UNDERSKIN

biennaledanza2006

 

di Gabriele FRANCIONI

 

theatre Bulgarian Army & Theatre Ulitzata (Bulgaria)

Commedia del servitore

Ispirata a Goldoni, Molière, Cervantes

Venezia, 23 luglio 2006


Drammaturgia Natacha Kourteva - regia Stefan Moskov - con Nikola Dodov (Don Quichotte), Kamen Donev (il critico, Federico Rasponi, Don Juan), Christo Garbov (Pantalone, Leporello), Nentcho Iltchev (il servitore), Viara Kolarova (Smeraldina, la capra), Stefania Koleva (Donna Elvira, la donna già consumata, la religiosa), Adriana Nayadenova (Beatrice), Maya Novosselska (Clarice, Sancho Pança), Gueorgui Spassov (Florindo), Borislav Stoilov (Dottore), Valentin Tanev (Arlecchino), Stefan Valdobrev (un impiegato d’ufficio, Silvio, Principe danese che sta svolgendo un’inchiesta privata sulla morte di suo padre) - musiche originali dal vivo Antony Dontchev - scene Plamen Bonev - costumi Svila Velitchkova - luci e video Ivan Tonev - animazioni video Vladimir Chichkov - produzione Theatre Bulgarian Army & Theatre Ulitzata (Bulgaria) - in coproduzione con Festival d'Avignon, Theorem, La Filature - Mulhouse et Rose des vents - Villeneuve d'Ascq (France).

Partendo dal topos goldoniano del servo di due padroni e moltiplicandone quasi all' infinito i fattori numerici (sino a "n" servitori per infiniti padroni, come tra l'altro accade in un momento della commedia), il "Theatre Bulgarian Army & Theatre Ulitzata" mette in scena una visione sinottica dell'intera... Cultura dal punto di vista dei perdenti, della categoria-servo tout-court, che ne riduce le vette, ne smussa il tono alto, sino ad esiti per niente rassicuranti, men che meno comici.
L'idea-cardine è che le vere forze vengano dal basso, come in molto teatro antico e naturalmente nel referente rappresentato da Goldoni stesso: la vera rivoluzione (estetica?) è sempre agita partendo dal triviale inteso come sovversione, dal popolo e dal sesso uniti in simbiotica arte metamorfica.
Dopo una prima velocissima e frenetica sezione di esposizione del tema, che rende triviale tutto e tutto sbeffeggia con i mezzi della commedia dell'arte (E.T., la Carmen di Bizet, il capoccione di Zinedine Zidane, Hitler, il Comunismo: "Meglio servo che comunista: due servi sono due lire e quindi due birre!"), sfruttando lo scambio delle parti e delle voci, ma anche il calembour multilinguistico di bulgaro, italiano e inglese frullati a mille all'ora e consegnati al pubblico sub specie di frizzi e lazzi ma anche di traduzioni proiettate ai lati del palco, procediamo dall'idea iniziale di un impiegato anche lui epitome della subalternità e spinto a diventare "altro" (un alpino, insomma, un arrampicatore) fin dentro un viaggio saltellante e sicuro al seguito di Arlecchino, Leporello e Sancho Panza.

Il regno dei "numeri due", o "due di picche", che poi in realtà si sostituiscono al padrone e realizzano una rivoluzione senza esiti.
La performance, anche fisica e vocale, oltre che mimica, è notevole e porta ripetutamente sulla scena quasi una decina di attori cui vengono affidate una miriadi di micro-parti giocate col corpo, i costumi policromi, l'uso di oggetti snodabili per ricreare strumenti, che all'inizio sconcertano per effetto di una gratuità poi progressivamente destinata a dissolversi.

Arlecchino fa capolino molto presto, intervenendo a riprendere le trame del testo sparpagliato un po' ovunque: mentre un Macbeth dileggiato dal bassissimo è colto nella coazione a ripetere l'esasperante interrogazione shakespeariana e quindi viene ucciso dal gruppo dei servi stufi di tanto intellettuale esistenza, la figura comica italica per eccellenza e il necessario corredo veneziano di Pantalon (e omaggi alla città) mettono un po' d'ordine e ci portano dentro le altre parti dello spettacolo.

Il discorso, quindi, si alza e le forme della rappresentazione si acquietano, stratificando l'erranza della vita in variabili più "serie", pur non perdendo il taglio caustico. Un critico di teatro, molto astratto, fa da moderatore, comunque ineffettuale. Il testimone viene raccolto da Leporello, che fornisce una lettura estremamente pertinente: il mio padrone muore di sesso, io ne traggo linfa vitale.

è la differenza nell'approccio del popolo che conta: se Don Juan va verso i sensi perché stufo dell'alta società e quindi per difetto ("Mi manca l'odore di cipolla!"), Leporello è un creatore di vita e di testo, pieno di voce e si autopresenta così: "Posso fotterla?".
Passa all'azione impartendo alla contadinella simil-Zerlina una specialissima lezione di canto, che deve partire dallo stomaco (la Santa Pancia, le urgenze di base): una pienezza tradotta in sesso per eccesso di linfa vitale.
Esilarante ed esplicativa tutta la scena: la donna produce un suono tipo "Les Voix Bulgaires" (les voix vulgaires?) mentre lavora; poi, nell'atto della copula, diventa un soprano leggero d'alta arte.

Don Giovanni muore fuori scena e qualcuno legge, dal famoso libro dapontiano delle sue conquiste, anche quella di una pecora.
Più lento e visualmente ricco il segmento finale: due pannelli centrali si uniscono a ricevere la proiezione del cavallo di Don Quijote, che altro non è se non un vuoto ulteriore dopo quello di Don Juan.
Sulla scena buia, Sancho Panza gonfia letteralmente l'annoiato cavaliere errante, diventato tale per insoddisfazione (altra concavità passiva), frustrato, bastonato dai servi e reso sul palco magnificamente attraverso la natura afona dei suoi proclami: un suono sintetizzato li sostituisce sino alla disperazione.
Eppure, mentre si va verso la conclusione, il senso della sconfitta globale prende forma: i padroni, morti, battuti o incapaci, sono i veri dipendenti.
La loro fine, a conclusione di ogni rivoluzione, toglie ogni possibilità di lavoro, vita, senso ai servi che hanno ribaltato i ruoli: ecco la necessità di rianimare Don Chisciotte gonfiandolo a mo' di umanità pneumatica residuale, ma indispensabile.