BIENNALE
ARCHITETTURA 2010
12. EDIZIONE
29 agosto/21 novembre 2010
Giardini, Arsenale, Centro Storico

04: Il Parco.
I titoli di opere e mostre, si
sa, sono spesso fuorvianti, velleitari, vaghi, poiché contengono in nuce
solo l’intenzione di autori e curatori, la traccia poi difficile da
percorrere, per lo iato che separa progetto e realizzazione pratica,
contestualizzata. Va peraltro riconosciuta, a partire dall’edizione del
2008, sia una maggiore aderenza ai presupposti (allora era l’“Out there”),
sia una certa continuità tra l’operato dei direttori, al punto che Betsky e
Sejima potrebbero unirsi e generare un affascinante “Là fuori ci s’incontra
nell’Architettura”.
è
l’idea di Parco, sempre ritornante nell’affabulazione e nella pratica di
Sejima, che giustifica il “fuori”, l’esterno esperito come tale o intravisto
grazie alle trasparenze degli edifici, comunque tecnologici, dell’architetta
giapponese. Un’idea di luogo dove potersi raccogliere in meditazione ed
approfondire dimensioni private pur rimanendo, senza soluzione di
continuità, in pubblico, con gli Altri, pronti a condividere la propria
esperienza di singoli.
La direttrice allestisce quindi una Biennale, almeno per gli spazi che le
competono (Padiglione Internazionale e parte dell’Arsenale), che nega
l’iconicità ridondante delle star - Biennale da noi
definita Metonimica, contraria anche alla metalessi delle maquettes
- e che si presta ad un attraversamento leggero e condiviso,
a mo’ di parco composto dalle atmosfere di architetture site altrove o per
altri luoghi concepite.
A mo’ di manifesto e - per una volta coerente
- dichiarazione d’intenti, Sejima utilizza lo spazio
autocelebrativo concessole rendendolo celebrazione (anche qui: condivisa)
del pensiero giapponese in materia di costruito.

Non solo, quindi, il video di Wim Wenders sul Rolex Learning Center degli
stessi Sejima & Nishigawa (Studio SANAA, fresco di Pritzker Prize 2010),
inaugurato lo scorso marzo presso l'Ecole Polytechnique Fédérale di Losanna,
ma anche un omaggio al suo maestro Toyo Ito, presente con alcuni lavori -in
forma di spaccati tridimensionali degli interni, ariosi come possono esserlo
ambienti bucherellati a mo’ di groviera bianco - e
presente fisicamente al vernissage di fine agosto.
A corredo finale di questa intensa parata nipponica, la scelta di assegnare
il “Leone d’Oro alla memoria” a Kazuo Shinohara, scomparso quattro anni fa e
anticipatore della linea giapponese per un’architettura collettiva.
In pratica Sejima sottolinea come l’impronta conferita alla Biennale
(Atmosfera, Parco, Condivisione) derivi da una tradizione nazionale rispetto
alla quale lei intende porsi come vertice più avanzato.

05: Less is More…
I 43 studi che espongono
all’Arsenale (più 3 artisti) s’interrogano quindi su come dare
consequenzialità all’impostazione conferita alla Biennale dalla direttrice e
nella maggior parte dei casi in base ad essa sono stati scelti. Per Sejima
il concetto di post-.visualità dell’architettura, da cui la difficoltà
descrittiva con i tradizionali mezzi di rappresentazione grafica, (le)
deriva da un incrocio di tradizione giapponese e modernità che punta a
superare i limiti della comunicazione solo internettiana. L’incontrarsi
fuori sembra voler dire, paradossalmente, come la vera architettura stia tra
gli edifici, nell’interstizialità impossibile da tradurre bi o
tridimensionalmente (sotto forma di prospetto, sezione, pianta).
Il plan livre lecorbusieriano era altro e puntava principalmente a
dimostrare le possibilità della nuova tecnologia (le strutture portanti per
punti, cioè i pilastri in calcestruzzo armato da cui aggettano a mo’ di
terrazzi i solai resi piani abitativi), che liberava l’architetto dai muri
portanti perimetrali e apriva nuove frontiere per facciate vetrate, comunque
non in muratura.
Sejima, oltre settant’anni dopo, va ben oltre: i suoi sono diaframmi quasi
immateriali da attraversare, che invitano il passante a un fugace percorso
interno (si vedano, ad esempio, il 21st. Century Museum of Contemporary Art
di Kanazawa e l’EPFL ).
Se Le Corbusier, insomma, voleva farci star dentro per poter godere, da
abitanti, della vista esterna e degli spazi interni infinitamente più liberi
rispetto al passato, la titolare dello Studio SANAA ribalta in un certo
senso il punto di vista: il centro non è più nel corpo di fabbrica che
progetto, ma fuori da esso, altrove, a lato, lì vicino.
L’edificio va a costituirsi come temporaneo spazio di attraversamento, parco
sensoriale, assolutamente non impositivo e radicalmente aniconico.

06: …more or
less.
La trasparenza non è di per sé
sinonimo di leggerezza.
L’intera opera di Herzog & De Meuron (non presenti alla Biennale) ne è piena
dimostrazione, anche se lo slancio iconico dei due svizzeri trova spesso le
proprie radici in assunti autopromozionali, se non in alti valori simbolici,
sui quali si basa l’intera poetica dello studio: si pensi alla sede della
“Ricola” a Basilea e allo stadio olimpico di Pechino, in assoluto due tra le
loro opere più note.
Lo stesso Jean Nouvel - assente a Venzia
- si chiude di frequente in un’autoreferenzialità degli
spazi che sembra o risulta effettivamente poco dialogante, mentre è
comprensibile che il Leone d’Oro alla carriera sia stato assegnato da Sejima
a Rem Koolhaas, assoluta archistar degli ultimi 20 anni, ma unico e
inimitabile per capacità di contestualizzare le proprie opere, rendendole di
fatto oggetti di discussione/dibattito aperti al pubblico, quasi manifesti
concreti di un’idea di architettura fatta dalla Polis per l’homo politicus.
La giapponese e l’olandese sono molto vicini nell’idea di Nuova Comunità da
rifondare nell’era di Internet, rendendo possibile il cortocircuito tra la
dimensione privata e quella pubblica.

Anche il ruolo di Perrault all’interno di questa Biennale, per quanto
confinato al Padiglione della Francia, è assai importante nell’aiutare a
tracciare le linee del dibattito urbanistico come luogo dove ricucire i
rapporti tra individuo e territorio - l’idea della
Nazione-Città transalpina, ormai pienamente formata, dopo l’espansione
infinita di almeno 5 realtà metropolitane - in
sintonia con la visione della direttrice. Dominique Perrault è anche autore
di opere che, come radici e albero, scelgono la verticalità, piuttosto che
l’orizzontalità di Sejima, per generare moltiplicazioni di senso e,
soprattutto, di SUPERFICI.
Dalla Biblioteca Nazionale di Parigi alla piscina più velodromo di Berlino,
sino alla stazione di Locarno e all'Università della Donna Ewha a Seoul,
l’architetto francese è riuscito a rendere poesia la necessità di recuperare
spazi in un contesto di saturazione e affollamento globali, planetari.
Dobbiamo trovare vie alternative, sembra dirci, alla mera espansione
orizzontale o verticale: la prima deve diventare struttura organica,
compatta e collaborativa; la seconda, limitata al singolo edificio, deve
portare ad aggetti continui e infinite moltiplicazioni di piani, a costo di
far assomigliare la costruzione a una radice/ vegetale, o anche animale, che
scava il terreno e si nasconde sotto il livello zero del piano stradale
(Berlino/Seoul), oppure ai rami di un albero che sporgono verso l’esterno
(Locarno).

07: Motus Terrae.
Sejima e Perrault, figure
centrali della Biennale 2010, hanno quindi dettato i principi base di
un’architettura che, nel momento in cui si auto-nega, apre le porte ai
cittadini del mondo, quelli riversi per le strade dopo i terremoti del Cile
e dell’Abruzzo; quelli in fuga dal rischio climatico (i Climate Refugees),
quelli semplicemente in esubero rispetto alle possibilità di accoglienza del
loro paese d’origine.
In epoca di risistemazione del pianeta, che vive e ha diritto di vivere
anche nelle più tragiche e macroscopiche forme in cui ciò può rendersi
visibile all’occhio dell’uomo, il singolo, la collettività e gli architetti
devono rimanere costantemente sintonizzati sulle problematiche sollevate, ad
esempio, da Perrault e Sejima, cercando, gli ultimi, di interpretarle senza
far ricorso alla potenza delle forme.
Semmai, alla loro leggerezza.
10 ottobre 2010 |