Esperimento non del tutto riuscito, quello proposto da Pierfrancesco Favino e dal Gruppo Danny Rose al teatro Toniolo, dal 4 all’8 dicembre scorsi. Infatti, l’iniziativa, lodevolissima, del commediografo inglese Richard Beam di attualizzare un classico goldoniano ("Il servitore di due padroni"), e quindi quella, altrettanto lodevole, di Favino (& co.) di tradurlo e adattarlo al pubblico italiano convincono solo a metà.
Il doppio adattamento, Servo per due, perde di vista l’originale, inarrivabile, ma perde di vista anche lo spettatore, che si trova a seguire con difficoltà tre (3!) ore di spettacolo rocambolesco e funambolico (quasi un musical), e alla fine i momenti che funzionano sono sempre quelli, prevedibili: quando Favino gigioneggia con il pubblico (ah, dimentichiamo la “quarta parete”!), in perfetto stile “commedia dell’arte”, e quando Ugo Dighero (a me noto grazie a Un medico in famiglia) inanella una sorprendente serie di cadute, interpretando un vecchissimo cameriere sordo e tremolante.
L’impegno profuso è tanto, e si vede, a partire dalle scenografie e dagli abiti anni ’30, curatissimi. Meravigliosa, poi, l’orchestra Musica da Ripostiglio, che ha riproposto le canzoncine del periodo con una levità, una bravura e una simpatia rare, accompagnata dagli attori che hanno cantato e ballato (forse, lo dico con un pizzico di malvagità, meglio di come hanno recitato).
Ma la traduzione non sempre funziona, i tempi comici sono duri da rispettare, e non tutti gli attori sono all’altezza del ruolo. In particolare, menzione “di disonore” a Fabrizia Sacchi, del tutto inadeguata nei panni di Rocco/Rachele e pure un po’ smemorella.
Insomma, l’impegno c’è, ma si può fare di più (e magari tagliando una mezz’oretta).24/30

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