Il documentario secondo Andy Warhol

di Valeria STOPPELLI

Il vasto panorama del cinema documentaristico è fatto di forti contrasti, di stili spesso molto diversi. L’ambiguità del mezzo espressivo, sempre in bilico tra fedeltà al dato di fatto e finzione cinematografica, ha dato vita anche a scelte molto estreme. Fra i numerosi artisti che si sono votati con abnegazione alla causa del realismo o morte, spicca la figura di Andy Warhol, non esattamente spinto da una vocazione ben definita ma comunque artefice di ritratti del suo tempo innegabilmente veritieri. Come la maggior parte degli artisti in campo figurativo, Warhol soffriva di un’incontenibile attrazione verso qualsiasi tipo di immagine, nel suo caso preferibilmente kitsch, esagerata, vagamente di cattivo gusto. Consapevole che la sua attività di pittore non poteva soddisfarlo pienamente cominciò ad affidarsi ad una macchina da presa (16 mm). Dalle prime esperienze nel 1963 fino alla fine degli anni sessanta Warhol diresse un numero infinito di film della durata variabile dalle 25 ore ai 3 minuti. Il suo fu in un certo senso un percorso dal documentario underground sperimentale, caratterizzato dal totale rifiuto di trame di ogni genere e di caratterizzazione dei personaggi, a film più strutturati, più classificabili come commerciali. Lo spartiacque è “The Chelsea girls” (1966), raccolta di materiale eterogeneo girato fra appartamenti privati e hotel Chelsea concernente le star principali che popolavano la “Factory” in quel periodo. Era pensato per essere mostrato contemporaneamente su due schermi, nonostante le scene non fossero connesse fra loro. Fu il primo film uscito dalla Factory a conquistare il circuito del cinema tradizionale ed a riscuotere un ampio successo commerciale, aprendo una nuova corrente.
Prima di questo regnavano il gusto voyeuristico ed una perversa vocazione per il cinema verité e per la rappresentazione implicita di un mondo alternativo regolato da leggi a parte, di cui Andy Warhol era l’indiscusso re. Lo spunto per il primo film riflette un intento altamente documentaristico nonché altruistico. In un epoca (gli anni sessanta) dove l’iperattività condannava chiunque ad un moto perpetuo e riposare cominciava a diventare un’abitudine obsoleta, Warhol catturò in sei ore di pellicola l’atto del dormire come preziosa testimonianza per i posteri. Nel luglio del 1963 si piazzò nell’appartamento newyorkese di John Giorno (ironica coincidenza?) e, mantenendo la camera fissa per tutta la durata delle riprese, studiò il sonno del suo soggetto tralasciando l’inserimento di altri elementi, come rumori o musica. Successivamente si dichiarò parzialmente insoddisfatto del risultato raggiunto: il film per assicurare un maggiore grado di verosimiglianza sarebbe dovuto durare otto ore, la durata standard del sonno notturno di un uomo normale. Pur nella sua semplicità “Sleep” contiene già molte delle tematiche del primo cinema warholiano, rintracciabili anche nelle celeberrime opere pittoriche: la noia, la reiterazione a tempo indeterminato di azioni insignificanti, la banalità ironica degli spazi intercambiabili. Tutto questo si arricchisce del potere del mezzo cinematografico. Lunghi piani sequenza intervallati a tagli arbitrari concorrono a restituire allo spettatore un senso di alienazione. Spettatore le cui esigenze, fra l’altro, sono totalmente ignorate. La sola durata del film testimonia l’indifferenza alla questione dell’immedesimazione del pubblico, fondamento della riuscita di un film. “Sleep” risulta essere un film sperimentato in prima persona più che guardato.

I film che seguirono si divisero in un periodo muto (di cui anche “Sleep” fa parte) ed uno sonoro e furono caratterizzati principalmente dalla scelta di concentrarsi su particolari eventi per poi lasciare che questi prendessero una forma autonomamente davanti alla macchina da presa. Che spesso la vicenda non portasse da nessuna parte e non assumesse nessun significato interessante era indifferente. Detta legge la centralità dell’immagine ad esempio in “Eat” che Warhol definì un film sul guardare qualcuno che mangia. Le scene in cui Robert Indiana assapora un fungo il più lentamente possibile vennero rimontate in disordine così da creare una discrepanza fra il tempo impiegato dal protagonista a mangiare e la quantità del fungo rimanente. Stesso non-sense sottende “Haircut”, montaggio di scene ripetute da diverse angolazioni di Billy Name nell’atto di tagliare i capelli a Johnny Dedd. Warhol abbandonò le sue superstar per una parentesi dedicata al simbolico Empire State Building ed alla sua risposta agli agenti atmosferici ed al cambiamento di luce nello scorrere della giornata. Il film completo dura, infatti, otto ore a partire da sorgere del sole. L’intenzione era dichiaratamente che la macchina da presa lavorasse per il regista. Nel cinema di Warhol è infatti lo strumento a compiere le scelte: è grazie alla sua presenza che le persone inevitabilmente recitano, interpretano qualsiasi cosa, non possono rimanere indifferenti. Nel momento in cui ogni azione è inseguita dall’implacabile occhio cinematografico, diventa opera d’arte, degna di interesse per il solo fatto di essere sotto un riflettore. Ciò che avviene è realtà pura proprio perché non dettato da una sceneggiatura o è finzione perché di fronte ad un obiettivo non si è mai se stessi? Indeciso se trovare una soluzione a questo tipo di questione, Warhol decise semplicemente che avrebbe tentato di filmare ogni minuti di ogni giorno delle altrui vite. In quel periodo filmò circa un film a settimana, materiale che rimase in vita come prodotto indipendente o che venne inglobato in altre produzioni (ad esempio “****” o “The Factory diaries”), come appartenente ad un archivio di immagini polivalente cui attingere a piacimento. I lavori di Warhol testimoniano un continuo esaltare e svilire la produzione, come se i pezzi di vita raccolti non riuscissero mai a restituire un senso compiuto. Ogni film era un tassello di un puzzle dai pezzi troppo simili: tutte le combinazioni potevano risultare esatte ma il disegno completo si lasciava desiderare. Ma forse il senso generale (può sembrare retorico) era proprio l’assoluta mancanza di senso. Le stesse superstar erano individui non indipendenti, la cui unica ragione di essere era nel mondo argentato della Factory, come risposta frivola ed eccessiva all’incertezza di un decennio e di una società particolarmente in crisi.

Inevitabile per Warhol dedicare una parte della propria produzione al suo personalissimo star-system e, perché no anche ai frequentatori più o meno occasionali della Factory. La collana di “Screen test” nacque in realtà per caso. Il primo test fu il risultato piuttosto fortuito della richiesta di Gerard Malanga di essere filmato in primo piano in diverse posizioni, ma comunque immobile, per poi poter selezionare un’immagine da stampare ed utilizzare come icona pubblicitaria per le letture delle sue poesie. Da quel momento (1964) per i due anni successivi chiunque avesse potenzialità artistiche venne immortalato in celluloide. Le modalità erano sempre le stesse: all’ospite della Factory veniva chiesto di sedersi di fronte alla macchina da presa tentando di restare il più immobile possibile, evitando addirittura di sbattere gli occhi per circa tre minuti (a detta di Malanga i minuti sarebbero stati 15). Le reazioni dei protagonisti erano molteplici: chi scoppiava a ridere dopo pochi secondi, chi per mantenere la posizione diventava visibilmente insofferente, chi nascondeva malamente una sensazione di terrore nel trovarsi soli di fronte a sé stessi di fronte al’implacabile occhio. Come in un imprevisto test attitudinale i malcapitati sapevano di essere spiati nelle loro reazioni inconsce, riflettevano su come apparire intelligenti, interessanti, meglio degli altri pur non facendo assolutamente niente. Nei primi tre Screen test la prassi dell’immobilità e del silenzio non aveva ancora preso piede; il fidato sceneggiatore Ronald Tavel stuzzicava il soggetto del suo studio con domande provocatorie in modo che questo reagisse non solo a parole ma anche con un linguaggio del corpo non ordinario. Vittima principale di questo crudele siparietto fu Mario Montez, un travestito che bazzicava nella scena underground come presunto attore. Nel corso del test la sua pazienza e dignità vengono svilite sotto i colpi implacabili delle parole di Tavel che inizialmente gli comunica di essere stato scelto come gobbo di Notre Dame nel prossimo film diretto da Warhol, per poi degenerare progressivamente fino alla richiesta conclusiva di aprirsi i pantaloni (cosa che probabilmente Montez fece; tuttavia, causa la camera fissa sul suo primo piano, non ci è dato saperlo). Un ipotetico spettatore percepisce un senso di alienazione che pervade la scena, di pietà per il protagonista che si trova disorientato, spesso sembra non capire quello che gli viene detto, è visibilmente vittima del bruciante desiderio di far parte della crew di Andy Warhol e crede che quel breve colloquio con una macchina da presa, dove il maestro è presente solo in veste di ideatore, possa cambiare la sua vita. Lo screen test di Mario Montez testimonia la violenza del mezzo cinematografico sull’identità reale di un individuo, portata all’estremo dalla simbolica assenza del regista, che in sé concorre ad accrescere il disagio ed allo stesso tempo dichiara una precisa poetica di potere assoluto al mezzo.
Risultato dell’esito estremo di questa sperimentazione fu “The Andy Warhol story”. L’idea di partenza doveva essere un’improvvisazione libera sulla vita, il carattere, le relazioni dell’artista, interpretato per l’occasione da Rene Richard. Lo stesso Rene Richard scelse la sua partner, la superstar Edie Sedgwick che aveva lasciato la Factory poco prima. Come set fu scelto l’appartamento del protagonista. Quando Warhol e Paul Morrissey (aiuto regista e tecnico dotato, dietro a molte produzioni della Factory) diedero il via alle riprese, prese vita davanti a loro una penosa farsa che fungeva da sfogo ultimo e personale vendetta per tutti gli sfruttamenti e i maltrattamenti che le due star erano convinte di aver subito da colui che ormai consideravano un dittatore senza scrupoli che usufruiva delle loro vite a piacimento. Attraverso il pretesto del film entrambe liberarono tutta la loro ironia crudele, le loro pesanti accuse e calunnie sotto forma di parodia. Come se fosse un film di fiction. Erano sicuri che questo linguaggio sarebbe stato l’unico ad essere ascoltato e che l’occhio della macchina da presa sarebbe stato l’unico punto di vista che Warhol non avrebbe mai messo in discussione. Nonostante l’artista fosse fortemente scosso e demoralizzato per quelle dichiarazioni, continuò a girare il suo film e, una volta finite le riprese, lo mostrò ai suoi proseliti, com’era abitudine per ogni nuova produzione. Nonostante l’insulto personale che sicuramente non poteva non ferirlo, Warhol non si sarebbe mai permesso di intralciare la creazione autonoma di stralci di vita che stava avvenendo di fronte ai suoi occhi. L’istinto di documentazione, il desiderio di immortalare, il piacere della scoperta ebbero il sopravvento anche sull’orgoglio personale.
Dopotutto per completare il mosaico disordinato e coloratissimo dell’agitata New York degli anni sessanta non poteva mancare uno dei personaggi principali del secolo scorso, il guru della cultura pop. Da creatore di un universo alternativo, concluse la sua esperienza dietro la macchina da presa con un’autobiografia anti-autocelebrativa dove attraverso i comportamenti irriverenti ed incontrollabili di due dei suoi pupilli chiuse l’originale ritratto del suo mondo. L’ignorato spettatore trae individualmente le proprie conclusioni, anche se alla visione di un film di Warhol rimane la sensazione di violare un mondo cui non si ha accesso. Se i divi del cinema tradizionale potevano fingere di essere persone comuni, quelli della Factory lottavano fra loro per ambire all’appellativo di superstar che per sempre li avrebbe legati all’anti-Hollywood che gravitava intorno alla Factory. Questa serie di produzioni a metà strada fra il documentario sperimentale ed il film underground sembrano, dunque, creati pensando a sé stessi come destinatari, non da dedicare al grande pubblico. L’aria di studio, di analisi che li pervade è impregnata di un linguaggio implicito quasi codificato che va dall’ambientazione al comportamento dei protagonisti, all’abbigliamento, alle scelte tecniche del regista. Allo spettatore non sono offerte le premesse necessarie per comprendere quello che avviene ed il regista nella sua immobilità ed assenza si esonera dal compito di dover trasmettere qualcosa. Ad esempio chi guarda gli individui ripresi negli screen test può benissimo non conoscere assolutamente niente di loro e dopo la visione non saprebbe niente di più della sua personalità di quanto possa dedurre dalle sue reazioni a quei pochi minuti. L’intento ultimo non è fare della realtà un evento in un certo senso spettacolare affinchè il pubblico si possa avvicinare a quegli eventi con maggiore interesse, quanto mettere gli stessi eventi alla prova, sperando che essi stessi ci forniscano una spiegazione a quanto avviene.