biennale danza 2012

 

Erna Ómarsdóttir / Shalala

We saw monsters (nuova versione)

Teatro Piccolo Arsenale 15/16 giugno h 22

 

di Gabriele FRANCIONI

scheda / voto: 28/30

Nursery Cryme

Quasi in transizione dalla Biennale Teatro di Rigola a quella di Ismael Ivo, WE SAW MONSTERS e TOO MORTAL, per quanto l’uno agli antipodi dell’altro, riportano in scena qualcosa che si era già visto otto mesi fa.

La brevissima, folgorante coreografia da camera di Shobana Jeyasingh ragiona, come già Jan Lauwers nel suo THE SLOW LIE, segmento de I SETTE PECCATI allestito al Conservatorio B.Marcello, sulla spazialità evocativa e misteriosa degli interstizi tra i banchi di una chiesa o sala da concerto, riempiendo la sequenza regolare di vuoti con l’imprevedibilità corporea dei performer.

Più profondo, invece, il tratto comune che lega la visionarietà pre-nordica del belga Jan Fabre - PROMETHEUS LANDSCAPE II -  all’apparato iconografico e mimico sul quale lavora l’islandese Erna Omarsdottir. Ogni ragionamento politico scompare, svanendo nella schematica traduzione scenica e pochissimo coreografica di sociopatologie quotidiane, ma l’estremismo visivo e sonoro è il medesimo. Descrivendo in forma cantata o narrata la genesi e le gesta del moderno serial killer, paladino di una rivoluzione agìta nel cuore del focolare domestico, dove l’altare dei Lari e ei Penati viene presto sostituito da vasi con occhi o feti immersi nella formaldeide, la Omarsdottir trascina con cura lancinante i topoi delle fiabe nordiche nel desertificato paesaggio di segni dell’orrore contemporaneo. Salta agli occhi, nelle scene fisse, la medesima attenzione per la simmetria di derivazione pittorica, che là richiamava Leonardo da Vinci e qui, confusamente, l’iconografia cristologica in toto, salvo un ben distinto Mantegna, ma con la nuca rivolta verso chi guarda.

Quindi un Lamento sul Cristo morto rovesciato, volendo.

 

Ed Gein Death Metal Picture Show

WE SAW MONSTERS non è affatto male: affascina in particolar modo la sostituzione, nella narrazione della stessa Omarsdottir, dei canonici orchi grimmiani col monstrum contemporaneo, cui vengono dati nomi e cognomi presi di peso dalla cronaca nera più o meno recente. 

Ascoltando con attenzione la traccia vocale immersa nelle macerie sonore in combustione di un death metal ben poco satanico, si colgono precisi riferimenti a Jeffrey Dahmer (il “Mostro di Milwakee”), che congelava parti anatomiche di ragazzi seviziati post-mortem; a Ed Gein (“the Plainfield Ghoul”), collezionista di brandelli ginecologici poi disposti a mo’ di arredo domestico sostitutivo di un disadorno ambiente affettivo in cui era cresciuto, tra ossessive letture di passi biblici, prevedibili frustrazioni sessuali e complessi edipici come piovesse; a Susan Atkins, adepta di Charles Manson e responsabile diretta dell’assassinio di Sharon Tate, cui sottrasse il feto di otto mesi nel primo raid dell’agosto del 1969.

A ogni assassinio viene associata, o giustapposta, una matrice psico-patologica, ossessivamente fatta risalire a carenze affettive adolescenziali, ma ciò che conta è questa ipnotica elencazione di episodi di cronaca resa in forma di cantilena musicata.

Ancor più significativo è il riferirsi diretto e indiretto a un’altra, esplicita matrice (iconografica) delle scene o (testuale) per la nenia cantata, ovvero quella del cinema nella sua connotazione di genere Horror.

Ed Gein induce sia Norman Bates di PSYCHO che Leatherface di TEXAS CHAINSAW MASSACRE; Sharon Tate è ovvio nesso tra il testo e ROSEMARY’S BABY e tutto il Polanski meno letterario.

Le due gemelle in grembiulino rosa, calzettoni bianchi e lunghi capelli platinati, dal canto loro, provengono sia da Diane Arbus che da SHINING, virate verso tonalità pastello, ma pensate secondo i canoni di una sorta di estetica da concerto metal, dove roteare la testa mostrando la chioma vichinga è preciso segnale di potenza nel codice non scritto di una (sotto?)cultura diffusissima dalla Scandinavia in su.

Musicalmente si colgono riferimenti anche ai lugubri Rammstein, di lynchiana memoria (erano nella colonna sonora di LOST HIGHWAYS).

 

We saw few dancing

C’è poca danza in WE SAW MONSTERS, che starebbe comodamente nella programmazione di un’ipotetica, futura Biennale delle Arti Performative, anche se certi movimenti e alcuni corpi visti sulla scena mostrano una chiara e talvolta notevole tecnica, peraltro, appunto, appena intravista.

La regista allestisce una sequenza di scene cucite dalla presenza delle orrorifiche gemelle, che contrappuntano la voce narrante, quasi fossero (state) direttamente partecipi dei crimini familiari e ad essi volessero fornire anche un contrappeso visivamente leggero e casto, mentre un’alta figura in nero manovra una falce come - occorre sottolinearlo - geniale strumento per costruire gesti coreografici: il più ballerino tra tutti, di bianco vestito, si fa vittima e offre il capo per le volute disegnate in aria dalla lama ricurva, occasionalmente ingoiata per alzare il tasso di gore dello spettacolo.

Udiamo chiaramente il respiro, e forse anche il suono prodotto dal movimento diaframmatico, delle due ragazze, che esibiscono una notevole perizia nei loro piegamenti parossistici, negli intrecci molto ritmati che, in un’occasione, le portano a simulare un abbozzo di copula, e persino nella camminata all’indietro in posizione similragno (altra citazione, questa volta de L’ESORCISTA).

Finiscono, poi, quasi decapitate sul fronte scena, dopo un tragitto percorso con movenze e chioma richiamanti RINGU (Hideo Nakata, 1999, Giappone).

Il finale cui si accennava, forse discretamente autoironico, porta tutto al parossismo grandguignol, dove il volume della banda sonora e la quantità di materia ematica sono inversamente proporzionali alla ricchezza espressiva.

 

We saw monsters (nuova versione): direzione artistica Erna Omarsdottir, ideazione Erna Ómarsdóttir, Valdimar Jóhannsson, interpretazione e collaborazione alla performance Erna Ómarsdóttir, Valdimar Jóhannsson, Sigrígridur Soffía Níelsdóttir, Sigtryggur Berg Sigmarsson, Ásgeir Helgi Magnússon e Lovísa Ósk Gunnarsdóttir, drammaturgia Karen Maria Jónsdóttir, musica Valdimar Jóhannsson, costumi Gabríela Fridriksdóttir, Hrafnhildur Hólmgeirsdóttir, luci Larus Björnsson, Sylvain Rausa, suono Lieven Dousselaere. Produzione shalala ehf, Le CNDC di Angers - progetto «accueil studio/Ministère de la Culture et de la Communication», The National Theater of Iceland, Reykjavíks Artfestival, Città di Kópavogur, produzione/distribuzione Esther Welger-Barboza, in coproduzione con la Biennale di Venezia, Berliner Festspiele - Spielzeit’europa nell’ambito del progetto ENPARTS – European Network of Performing Arts, con il sostegno del Programma Cultura della Commissione Europea, con il sostegno del Ministero della cultura islandese e WP Zimmer/Antwerpen, PAF e CC De Warande in Turnhout

foto © Bjarni Grimsson

SITO UFFICIALE

 

biennale danza 2012

awakenings
08 giugno > 24 giugno 2012