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Il
vasto panorama del cinema documentaristico è fatto di forti contrasti, di
stili spesso molto diversi. L’ambiguità del mezzo espressivo, sempre in
bilico tra fedeltà al dato di fatto e finzione cinematografica, ha dato vita
anche a scelte molto estreme. Fra i numerosi artisti che si sono votati con
abnegazione alla causa del realismo o morte, spicca la figura di Andy Warhol,
non esattamente spinto da una vocazione ben definita ma comunque artefice di
ritratti del suo tempo innegabilmente veritieri. Come la maggior parte degli
artisti in campo figurativo, Warhol soffriva di un’incontenibile attrazione
verso qualsiasi tipo di immagine, nel suo caso preferibilmente kitsch,
esagerata, vagamente di cattivo gusto. Consapevole che la sua attività di
pittore non poteva soddisfarlo pienamente cominciò ad affidarsi ad una
macchina da presa (16 mm). Dalle prime esperienze nel 1963 fino alla fine
degli anni sessanta Warhol diresse un numero infinito di film della durata
variabile dalle 25 ore ai 3 minuti. Il suo fu in un certo senso un percorso
dal documentario underground sperimentale, caratterizzato dal totale rifiuto
di trame di ogni genere e di caratterizzazione dei personaggi, a film più
strutturati, più classificabili come commerciali. Lo spartiacque è “The
Chelsea girls” (1966), raccolta di materiale eterogeneo girato fra
appartamenti privati e hotel Chelsea concernente le star principali che
popolavano la “Factory” in quel periodo. Era pensato per essere mostrato
contemporaneamente su due schermi, nonostante le scene non fossero connesse
fra loro. Fu il primo film uscito dalla Factory a conquistare il circuito
del cinema tradizionale ed a riscuotere un ampio successo commerciale,
aprendo una nuova corrente. I
film che seguirono si divisero in un periodo muto (di cui anche “Sleep” fa
parte) ed uno sonoro e furono caratterizzati principalmente dalla scelta di
concentrarsi su particolari eventi per poi lasciare che questi prendessero
una forma autonomamente davanti alla macchina da presa. Che spesso la
vicenda non portasse da nessuna parte e non assumesse nessun significato
interessante era indifferente. Detta legge la centralità dell’immagine ad
esempio in “Eat” che Warhol definì un film sul guardare qualcuno che mangia.
Le scene in cui Robert Indiana assapora un fungo il più lentamente possibile
vennero rimontate in disordine così da creare una discrepanza fra il tempo
impiegato dal protagonista a mangiare e la quantità del fungo rimanente.
Stesso non-sense sottende “Haircut”, montaggio di scene ripetute da diverse
angolazioni di Billy Name nell’atto di tagliare i capelli a Johnny Dedd.
Warhol abbandonò le sue superstar per una parentesi dedicata al simbolico
Empire State Building ed alla sua risposta agli agenti atmosferici ed al
cambiamento di luce nello scorrere della giornata. Il film completo dura,
infatti, otto ore a partire da sorgere del sole. L’intenzione era
dichiaratamente che la macchina da presa lavorasse per il regista. Nel
cinema di Warhol è infatti lo strumento a compiere le scelte: è grazie alla
sua presenza che le persone inevitabilmente recitano, interpretano qualsiasi
cosa, non possono rimanere indifferenti. Nel momento in cui ogni azione è
inseguita dall’implacabile occhio cinematografico, diventa opera d’arte,
degna di interesse per il solo fatto di essere sotto un riflettore. Ciò che
avviene è realtà pura proprio perché non dettato da una sceneggiatura o è
finzione perché di fronte ad un obiettivo non si è mai se stessi? Indeciso
se trovare una soluzione a questo tipo di questione, Warhol decise
semplicemente che avrebbe tentato di filmare ogni minuti di ogni giorno
delle altrui vite. In quel periodo filmò circa un film a settimana,
materiale che rimase in vita come prodotto indipendente o che venne
inglobato in altre produzioni (ad esempio “****” o “The Factory diaries”),
come appartenente ad un archivio di immagini polivalente cui attingere a
piacimento. I lavori di Warhol testimoniano un continuo esaltare e svilire
la produzione, come se i pezzi di vita raccolti non riuscissero mai a
restituire un senso compiuto. Ogni film era un tassello di un puzzle dai
pezzi troppo simili: tutte le combinazioni potevano risultare esatte ma il
disegno completo si lasciava desiderare. Ma forse il senso generale (può
sembrare retorico) era proprio l’assoluta mancanza di senso. Le stesse
superstar erano individui non indipendenti, la cui unica ragione di essere
era nel mondo argentato della Factory, come risposta frivola ed eccessiva
all’incertezza di un decennio e di una società particolarmente in crisi.
Inevitabile per Warhol dedicare una parte della propria produzione al suo
personalissimo star-system e, perché no anche ai frequentatori più o meno
occasionali della Factory. La collana di “Screen test” nacque in realtà per
caso. Il primo test fu il risultato piuttosto fortuito della richiesta di
Gerard Malanga di essere filmato in primo piano in diverse posizioni, ma
comunque immobile, per poi poter selezionare un’immagine da stampare ed
utilizzare come icona pubblicitaria per le letture delle sue poesie. Da quel
momento (1964) per i due anni successivi chiunque avesse potenzialità
artistiche venne immortalato in celluloide. Le modalità erano sempre le
stesse: all’ospite della Factory veniva chiesto di sedersi di fronte alla
macchina da presa tentando di restare il più immobile possibile, evitando
addirittura di sbattere gli occhi per circa tre minuti (a detta di Malanga i
minuti sarebbero stati 15). Le reazioni dei protagonisti erano molteplici:
chi scoppiava a ridere dopo pochi secondi, chi per mantenere la posizione
diventava visibilmente insofferente, chi nascondeva malamente una sensazione
di terrore nel trovarsi soli di fronte a sé stessi di fronte al’implacabile
occhio. Come in un imprevisto test attitudinale i malcapitati sapevano di
essere spiati nelle loro reazioni inconsce, riflettevano su come apparire
intelligenti, interessanti, meglio degli altri pur non facendo assolutamente
niente. Nei primi tre Screen test la prassi dell’immobilità e del silenzio
non aveva ancora preso piede; il fidato sceneggiatore Ronald Tavel
stuzzicava il soggetto del suo studio con domande provocatorie in modo che
questo reagisse non solo a parole ma anche con un linguaggio del corpo non
ordinario. Vittima principale di questo crudele siparietto fu Mario Montez,
un travestito che bazzicava nella scena underground come presunto attore.
Nel corso del test la sua pazienza e dignità vengono svilite sotto i colpi
implacabili delle parole di Tavel che inizialmente gli comunica di essere
stato scelto come gobbo di Notre Dame nel prossimo film diretto da Warhol,
per poi degenerare progressivamente fino alla richiesta conclusiva di
aprirsi i pantaloni (cosa che probabilmente Montez fece; tuttavia, causa la
camera fissa sul suo primo piano, non ci è dato saperlo). Un ipotetico
spettatore percepisce un senso di alienazione che pervade la scena, di pietà
per il protagonista che si trova disorientato, spesso sembra non capire
quello che gli viene detto, è visibilmente vittima del bruciante desiderio
di far parte della crew di Andy Warhol e crede che quel breve colloquio con
una macchina da presa, dove il maestro è presente solo in veste di ideatore,
possa cambiare la sua vita. Lo screen test di Mario Montez testimonia la
violenza del mezzo cinematografico sull’identità reale di un individuo,
portata all’estremo dalla simbolica assenza del regista, che in sé concorre
ad accrescere il disagio ed allo stesso tempo dichiara una precisa poetica
di potere assoluto al mezzo. |
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