VENETO JAZZ 2011

 

Omar Sosa/Trilok Gurtu

giugno -settembre 2011

Gran Teatro la Fenice, Venezia

 

di Gabriele FRANCIONI

veneto jazz

27/30

Omar Sosa: pianoforte, fender rhodes, electronics

Childo Tomas: basso elettrico, voce, m'bira

Marque Gilmore: batteria

Peter Apfelbaum: sax tenore

Joo Kraus: tromba

 

TRILOK GURTU – “Solo”

OMAR SOSA 5TET – “Kind of Blue”

 

Da Capo Verde passando per Bombay fino ad arrivare a Cuba. Dopo Cesaria Evora, il Venezia Jazz Festival mette in  cortocircuito ancor più vorticoso le matrici multietniche del suono del Terzo Millennio, che sposta i confini geografici e crea un mélange sempre più articolato e complesso. La Fenice, dal canto suo, smette i panni della celebrazione finale e indossa quelli della festa. Dalla vocalità transitiamo verso la percussività pura, che ci accompagna fin dentro l’ ardita rilettura di Omar Sosa del capolavoro “Kind of Blue” di Miles Davis. Inizia Trilok Gurtu, già visto alcune volte in Italia (memorabile una tournée con Nana Vasconcelos). Formatosi nella band di Don Cherry dal 1976 al 1978,  poi al fianco di Pharoah Sanders , Bill Evans, Dave Holland,  Joe Zawinul, Jan Garbarek, Pat Metheny  e Larry Coryell, Gurtu trova la propria dimensione come batterista proprio nelle band capitanate da chitarristi. Oltre a Metheny e al favoloso Coryell, sono stati fondamentali per la carriera del musicista indiano Ralph Towner, che lo volle negli Oregon dal 1984 al 1988, e John McLaughlin, che lo ha reclutato in successive edizioni della Mahavishnu Orchestra. Gurtu è in definitiva uno straordinario interplayer. Per chi, come lui, ha collaborato con diversi ex-componenti di formazioni davisiane, conta esclusivamente l’articolazione ritmica dell’improvvisazione, elaborata e ricca per poter dialogare costantemente col solista. La linearità  armonica del disegno contrappuntistico barocco, da Davis a Evans (quindi al collega Paul Motian), permise alla sezione ritmica di svincolarsi definitivamente dal suo vecchio ruolo, allo scopo di creare col solista un contrappunto a più voci.                      

 Il problema è lasciare da “Solo” un tipo come Gurtu, se mancano le altre voci…

Anche nei semplici dialoghi a due –vedasi Vasconcelos, pure percussionista- Gurtu tiene la scena senza strafare, ma quando si trova senza riferimenti, rischia di esporre e basta la tecnica evolutissima di cui è maestro. Gurtu ha assoluto bisogno di una sponda, quindi, perché le sue frasi ritmiche sono normalmente costruite secondo un’ alternanza di pieni e vuoti, nelle dinamiche di gruppo, mentre nelle performance solistiche, per quanto esse siano brevi e pensate, dominano i pieni e si ha la netta sensazione di un horror vacui matrice di fascinazioni, spunti, tentazioni tutti plausibili, ma, che, se accatastati, risultano spesso indigeribili. Non è un caso che il suo atto unico preveda anche una lunga presentazione a voce, sorta di preambolo narrato spettacolare e umoristico. Di per sé i tre quarti d’ ora di sola musica non sono affatto male, presi come siamo dalla seduzione timbrica di un bidone d'acqua in cui galleggiano/stanno percussioni metalliche, di un gong e delle stesse tabla, doverose per un percussionista indiano. In territori analoghi, peraltro, Zakir Hussain si fa preferire. Gurtu, una volta entrato nel suo universo poliritmico, non si e non ci fa mancare nulla, producendo un assolo continuo durante il quale siamo travolti da ostinati e cambi continui. Si colgono momenti in cui G. suona in tala, ma il ciclo ritmico viene presto abbandonato e non utilizzato come base per uno sviluppo analitico, o si produce in talking tablas.

E’ evidente che sarebbe servito un collante solista (lo stesso Fresu, con cui Gurtu e Sosa hanno girato in tournée).

Sale sul palco Omar Sosa e, dopo un interludio cubaneggiante, con Gurtu ancora attivo, entriamo dentro l’ atmosfera celebrativa dell’ omaggio a KIND OF BLUE, per i 20 anni dalla scomparsa del trombettista americano.

In realtà restiamo chiaramente in area-Kind Of Blue solo durante quella che potremmo definire una gemmazione di/da SO WHAT, di durata e concezione indefinita. La cosa che ci affascina maggiormente è il super-vintage Fender Rhodes sulla sinistra, che adocchiamo mentre il bassista (Childo Thomas) suona le due note conclusive del refrain di SO WHAT sul piano a pollice detto M’bira.

Da quel momento segue un’ ora abbondante –e piacevolissima- di vera fusion, intesa nel senso etimologico del termine. Come forse accadeva agli albori delle contaminazioni tra generi, tra jazz-rock e, appunto, fusion, gli steccati sembrano tutti abbattuti e il funk fa incursione nei territori caraibici, quindi con radici afro (che poi sono comuni a quasi TUTTI i generi), mentre il cool jazz sembra decisamente relegato in secondo piano. Dalla trance-music marocchina (Gnawa) agli effetti elettronici si continua ad assistere ad una spettacolare esposizione di devices, di machines sonore e, lo ammettiamo, la godibilità del tutto è assicurata, ma la leggibilità delle tracce principali va forse un po’ persa. In realtà amiamo Sosa, ma in contesti tipo big band, dove, in un certo senso (esattamente come per Gurtu), il minimalismo del ruolo preciso definito da codici permette al virtuoso di esprimersi al meglio.

La polifonia, il poliritmismo e l’approccio multietnico alla materia musicale in genere, insomma, sono la base riconosciuta di una musica in sintonia con lo Zeitgeist, sebbene, come dimostrava l’ inarrivabile Davis –ma anche l’inarrivabile Evora!- è necessario che il polys e il multum (sinonimi) permettano di riconoscere le tracce delle singole matrici culturali.

 

prima pubblicazione 01/8/2011

Omar Sosa/Trilok Gurtu
giugno -settembre 2011