Abbiamo deciso d’inserire la Scozia, separata dal contesto dei padiglioni e
ufficialmente “evento collaterale”, tra gli spazi a dominante
videoartistica, ma le scelte curatoriali sono in realtà più
complesse e coinvolgono anche installazioni, materiali audio e fotografia.
Il Regno Unito è senza dubbio una delle partecipazioni-guida, se non la
presenza principale, alla 55° Bennale veneziana. Questo è lo specchio di
un più generale e consapevole ruolo di traino economico-culturale a livello
europeo, che ha cominciato a far mostra di sè già nel 2012 con eventi a
scala mondiale. Non si può certo dire che Inghilterra, Irlanda, Galles e
Scozia siano fuori dalla crisi, ma i fondi per la Cultura sono molto
maggiori rispetto al sud del continente o, almeno, gestiti in maniera mirata
nelle occasioni più significative.
è palpabile, fin dalle presentazioni e
dal materiale-stampa, la ricchezza di mezzi dietro al prodotto culturale,
anche se non c’è sfoggio inutile, ma bilanciata armonia di orgoglio
nazionale e apertura verso l’Altro.
“The
Common Guild”
è l’ente che supporta i tre artisti con base a Glasgow e che, con
incredibile e lungimirante atto di strategia curatoriale, li ripresenterà
nel 2014 in mostre indipendenti.
Nelle splendide sale del secondo piano di Palazzo Pisani, incontriamo
subito, dalla sinistra, l’articolata installazione (mosaico a terra/ video/
fotografie/ disegno su tende) di Corin Sworn (Londra, 1976): la
giovane artista scozzese è tra i pochissimi che riesca a rendere
compresenti, se non fuse tra loro, le premesse teoriche di Massimiliano
Gioni. Giocando con la luce dei piani superiori del palazzo, il
vento lasciato passare attraverso le finestre aperte, diaframmate da tende
trattate con semplici geometrie andine, Sworn evoca le altezze delle pampas
peruviane (oltre i 3500 metri) cui è ispirato il suo lavoro. Il paese di
Huasichanca fu meta di un viaggio del padre, che da lì portò oggetti poi
accumulati con attenzione e cura in una collezione familiare. La figlia ha
poi ripercorso i passi paterni, in un atto esperienziale onirico, quasi
una (mini)serie costituita da 2 performance uniche, dove le impressioni
visive e il corredo materiale vanno stratificandosi lentamente le une sugli
altri. Il mosaico di tessere multicolori, a dominante marrone e con
disposizione poligonale, è la terra, il dato oggettivo, la base montana che
evoca le fondazione della piccola città sulle Ande, mentre il video e le
fotografie sono i ricordi personali, il dato soggettivo. Ecco allora che l’installazione si fa meditativa pur rimanendo esplorazione scientifica. L’accumulo razionale, collezionistico indicato da Gioni, lascia spazio a una
trance privata: la sintesi perfetta, l’atto artistico ideale per questo
“Palazzo Enciclopedico”. Ancor di più, aprendosi alla magia
peruviana, Sworn nega (in ambito prettamente-UK) l’auto riflessività
nazionalista di Deller e si avvicina all’atteggiamento dialogante e critico
di Richard Mosse.
Duncan Campbell (Dublino, 1972),
collocato sul lato lungo del salone principale, alla destra dell’entrata,
invita invece a un intrigante gioco di specchi tra verità ed imitazione,
sdoppiando uno straordinario video-documentario di Chris Marker e Alain
Resnais del 1953, imperdibile gioiello dell’esposizione (“Les
Statues meurent aussi”), in un suo filmato in bianco e nero
-
“It for
Others”, 2013, 16 mm, 50
minuti
- visibile nella sala attigua e da fruire in
continuità temporale. Partendo dalle premesse teoriche del rivoluzionario
algerino Frantz Fanon contenute nel testo “Black Skin, white
mask”, 1952, Campbell mira altissimo e mette in questione sia le
radici del colonialismo, sia la matrice ideologica dei movimenti
“black-only” degli anni ’40, vista come altrettanto razzista e
discriminatoria. Da irlandese conscio delle brutali sottolineature tra il
Sé e l’Altro, tra Londra e Dublino, Campbell non concepisce
l’autoaffermazione di un popolo o di un singolo come avente barriere
inattaccabili nel relazionarsi ad altri popoli e altri individui. Posta come
questione ontologica, la premessa teorica diventa ragionamento filosofico e
produce l’accostamento geniale dei due video: il primo un’ambigua
collezione di sguardi sui corpi della black people, ripresa in un’epoca in
cui era essa stessa reperto o monile per la teca del pensiero. La banda
sonora racconta una sorta di razzismo di default connaturato alla razza
bianca, per quanto colta ed evoluta e sdogana interrogativi da brivido sulla
superiorità della razza, ma il filmato seguente non sembra creare
alternative e fissa la questione sul piano di una sostanziale equipollenza
tra universi bianco-centrici e nero-centrici.
“Racism is not the discrimination against one group or another on
account of their race: it is the belief in the existence of separate races
at all”.
è chiaro che Campbell si pone fuori da un’ottica anglo-centrica, che, per
quanto Londra rappresenti da sempre l’epitome
dell’apertura verso le
multiversità razziali, è tuttora viva e pulsante e non si distacca dalla
(dismessa, certo, ma onnipresente) prospettiva colonialista. “It for the
Others” è un’analoga collezione d’immagini che raccontano la/le specificità
nazionali (orgoglio produttivo/antropologia/arte) in una forma che fa la
parodia di Marker e Resnais e risulta assolutamente effettiva nel generare
sconcerto e illusione su dove stiano i confini tra racconto reale e falso.
Più intimista, anche se visivamente potente, l’installazione di Hayley
Tompkins (Leighton Buzzard, 1971), secondo la quale gli oggetti di uso
comune devono tornare alla purezza originaria dell’atto creativo, contenente
quel surplus di “feel”, di sentire, che la riproducibilità tecnica ha tolto
alla produzione in serie. Bottiglie di plastica sono ripensate e
riposizionate in un universo formale, insieme ad altri oggetti, che rallenta
i ritmi della fruizione. Riempite a metà, sostano di fronte a vaschette di
colore posizionate a terra, in un contorno installativo complesso, sempre
contrassegnato da “quotidianità” (come la camicia fissata alla parete).
09/6/2013 |