Nel suo film,
La pianista (2000), Michael Haneke filma la doppia vita di Erika
(Isabelle Huppert) docente di pianoforte presso il Conservatorio di Vienna,
ponendola come indiscutibile a priori, punto di partenza di tutto il
racconto.
Così se la pratica del luogo di perversione – la
saletta buia del pornoshop, il drive in - costituisce
l’abitudine, la norma, rientra insomma a far parte di quella che è la
routine quotidiana della protagonista, quella che nell’universo
hitchcockiano si definirebbe la tara, l’anomalia, è da ricercarsi altrove. E
come nei film del grande regista inglese si annida insospettabilmente tra le
pieghe di una società ricca, colta e raffinata, abituata a muoversi in
ambienti luminosi ed eleganti.
All’inizio del film sullo schermo i titoli di testa bianchi sullo sfondo
nero si alternano ad altre immagini, prima le mani di un allievo mentre sta
suonando, poi quelle di Erika subito si sostituiscono alle sue per
rieseguire lo stesso passo nella maniera che lei ritiene più appropriata.
Come appureremo andando avanti, la costante stilistica del nero e bianco
tornerà più e più volte nel corso del film, - la toilette bianca e nera, le
figure dei pattinatori vestiti di nero sulla pista di ghiaccio, la gonna
nera e la camicetta bianca che indossa alla fine del film – ed è una sorta
di leit-motif cromatico che indica le due traiettorie sulle quali
Erika muove i suoi passi senza mai, almeno finora, confondere la direzione.
Per lei, il mondo o è tutto bianco, oppure è tutto nero, tutto “sporco”, ed
assorta nel compito costante di scindere tra i due, il suo sguardo è
perennemente attento e vigile, qualsiasi sia l’attività da lei intrapresa.
Attraverso lunghe inquadrature, intensi primi piani sul suo volto, ne
vediamo gli occhi chiari ed intelligenti all’erta spalancarsi e poi
nuovamente restringersi. Lei osserva, scruta intensamente l’ambiente che la
circonda: e dal rapido movimento dei suoi occhi intuiamo che anche quando il
suo oggetto d’attenzione è un altro essere umano, ad esempio un allievo, il
suo comportamento è identico all’approccio nei confronti dello spartito.
Per Erika il mondo è diviso in una rapida successione di note=allievi che
ora incalzano ora rallentano e bisogna continuamente insegnare loro a
reggere il ritmo, a non perderlo mai; bisogna saperli condurre come in una
perfetta esecuzione, e non vengono ammessi errori, distrazioni,
retrocessioni.
L’unica persona che si esime da quest’impassibile verifica è la madre (Annie
Girardot) con cui la figlia intrattiene un rapporto meno morboso di quanto
possa sembrare, dal momento che anche quando arriva al punto di picchiarla,
causa un’incomprensione sull’acquisto di un vestito, il gesto di violenza
risulta piuttosto un’implicita richiesta di perdono, per farsi
abbracciare, finalmente farsi toccare. Per tutta questa prima parte del
film, infatti, il corpo viene relegato all’interno della perversione: la
lotta con la madre, l’urto di un passante attraverso i corridoi di un grande
magazzino, e subito Erika si strofina esattamente nel punto dove è stata
sfiorata; poi guarda alcune videocassette pornografiche, che rinviano
immagini di corpi proibite, inaccessibili, che se scivolassero nella realtà
diurna le farebbero perdere di vista
la linea divisoria che lei segue così scrupolosamente.
La vergogna, il profondo imbarazzo che il corpo suggerisce alla pianista
sono destinati a culminare nella scena di mutilazione intima nella vasca da
bagno: tiene in mano uno specchio onde assicurarsi che la lametta penetri
sufficientemente all’interno, si guarda e controlla mentre esegue
l’operazione con la precisione degna di un orafo.
Corre un silenzioso conflitto tra lo sguardo ed il corpo di Erika, l’uno si
oppone all’altro in una sorta di guerra silenziosa, colonna sonora
inaudibile di tutto il film.
Al Conservatorio ascolta gli allievi volgendo le spalle al pianoforte, lo
sguardo assorto in silenzio fuori dalla finestra: il viale alberato è il
mondo com’è là fuori, il fuoricampo irraggiungibile che lei si limita a
guardare aspettando che qualcosa accada. La sequenza della festa che segue
al concerto nella casa privata contiene uno dei primi elementi chiave della
vicenda.
Erika vi arriva accompagnata dalla madre che rappresenta l’abituale
accompagnatrice, la figura di riferimento principale nella sua vita. Nella
cornice della festa avviene l’incontro con Walter (Benoit Megimel) secondo
il perfetto modello di fabula hithcockiana che ricorre ad esempio
in Rebecca, la prima moglie
(1940) ed anche Il sospetto (1941): lui, che qui è molto più giovane, si
presenta fin da subito come l’Eroe attraente e scanzonato che la vita di
Erika, caratterizzata da un rigido schematismo, non è in grado di prevedere.
Non riesce a prendere l’ascensore con loro, ma arriva contemporaneamente
all’appartamento facendo le scale due a due; frequenta una facoltà tecnica
ed è anche un promettente pianista; anziché Schoenberg
eseguirà Schubert rivoluzionando improvvisamente il programma del concerto
con lo scopo di catturare la sua attenzione.
è Walter la figura di rottura
destinata a portare scompiglio e caos nella vita della severa professoressa,
abituata a tenere rigorosamente separato il corpo e la mente da una vita.
Di fronte agli espliciti segnali d’interessamento del ragazzo, Erika si
ostina a comportarsi come colei che ne deve seguire la corretta
ditteggiatura sulla tastiera. Come sullo spartito, anche nella scandalosa
sequenza della toilette esistono gli stacchi, le riprese e le pause: le
indicazioni
che gli dà vengono pronunciate con lo stesso tono imperioso con cui è solita
correggerlo quando è seduta alla tastiera.
E lei orchestra il tutto con la solita maestria riprendendo l’”allievo” alla
minima occasione che per lei rappresenta la nota stonata. Anche i colori
dell’ambientazione, la toilette con il pavimento, i muri ed il soffitto
bianco e le porte nere dei singoli bagni ripete la costante bicromatica
della tastiera del pianoforte (tasti bianchi/tasti neri)e dei colori dello
spartito
(spazi bianchi/ note nere).
Erika non paga con la vita perché guarda – che è la tesi arrabbiata
sostenuta dalla scrittrice austriaca Elfriede Jelinek, autrice dell’omonimo
romanzo – bensì perché smette di guardare: in tutta la parte finale il
regista “gratta” via quella patina di perfezione bicromatica, e l’immagine
tende alla saturazione del campo: al posto del bianco e del nero rientrano
altri colori, altre
sfumature, come il grigio, il rosa carne, il colore del corpo.
Il corpo finalmente, lentamente si svela, esce allo scoperto; non più
stretto dentro lo spazio angusto della perversione, prima slitta all’interno
dello spazio disciplinare – le aule del Conservatorio, le sale da concerto –
cancellando l’iniziale divisione, e poi invade lo schermo a tutto campo,
quando si consuma la relazione tra la donna e l’allievo.
è lei stessa a cercare Walter
nello spogliatoio dei pattinatori e gli tende la mano, in quella che ancora
una volta appare come una richiesta di aiuto; ma il suo corpo ancora si
dibatte nel conflitto, e tanto più lei cerca di portare avanti l’abituale
controllo, più questo perde, preme, secerne l’elemento liquido (prima il
sangue che cola nella vasca da bagno, poi l’urina, infine il vomito) che
scorre incontrollato destando ogni volta nello spettatore lo stesso
sentimento di choc e di rabbia. La scena d’amore nell’appartamento di lei è
la resa finale, Erika appare sporca e insanguinata come dopo uno stupro, e
tale risulta essere per lei quello che per il ragazzo avrebbe dovuto
rappresentare la conquista decisiva; rapidamente il racconto la porta verso
il tragico epilogo, la sera del saggio di pianoforte appare sulla sua
camicetta bianca una macchia rossa di sangue.
Haneke sostituisce l’eroina hithcockiana casa e chiesa con l’esistenza di
una donna tutta casa e pornoshop, a cui fa da sfondo il triste
scenario metropolitano di una Vienna che non sembra essere riuscita ad
andare avanti (gli invitati alla festa si ritrovano per celebrare il
costume ormai caduto in disuso del concerto in una casa privata). Il
voyeurismo di Erika si consuma nel passaggio dal chiarore delle aule al
formicolìo indecente dell’immagine video, passando attraverso un
appostamento al drive-in dove spia una coppietta, per poi venire scoperta e
rimproverata come una bambina. Quando per lei giunge il momento di smettere
di guardare, lo affronta con la rassegnata passività di chi non riesce a
liberarsi dall’intasamento di meschine immagini video che le passano davanti
ormai quotidianamente e da molto tempo; e se anche soltanto per un momento
abbiamo potuto nutrire ancora un po’ di fiducia in una scena d’amore, in
un’immagine che sia giusta del corpo, questa capacità Haneke non sembra
avere dubbi sul fatto che il cinema possa restituircela ancora intatta,
ancora forte, ancora completa credenza nella visione.
L'audiorecensione di G. FRANCIONI |