quadri-sculture-performance-installazioni
diventano corpi. “An Immaterial Retrospective of the Venice Biennale”
s’intitola infatti questa trasformazione della Storia in Azione: forse il
modo migliore per seguire le linee curatoriali in modo originale.
Occorre quindi sognare la (storia dell’) arte, selezionandone i passaggi
ritenuti necessari per un’evoluzione interiore e privata o per la messa in
atto di un’ AZIONE collettiva. Non ci sembra un caso che la Biennale 2013
sia segnata dal netto prevalere di INSTALLAZIONI - VIDEOARTE – PERFORMANCE
su pittura e scultura (buona invece la presenza del medium fotografico).
15/6/2013 |