Stretta tra l’incudine di Documenta 2012 e il martello delle grandi fiere
autunnali, la Biennale Arte 2013 di Massimiliano Gioni segna un
preciso e per certi versi epocale momento di discontinuità rispetto alle
edizioni del recente passato.
Riconnettendosi come fece il “Common Ground” di David Chipperfield al mondo
reale, quello irreversibilmente mutato dalla crisi iniziata da un lustro e
suscitando l’immagine del Curatore quale sismografo sensibile più
intento a mostrare la propria utopica iper-Collezione mentale che a far
sfoggio di un potere organizzativo illimitato, Gioni definisce una specie di
museo ecumenico aperto sia agli artisti non professionisti, ai
periferici e agli amateurs, sia alla dimensione ultrasensibile
dell’immaginazione, del sogno e della realtà psichica. Così facendo, si pone
all’opposto della routine consolidata di mostre e superesposizioni costruite
solo sulle art-stars e sulla spendibilità di artworks rintracciabili
in decine di grandi gallerie, dodici mesi all’anno.
Non ha alcun senso attaccare il direttore per un uso alternativo del potere
concessogli dalla posizione ricoperta: la storia dell’arte e quella delle
Biennali devono bypassare i bisogni contingenti di una critica
annoiata e incapace di svincolarsi dalla convinzione di appartenere a
sistemi metalinguistici che si parlano addosso e che, ormai da tempo,hanno
asserito l’alterità dal mondo as we know it di enclaves ricchissime,
ma alternative e opposte a ciò che per noi è lo Spirito del Tempo. Sembra
impossibile doversi ripetere, dal 2009, sull’ importanza dell’ approccio a
questa dissociazione tra bisogni di pochi ed esigenze espressive di molti.
Non basta ascoltare, o far risuonare, il mantra del “valore dell’oggetto
d’arte definito solo dalla sua valutazione di mercato”, dall’ ondivago
prezzo d’asta o dalle ancor più imprevedibili e schizofreniche scelte dei
collezionisti. I commentatori dell’arte hanno rinunciato da tempo a
un ruolo indipendente e/o realmente creativo e preferiscono evitare
totalmente l’analisi dei nuovi e/o sconosciuti esposti in Biennale,
limitandosi all’ossessivo scandaglio di questioni di metodo.
Berlinde De Bruyckere, Stefanos Tsivopoulos, Camille Hendrot, Ragnar
Kjartansson, Richard Mosse, Edson Chagas, Nicola Costantino, Mladen
Miljanovic, Kaspars Podnieks, Rashad Alakbarov, Vadim Zakharov, Petrit
Halilaj e Sarah Sze –uscendo dal padiglione internazionale- non devono solo
farsi strada tra nomi ingombranti quali Ai Wei Wei, necessarissima presenza
iconica e manifesto vivente di libertà espressiva, ma non sempre innovativo
(Padiglione tedesco), o Jeremy Deller, ma sono anche costretti a sperare
nella curiosità di qualche isolato storico dell’arte capace di uscire da
consolidate dinamiche di do ut des.
L’unico problema di metodo, semmai, è la durata della permanenza in
laguna degli inviati di grandi testate internazionali e nazionali: tre
giorni, al netto delle distrazioni, sono troppo pochi per giudicare
una mostra infinita, arricchita da un contorno tentatore d’inevitabili
eventi collaterali o privati (come non passare a visitare la riproposizione
di “When Attitudes Become Form”, tanto per fare un esempio?). Tutti sanno
che gli universi autoreferenziali viaggiano su yacht e si materializzano
solo alle esclusivissime feste dei palazzi sul Canal Grande e molti tra gli
esterni al sistema ambiscono ad entrarvi e ad essere “in” (mentre
altri devono rimanere out). Questo non basta, è un agire
troppo periferico e tristemente elitario, tipico di un’ élite cui Gioni
appartiene ai massimi livelli, se non al top assoluto inteso come vertice
intellettuale,ma dalla quale si stacca coraggiosamente nel momento in cui
pensa e produce “Il Palazzo Enciclopedico” e i rivoli di discorso che ne
conseguono o ne dovrebbero conseguire. Grande merito, quindi, al Direttore,
ma è inevitabile, per il prossimo futuro, cercare di trattenere in città
questa schiera di analisti svogliati, viziati e vetusti per almeno
5/7 giorni e costringerla obbligatoriamente a visitare tutti i
padiglioni di Giardini, Arsenale e Centro Storico. La scoperta di nuovi
talenti, nascosti in un piccolo spazio in fondo a calli e campielli quasi
inaccessibili, non può che suscitare sorpresa e infinito piacere
intellettuale; la lettura delle recensioni mainstream, invece,
produce solo un vago, ma intenso senso di rigetto.
15/6/2013
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