biennale arte 2013 il palazzo enciclopedico
55. ma esposizione internazionale d'arte 1.6-24.11
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jeremy deller regno unito Storia Nazionale/Narrazione celebrativa |
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“English Magic” adresses events from the past, present and an imagined future (…), weaving a narrative that is almost psychedelic”. Altra scelta perfetta nel senso dell’ accumulazione enciclopedica è Jeremy Deller, classe 1966, capace di produrre “archivi di gente” (“Folk Archive”), re-enactment di scioperi di minatori (“The Battle of Orgreave”) e documentari sulle città dei potenti (“Memory Bucket”, ovvero il Texas dei Bush). Incrociando sempre basso e alto, dominatori e dominati, Deller mette in cortocircuito ogni medium a disposizione. Tenendo in sottofondo “The man who sold the World” di David Bowie, suonata da un’orchestra insieme ad una composizione di Ralph Vaughn Williams, viene dipanato un ampio discorso sulla storia inglese, che va dalle asce del Paleolitico e del Neolitico trovate lungo la valle del Tamigi sino alla strage di Londonderry e a eventi solo immaginati (l’isola di Jersey, nella Manica, paradiso fiscale raso al suolo “nel 2017” da un’ azione collettiva). In piena coerenza con le linee guida di M. Gioni, Deller si produce anche in gesti pittorici infantili, da principiante dotto: un enorme, elementarissimo William Morris scaglia in laguna lo yacht “Luna” del miliardario Roman Abramovich, colpevole di ostacolare (nel 2011) la libera circolazione in prossimità dei Giardini. Visivamente disarticolata e illuminata a giorno, l’installazione è un tour concettuale e partecipativo allo stesso tempo tra i torti del potere e il desiderio (un po’ velleitario) di rivolta del popolo. Ogni sala di “English Magic” contiene diverse opere e offre l’occasione di una loro fruizione relazionale: la seduta davanti al video eponimo, “E.M.”, accoglie famiglie con bambini che apprendono la storia d’ Inghilterra, mentre in un altro ambiente viene offerto il canonico thè ai visitatori. D’ altronde è lo stesso Deller ad affermare “I’m not an activist, I’m not very good at that”, riducendo il valore politico anche di lavori precedenti. Più del contenuto vale la forma e, in questa direzione, il super-slowmotion utilizzato per filmare l’ iconico ed esoterico hen harrier (albanella reale/civetta) che apre e chiude i 14 minuti del video è molto più efficace e memorabile degli artigli con cui, per traposizione, una gru meccanica solleva la Range Rover nazionale, per poi rottamarla. La netta sensazione è che lo sciopero visto nel filmato o i disegni, anche questa volta elementari, dei soldati inglesi mandati in Iraq contino meno del sottotesto. Di ardua decifrazione, questo lascia poche e vaghe tracce di sé. Va forse colto solo dopo aver fatto decantare la forza delle singole immagini, visto che l’insieme è visivamente discontinuo. Dalle foto del tour britannico dello stesso Bowie, iniziato il 29/01/1972, un attimo prima della strage anti-I.R.A. di Londonderry, comprendiamo forse il valore moderatore e il tratto compassionevole dell’arte rispetto all’ oggettività inevitabile del potere, non certo il suo portato rivoluzionario. “I’m not an activist”, ci ricorda Deller e, dopotutto, sia lui che Bowie sono stati chiamati, come ogni altro artista presente in Biennale, a celebrare quello stesso potere che possono avere occasionalmente e virtualmente avversato in un album o in una performance del passato. Videoarte superba, disegni programmaticamente amatoriali, complesso approccio antropologico con resa finale relazionale: sicuramente uno dei padiglioni più importanti di tutta la Biennale 2013. 02/6/2013 |
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