WIM WENDERS
LA POLAROID. JUST A LITTLE STORY

di Valeria JANNETTI
Quando si parla di cinematografia nazionale tedesca, bisogna sicuramente tener conto del “buco” che si è prodotto durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra. I maggiori registi nazionali espatriarono, pochi tornarono (ricevendo comunque solo – o quasi – indifferenza). Non ci fu un vero ricambio generazionale. Si dovette arrivare agli anni sessanta per iniziare a ricostruire una identità, con i giovani dello JDF. Comunque non vi fu continuità con i grandi degli anni venti/trenta (Lang e Murnau su tutti). Dirà infatti Werner Herzog in un’intervista nel 1977:”[…] La cultura tedesca comincia ad articolarsi di nuovo come cultura nazionale.Molti pensano che noi abbiamo un rapporto, legami storici e stilistici con i grandi registi degli anni Trenta, con gli espressionisti. Non è così. La continuità è stata interrotta per trent’anni dopo la seconda guerra mondiale. In nessun altro paese c’è stata una catastrofe simile: hanno ripreso immediatamente, come in Italia, dove il neorealismo è cominciato addirittura alla fine della guerra e poi ha continuato. […] Ci tengo a dire questo, perché la cultura tedesca continuerà ad avere questo cattivo odore almeno per i prossimi duecento anni. […] I processi della coscienza si svolgono molto, molto lentamente e per secoli questo cattivo odore resterà appiccicato ai tedeschi e costituirà sempre un ostacolo.” (Fontana, 1978). Durante il periodo del presidente della rinata Repubblica Federale Tedesca Adenauer, il bisogno di dimenticare le atrocità del nazismo portò all’Heimatfilm (genere cinematografico che si può ricondurre al melò, caratterizzato da storie strappalacrime su giovani ragazze della Baviera o delle montagne tedesche) al vertice della cinematografia. Fu un processo naturale: un modo per dimenticare il passato tentando di accettare l’imperialismo americano. Ne derivò tuttavia un “buco” nella storia della cinematografia tedesca, che si tentò di colmare con l’assimilazione della cultura targata U.S.A.. Scrive, infatti, Wenders:”Le forze d’occupazione non furono mai detestate, anzi furono ben accolte, e questo a causa del senso di colpa e del bisogno di coprire quel buco. Lo coprimmo col chewing gum. E con le foto Polaroid”.
La Polaroid è uno dei temi per capire Wenders. In Alice nelle città, primo film della “Trilogia della strada”, del 1973, il protagonista è un giornalista che affronta un viaggio tra l’America e l’Europa, nel tentativo di un reportage sulla vita negli States. Ma l’impatto con la realtà americana è traumatico: non corrisponde infatti all’idea romanzata che si era costruito. La delusione gli fa scattare un senso di sconforto: lui che era alla ricerca di sé attraverso il viaggio, scopre solo immagini noiose e ripetitive, ben lontane da quelle stereotipate che si sarebbe aspettato. Così nel protagonista si assiste al cambiamento di prospettiva comunicativa: dalle parole alle immagini. Ed inizia così a scattare istantanee con la Polariod. La Polaroid non ha negativo, perciò è più vicina alla pittura che alla fotografia stessa: tramite negativo e stampa il fotografo interviene sul momento dello scatto, portando alla luce la propria visione, il proprio personale sguardo sulla realtà inquadrata. Sono istantanee, mantengono la scelta (essenziale all’opera d’arte) ma inquadrano solo il momento del colpo d’occhio; non avendo negativo, sono irriproducibili. Attraverso lo scatto istantaneo il protagonista tenta di recuperare la propria identità.
Ancora Wenders:”[…]Le immagini, in particolare le immagini fotografiche o ancor più le immagine cinematografiche, rappresentano innanzi tutto una realtà. La realtà che rappresentano è quella che esse riflettono; naturalmente quella realtà può essere del tutto fittizia, ma c’è sempre una qualche forma di realtà esistente nel momento in cui l’immagine è stata realizzata, o in qualcosa che è effettivamente accaduto fuori della mia influenza, o qualcosa che potrebbe essere del tutto artificiale: gli attori sul set, per esempio, ma anche gli attori sul set hanno la loro realtà. Dunque la mia teoria è che il narrare, nella mia professione – che è fare film – significa manipolare e forzare le immagini, e qualche volta questa sorta di manipolazione diventa un’arte, il più delle volte no.” (da “Stanotte vorrei parlare con l’angelo, scritti 1968/1988” di Wim Wenders, a cura di Giovanni Spagnoletti).
Forza le immagini, Wenders, e lo fa riuscendo il più delle volte a ri-creare quell’arte di Hopper a cui tanto si ispira, quell’iperrealismo in cui il campo lungo sostituisce la pennellata. Quell’immagine forzata appunto, ma anche (e soprattutto) ricercata, amata, studiata, ricreata. E poi, Wenders ama le storie: sono pochi i registi che riescono ad unire un chiaro e ben delineato percorso filosofico ad una ricerca estetica – quasi – fine a se stessa. Un autore a tutto tondo, di cui non si può non citare (anche perché tra i leit motiv del suo cinema) l’amore per quel rock che gli ha cambiato la vita: ”My Life was saved by Rock and Roll” (Velvet Underground). Nel 1969 realizza il cortometraggio Tre Lp americani, quasi un video-clip ante litteram, e questo suo amore lo porterà attraverso i suoi film agli Stooges, a Nick Cave, agli U2 (tanto che Bono firmerà la sceneggiatura e la colonna sonora di Million Dollar Hotel del 1999), al documentario sulla musica cubana Buena Vista Social Club del 1998 ed ora al ciclo di film sul blues di cui L’anima di un uomo appena uscito nelle sale costituisce il primo capitolo.
Si capisce quindi che ogni film del regista è ricco di autobiografia, di concretizzazioni di idee sul cinema, di quel processo, mai completamente concluso, che lo porta “dall’emotion alla motion”.

Biografia

Wim Wenders nasce a Dusseldorf nel 1945. Riceve un’educazione religiosa, tanto che fino ai sedici anni vuole entrare in seminario. Ma un bar ed il suo flipper fanno sì che il giovane Wenders inizi ad ascoltare il rock, tanto che piano piano l’ascoltare musica si sostituisce all’andare alle funzioni religiose (forse in uno dei pochi casi in cui si puo’ veramente affermare che il rock allontana i giovani dalla chiesa!).L’idea di farsi prete svanisce così immediatamente. Frequenta un prestigioso ginnasio, al termine del quale si iscrive all’università di medicina, per poi cambiare ed andare a studiare filosofia e sociologia.Ma anche qui dura poco:lascia gli studi per dedicarsi alla pittura che ama. Lavora alla filiale di Dusserdolf della United Artists, un lavoro stagionale che costituisce il suo primo contatto con il cinema. Nel 1966 si trasferisce a Parigi, per iscriversi alla scuola di cinema “IDHEC”, ma la sua domanda viene scartata e si ritrova a lavorare come incisore. Durante questo periodo inizia a frequentare la cineteca francese, la più grande del mondo, e poiché il numero di film che vedeva era davvero enorme, quasi immediatamente sente il bisogno di prendere appunti. Fu così che inizia la sua carriera di scrittore/recensore. Tornato in Germania, frequenta quella stessa scuola di cinema che aveva rifiutato uno dei futuri grandi registi, Rainer Werner Fassbinder, ed inizia a scrivere per Filmkritik e Film. Fin dall’inizio decide di scrivere solo dei film che gli sono piaciuti. Dal 1967 inizia la sua carriera di regista, con il cortometraggio Scenari. Il suo primo lungometraggio è del 1969/70 Estate nella città. Imperdibili i film della “Trilogia della strada”: Alice nelle città (1973), Falso movimento (1974) e Nel corso del tempo (1974), ma anche Nick’s movie-Lampi sull’acqua (1980) in cui riprende gli ultimi giorni di vita del grande regista di Gioventù bruciata, Nicholas Ray, Paris, Texas (1984), Il cielo sopra Berlino (1987) ed il seguito Così lontano, così vicino (1991), fino agli ultimi I fratelli Skladanowsky (1995), realizzato in occasione del centenario dalla nascita del cinema e dedicato a questi fratelli, inventori del Bioscope, una delle macchine che il cinematografo dei Lumiere ha soppiantato perché troppo macchinose, Buena Vista Social Club (1998) e L’anima di un uomo appena uscito nelle sale. Tra i diari cinematografici, Tokio-Ga (1985) dedicato ad Ozu.

Bibliografia: si rimanda ai testi a cura di Giovanni Spagnoletti dedicati a Wim Wenders