è
possibile che il bel lavoro video di Anri Sala necessitasse di una
sequenza di spazi più ampi rispetto a quelli del Padiglione della Francia;
non è escluso che lo scambio fra i due paesi fosse già stato pattuito anni
fa: sta di fatto che, complice anche una nostra particolarissima
predisposizione critica verso Romuald Karmakar e un contingentissimo rigetto
verso l’onnipresenza di Ai Wei Wei, l’approccio verso l’esposizione
attribuita alla Germania era già in partenza segnato da un netto
pregiudizio.
“This is Tomorrow”, titolo della collettiva, in realtà vola altissima
ed è sulla carta assai stimolante, perché
-
invertendo i
padiglioni, parlando di eunuchi, facendo convivere diversità- mira a
raccontarci il futuro di un globalismo che non viene imposto dall’alto, ma
che fonde (nel caso della Singh una fusione corporea, riguardante l’identità
sessuale scolpita nel corpo) e unisce il melting pot partito dal basso in un
corteo di ultimi e paria teso all’abbattimento delle barriere.
è
la rigida
divisione in quattro, la totale e contraddittoria assenza di dialogo (anche
allestitivo, per essere precisi) tra gli spazi e una sensazione di giudizio
a priori, di mancanza di fluidità critico-interpretativa che lasciano
perplessi. Volendo essere pedanti, ciascuno porta la propria “enciclopedia”
-
e quella della Singh è di gran lunga la più interessante
- o il proprio
accatastamento (i fotografatissimi sgabelli di Ai Wei Wei, opera non
eccelsa), ma poi se ne sta per conto suo. Susanne Gaensheimer sarebbe
la responsabile del buono e del meno buono del progetto “T.I.T.”: la sua
ansia di cooperazione sovranazionale ed ecumenismo si scontra con
l’irriducibile schematismo teutonico. L’ eunuco che passa da una foto
all’altra di Dayanita, in 36 facies retroilluminate, affascina e turba,
ridotto a vivere in un cimitero di New Delhi, paria tra i paria dei paria,
ultimissimo essere del mondo celebrato nel padiglione di chi il mondo, de
facto, lo domina. C’è un ché di compassionevole e distaccato, una pietas non
empatica, nient’altro che raccontativa nelle scelte della curatrice. Ancora
una volta, è tutta responsabilità della Gaensheimer, certo non della
fotografa indiana, cui va invece il nostro plauso.
In definitiva: enciclopedismo a compartimenti stagni.
04/6/2013
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