FORUM SUL CINEMA ITALIANO
1 - a) la critica e i festival


Hotel Des Bains - Lido di Venezia
Venerdì 8 settembre 2000
 

di Gabriele FRANCIONI

KINEMATRIX: A nostro avviso, nel contesto del cinema italiano inteso come settore, sembrano mancare alcune fondamentali sinergie. A partire da quelle che sono le scuole di cinema, passando per la fase produttiva, realizzativa, distributiva e critica per giungere all'effettivo contatto con il pubblico sembrano emergere degli scollamenti. Un evento come quello del Festival di Venezia rappresenta una delle rare occasioni in cui i rappresentanti di ognuno dei settori citati possono venire a contatto fra loro. Cosa potrebbe o dovrebbe fare il Festival di Venezia per creare queste occasioni di incontro e cosa, quindi, non è stato fatto nelle ultime edizioni?

 

MARCO MULLER "Occorre innanzitutto fare una premessa. Mai come in questo momento c'è stato bisogno di un ragionamento sui nuovi modi di produzione leggeri, sulla possibilità di affermare la cifra di un cinema che recupera autonomia, proprio perché fa coincidere l'autonomia estetica con quella finanziaria. A questo punto ciò significa cominciare a ragionare sulla circolazione dei film anche attraverso i festival ma anche dopo il primo lancio festivaliero pensando agli spazi autonomie alle sacche di resistenza che ancora possono crearsi. Credo che molte delle recenti polemiche su questa edizione della Mostra di Venezia siano fatte ad arte perché, in fondo, ciò che manca a Venezia sono quei prodotti molto medi che poi, in realtà, finiscono nelle sale e tutti vedranno nei cinema sotto casa. Il problema è quello di capire, e qui generalizzo molto, che da cinque anni a questa parte esiste una divaricazione tra il cinema che si fa a partire da cinque miliardi e il cinema che si fa sotto il miliardo e mezzo; a metà c'è una specie di strana zona grigia dove sono pochi quelli che hanno il coraggio di addentrasi, perché, naturalmente, a fare un film sotto il miliardo e mezzo tra l'articolo 8, un po' di soldi dal fondo di garanzia, la prevendita televisiva ci si può anche pensare; a fare un film sopra i cinque miliardi ci si può ovviamente pensare ma a questo punto assieme ai finanziamenti intervengono anche i condizionamenti, una serie di alleanze, dove giustamente chi investe poi vuole dire la sua, non tanto sul prodotto finito quanto su un certo taglio, sui modi di circolazione e sul "posizionamento" che il film deve avere nell'attuale circolazione commerciale. Ora, i festival sono sempre stati in qualche modo non tanto un surrogato, perché sarebbe veramente infame pensare che i film possano circolare soltanto attraverso i festival, ma sono stati sempre una risposta a quello che non funzionava nel circuito di formazione e circolazione; però sono stati una risposta perché dovevano recuperare centralità, cerare visibilità per ciò che altrimenti sarebbe stato spinto verso la marginalità. Ma questo non è un discorso di oggi: sono vent'anni che discutiamo delle vistosissima censura del mercato, per cui alcuni film non hanno cittadinanza nelle sale; e proprio a questo forse i festival dovrebbero servire, a dimostrare che la raccolta di migliaia di individualità… parlo di migliaia perché io vengo da un festival, Locarno, dove mi sarei sentito male a non ragionare per migliaia di spettatori alle proiezioni per ogni film; quindi, in qualche modo, con questo riaffermavamo la possibilità di trovare… io non credo nel pubblico come cosa astratta… gli strati di spettatori sensibili, giusti per un certo tipo di film, e quindi di sollecitare alcune ipotesi distributive piccole, ragionate, calibrate, messe assieme con grande sforzo e sussidi culturali istituzionali, poi il ventaglio dei possibili è enorme. Però, in questo senso, i festival dovevano proprio avere un'incidenza su quello che succede dopo, perché senza dubbio i festival funzionano soltanto quando sono il punto di partenza di discorsi, fruizioni e visioni che accadranno altrove, in altri tempi e con altri ritmi.

 


Il problema qual è? E' che noi abbiamo un festival solo che in qualche modo è il festival che automaticamente regala importanza e visibilità, ed è Cannes. E questo semplicemente perché Cannes è la fiera mercato dell'esistente cinematografico, e quindi Cannes in qualche modo ha qualche cosa a che vedere sul come si imbastiscono le regole delle stagioni distributive a ridosso. Uno dei più grossi risultati di Cannes negli ultimi anni… è inutile che ci raccontiamo balle sul fatto che poi Cannes possa davvero guidare le tendenze del mercato, dettare legge a chi, seduto di fronte a qualche schermo di computer, inventa delle strategie di marketing basate soprattutto sulle cifre e sui ricavi, sono quelli che decidono non soltanto delle campagne di informazione di quei film che spesso di colossale hanno solo il budget promozionale a disposizione; sono anche quelli che decisono delle nostre visioni perché occupando militarmente tutti gli schemi poi rendono impossibile l'avere accesso a più cose. Cannes, dicevo, ha avuto un risultato per me notevolissimo negli ultimi cinque anni, ovvero di prolungare la stagione primaverile e di regalare altre due settimane per l'uscita di film grossi dal punto di vista della campagna promozionale e di regalare ancora una settimana alla stagione estiva perlomeno per i film, non dico difficili, ma d'autore che normalmente nessun'altro si sarebbe azzardato a fare uscire d'estate. In queste situazione noi abbiamo molti altri festival che cercano di inserirsi, ma Cannes c'è riuscito perché Cannes fa moda, perché non c'è nessuno che si permette… io lo so perché ho avuto come produttore due film in concorso per due anni di seguito, cioè MOLOCH (di Sukurov, ndr) che avevamo coprodotto e il film di Samirah Machmalbaf (LAVAGNE, ndr) che abbiamo interamente prodotto noi di FABRICA e per il quale abbiamo preparato per due mesi la presenza a Cannes! Tutti gli eventi che lì avrebbero dovuto aver luogo, perché poi ci fosse il meccanismo di continuo rilancio del film e del personaggio. In realtà, per gli altri festival, è difficilissimo: per questo parlavo prima di autonomia e di capacità di calibrare bene quello che è il modo di produzione e quindi anche la diffusione e il lancio da pensare in anticipo, perché è difficile che per un piccolo film si riesca a pensare intanto di andare a Venezia e trovare i contatti giusti per approfittare al massimo di questa situazione, perché i risultati li abbiamo sotto gli occhi. Io ho lasciato Locarno perché mi vergogno di non potermi occupare come vorrei di tanti film, e io non ho mai fatto vedere a Locarno un numero enorme di film, ho sempre cercato di ridurne il numero fino ad arrivare, quest'anno, ad un totale di cinquanta lungometraggi, intendo quelli in prima mondiale o nazionale, in undici giorni di festival. Qui c'è un qualche cosa di importante da capire: addirittura con quattro o cinque film al giorno, spingendo molti quotidiani a mandare due inviati, non si riesci più a forzare quel blocco per cui uno dei due inviati sia un colorista, che per definizione farà le interviste ai registi che fanno notizia e alle star quando ci sono, mentre l'altro per forza si occuperà in primo luogo dei film che usciranno nel suo paese di provenienza, e solo a lato ricorderà l'eccezionalità, l'unicità o magari la natura di capolavoro di altri film. Io mi sono trovato a Locarno di fronte ad una situazione, per cui, anche triplicando gli sforzi, riuscivano ad avere per alcuni film non più di cinque righe, e oltre non si andava, perché ormai è consegnato alle abitudini dell'esercizio della critica cinematografica e del giornalismo cinematografico che di alcuni film non si debba scrivere, perché tanto quei film non saranno visti da nessuno una volta concluso il festival. A maggior ragione dunque anche durante i festival questi film saranno visti male: e allora come fare perché questi film siano visti? E come fare affinché un festival serva a recuperare questa centralità? Io su questo non ho dubbi: bisogna ragionare ormai in maniera chiara su una tipologia diversa di manifestazione, per cui da una parte ci sono ancora i festival che possono reggersi su una composizione ibrida, vedi Cannes, ma il modello Cannes è in qualche modo inimitabile. Quello che a me è successo a Locarno è stato di capire che con un po' di sforzo potevo dire ad alcuni grossi produttori americani di darci i film più insoliti del loro listino mentre quelli per i quali erano previste date di uscita che in qualche modo potevano usare la nostra presentazione festivaliera avrebbero avuta garantita un'ottima presentazione, sulla Piazza Grande, ecc. Questo è il primo elemento che crea una divaricazione, perché automaticamente, non c'è dubbio che tutti quelli che lavorano attorno alla programmazione del programma del festival si trovino coinvolti in un vortice di questo tipo, perché la carta da spendere è la presenza magari di una prima internazionale del filmone hollywoodiano. Per questo non c'è più nessuno che per due mesi segnali la presenza magari del nuovo film di Fruit Chan: interessa sempre meno a questo punto sottolineare un diverso orizzonte di esperienza. E' chiaro ormai che la storia dei festival ne fa delle manifestazioni con un contorno che non è modificabile. La mostra di Venezia dovrà sempre continuare ad essere in accordo con quello che è sempre stata; la mostra di Locarno dovrà sempre proseguire su quella sorta di ricerca del giovane, non in senso anagrafico, ma dell'inesplorato, della creatività sommersa dei cineasti alla loro prima o seconda prova. Bisogna probabilmente dirsi che servirebbe di più lavorare ad un ipotesi di festival che non sia più il panorama di tutto quanto viene prodotto, per cui si è costretti a mostrate tutto e il contrario di tutto, ma bisogna pensare ad una serie di festival permanenti, ad una serie di eventi dove il lavoro viene fatto prima, dopo e durante la presentazione. Ma allora questo implica senz'altro un'intelligenza da parte dei parternariati possibili: per anni i festival hanno demonizzato le televisioni, fino al punto in cui il rapporto è diventato incestuoso, per cui non è più chiaro a che cosa di particolarissimo l'aiuto di una televisione può servire; si sa confusamente che adesso non si può fare un festival senza l'appoggio mediatico che una televisione può dare. Ma a questo punto pensiamo che i palinsesti televisivi sono ancora comunque abbastanza ricchi da permettere di isolare delle linee che mettano in evidenza delle singolarità, e allora i festival hanno una loro…
...mi rendo conto che continuare a parlare di "festival", che è una parola ormai talmente abusata che non c'è dubbio che festival vuol dire senz'altro una vetrina di grosse anteprime che tutti vogliono vedere, e poi l'osservatorio su una creatività in qualche modo dissidente rispetto a quella. E' chiaro che c'è una contraddizione: io vengo da una stagione di manifestazioni che avevano un po' vergogna di essere "festival", quando ho cominciato a lavorare nei festival ho lavorato ad una manifestazione che si chiamata la "Mostra" del Nuovo Cinema di Pesaro, nel 1978; poi sono andato ad inventare una cosa che non voleva chiamarsi festival, a Torino, per cui dal 79 all'81 lo abbiamo chiamato Ombre Elettriche, perché non c'era altro modo; poi sono tornato alla "mostra" dei Pesaro e, in qualche modo, allora lo spazio dei festival era uno spazio continentale dove non c'erano frontiere, dove la circolazione delle idee, delle opere e delle persone avveniva senza bisogno di passaporto e dove eravamo uniti dalla necessità di una difesa di opzioni e di idee di cinema che avevano bisogno di quel tipo di sostegno. Sto parlando di una situazione che è durata ancora forse fino alla fine degli anni Ottanta, ma che poi è definitivamente defunta, anche perché, bisogna dirlo, chi ha fatto i festival in quel modo lì, chi ha cercato di cambiare la macchina-festival, chi ha cercato di mettersi al servizio… anche per questo io ho lasciato Locarno… rischia la salute e la vita: i miei più cari amici e complici che hanno fatto questo mestiere sono morti, sono morti d'infarto! Huub Bals, il fondatore di Rotterdam, dal quale ho ereditato il festival, è morto d'infarto; Enzo Ungari si è consumato nel fare questo lavoro in prima linea; Giovanni Buttafava è morto d'infarto pure lui buttandosi dentro dei progetti ambiziosissimi di cinema sovietico che poi magari io, nel mio piccolo, ho potuto realizzare soltanto a dieci anni di distanza, perché dieci anni ci sono voluti per riprendere il coraggio di sfidare così tante cattive abitudini. In qualche modo questa è stata una stagione che si è chiusa, e allora non si può dire che la soluzione si trova nel ridare vita a qualcosa che è morto: bisogna ripensare il nuovo, bisogna cercare l'altro ma non l'altro per l'altro e per la spettacolarizzazione dell'alterità, ma l'altro una volta per tutte, perché si definiscano delle coordinate che sono diverse rispetto a quello che si è fatto finora".
 

KMX: Ma allora quale deve essere il ruolo di Venezia, magari già dal terzo anno di Barbera? Quale la differenziazione che possa permettere a ciascuno di questi festival di sopravvivere, di durare durante l'anno ed eventualmente di seguire il film anche a posteriori, in modo che non ci sia, come lei ci ha detto l'anno scorso (vedi intervista a Marco Muller) una semplice contrapposizione tra quei festival che si promuovono e quelli che al contrario proteggono i film o lanciano i registi?

 

 

MARCO MULLER: "Io credo che Alberto Barbera stia facendo più che egregiamente il suo mestiere di direttore di Venezia, come lo faceva quando era fabbricante di festival di tipo diverso. Adesso, per forza, deve inserirsi in un solco tracciato dai suoi predecessori. Venezia non può non rispondere a quelle caratteristiche segnate dalla sua storia, quindi non è possibile pensare che Venezia possa rinunciare a quei film che tutti aspettano. Il problema è che non è più possibile continuare a lavorare seriamente su un numero così elevato di film: quest'anno, e io non ho problemi a dirlo, ci sono troppi film a Venezia, senza contare che così si fa del male ai film! Io rimango allibito quando vedo fino a che punto la stampa quotidiana buca costantemente una media di due o tre lungometraggi di "Cinema del Presente" o di "Nuovi Territori", senza parlare dei formati fuori norma. C'è chiaramente una contraddizione in termini nel cercare di offrire un osservatorio sulle nuove tendenze quando nessuno ne parla e soprattutto nessuno riesce a ragionare sulle dinamiche del nuovo quando ci sono contenitori così enormi, senza la possibilità di confrontare i film fra di loro, o quando ci si riscese ne vede uno e lo si confronta per forza magari con quelli più grossi. Io credo che Venezia debba ridurre il numero dei film, combinando gli elementi bene proprio come sta effettivamente facendo Alberto Barbera con grande professionalità. Ormai, e lo sappiamo da tanto tempo, chi decide davvero non sono più i registi, e questo è noto perché sono vent'anni che i registi non vanno più ai festival con le pizze sotto al braccio, ma sono sempre di meno i produttori e sempre di più naturalmente gli specialisti preposti al marketing, quindi i venditori. La scelta di un festival viene fatta a seconda delle esigenze, ma non di quel film in particolare, ma di un pacchetto di film: se infatti andate a leggervi trasversalmente i cataloghi di tanti festival, vi accorgerete che un film che quel festival voleva in concorso ha una coda di altri tre o quattro film. Perché sono i venditori stessi che per primi ammazzano il film, perché si pongono questa domanda: "ma quanto mi costa andare a Venezia? Centocinquanta milioni? Allora perché non buttarcene dietro altri tre, per fare il lavoro completo?". Naturalmente se invece loro stessero a scegliere il film giusto per Venezia, quello per Locarno o Torino, verrebbero a spendere magari duecentoventi o duecentocinquanta milioni, per cui fanno proprio un ragionamento in soldoni, ma chi ne fa le spese sono alla fine quei film condannati a non essere più ben visti, perché sono stati mal visti in occasione della prima mondiale, quindi non possono più trovarsi in concorso altrove. Io non credo naturalmente nei concorsi, anche se sono stato costretto a fare un concorso dopo aver lavorato dodici anni nei festival senza concorso, e mi rendo conto che si tratta di una costruzione artificiosissima, di cui però si ha bisogno per alzare la reputazione del film, per cui se è inserito in concorso automaticamente viene ritenuto più interessante, facendo crescere la voglia di vederlo. Ci vorrebbe dunque un discorso a monte fatto con i capipagina dei quotidiani o con i responsabili dell'informazione radiotelevisiva, per capire quanto possono coprire, ad esempio, di quanto non uscirebbe dal festival a due settimane nelle sale. Offrire in cambio qualcosa che sicuramente verrebbe richiesto per ottenere un minimo di attenzione per quello cui, normalmente, non verrebbe regalata quell'attenzione".

 

MARIO SESTI: " A volte ho l'impressione che la critica usi degli strumenti totalmente inservibili se adottati per comprendere come il cinema italiano possa uscire da questa sorta di isolamento, chiamiamolo così perché la parola crisi è una parola molto inadatta, che forse poteva servire negli anni Sessanta o Settanta quando c'erano delle fasi fisiologiche di contrazione del mercato, oppure di grandi cambiamenti generazionali. Il vero scenario, che poi è così più grande di noi che sarebbe anche presuntuoso pensare di poterlo modificare o contrastare, è che c'è in tutto il pianeta un unico linguaggio che è quello del cinema hollywoodiano e tutto il resto… e poi non è che il cinema europeo goda di una migliore saluto rispetto al cinema italiano, anzi; e in questo senso il ragionamento di Paolo è ancora più interessante per il fatto che probabilmente il cinema italiano gode, anche se questo può apparire paradossale agli occhi di chi analizza il box-office, di una ricchezza di soggetti, nel senso di registi, di piccole produzioni, di attori che forse solo la Francia ha e magari la Gran Bretagna, anche se da sempre la Gran Bretagna è una specie di appendice di Hollywood. Ciononostante il pubblico medio cinematografico, che è un pubblico costante che esiste, perché il cinema è comunque la cosa che tutti vanno a vedere ed è questa la cosa che ci interessa, nel senso che alcuni amano la musica rock, altri la classica, qualcun altro ama la pittura ma tutti vanno a vedere i film; questo ci dispiace ancora di più perché siamo in un paese in cui il cinema era la prima forma di intrattenimento, tanto che avevamo il numero maggiore di spettatori dopo la Russia e l'America, una cosa storica e prodigiosa, ora irrimediabilmente dissolta. Mi chiedo se, rispetto a questa solidarietà o a questo fiancheggiamento che anche secondo me c'è stato… è vero poi che a volte la critica ha preferito, specie negli anni passati, non parlare del cinema italiano per non fargli del male, e per me questo è stato un errore… ma penso che l'unico interlocutore che questi registi hanno non sia nelle produzioni, e nemmeno nel pubblico: provate a chiedere ad un ragazzo di diciotto o vent'anni, ovvero la fascia dei consumatori, per lui probabilmente il cinema italiano nemmeno esiste o viene considerato come fosse la poesia.
Ci sono delle volte in cui il cinema italiano riesce ad attraversare questa terra di nessuno e a raggiungere un pubblico generoso, ma questo non succede perché il film è una commedia e non un film d'autore, o perché ha utilizzato determinati attori invece che altri, perché l'unico in grado oggi di garantire è Benigni, non c'è nessun'altro in grado di fare altrettanto. Perché allora ogni tanto questo succede? Mi piacerebbe allora rimontare la vostra domanda e capire, al di là di una situazione per certi versi irreparabile, come mai ad esempio Soldini ha fatto quattro film, di cui tre con risultati molto modesti e con il primo che ha incassato più del terzo, finché improvvisamente ha intercettato un desiderio, una domanda… a me piacerebbe, come critico, più che classificare o descrivere porre anche al cinema italiano un problema di maggiore rischio, anche se so che è una parola facile. Ad esempio, il film di Soldini è un film sulla mediocrità, e la mediocrità è il problema di questo cinema che vive sempre costretto, magari da qualche editoriale, ad un confronto con un grandissimo passato. Io non ho visto un ED WOOD all'italiana, e sarebbe un film da fare su questo cinema, il film sulla tragedia della mediocrità, di chi magari ha il talento, un'idea ma non ha le possibilità, le tecniche o non ha incontrato le persone giuste per esprimersi, qualcuno disposto a rischiare, gli attori capaci di innamorarsi di un progetto o anche il pubblico capace di amarlo. Secondo me il film di Soldini possiede pietà e una grande ironia nei confronti della mediocrità, e questa è stata la sua capacità. Noi critici, oltre al fatto di dover semplicemente descrivere, comprendere, valutare, segnalare, fare un tratto di strada assieme al cinema, dovremmo forse fare qualcosa di più, interrogarci sui temi, sullo stile di reazione a quello che ci riguarda. Quando un film riesce a fare questo qualcosa succede, e il pubblico li va a cercare; il solo fatto che a volte questo accada segnala un grosso limite del nostro cinema, e il fatto che non si riesca a superarlo dipende da noi, è un nostro problema, ancor prima che del pubblico, del cinema americano, delle istituzioni, delle leggi sbagliate, dei produttori che non ci sono".

MARCO MULLER: "Vorrei aggiungere una cosa a quanto diceva Mario, che mi sembra molto sana come visione. Basta guardare fuori dall'Italia per capire come le risposte vadano trovate in quella direzione. L'esempio più clamoroso è naturalmente quello di Parigi che, da sempre, è stata una straordinaria cineteca del presente cinematografico perché in Francia si riesce a vedere ancora quasi tutto: tutto quello che danno in festival in qualche modo arriva alla distribuzione francese; escono dai quindici ai venti nuovi titoli ogni mercoledì. Molti di quei film escono anche perché il distributore che li ha comprati, lo ha fatto con i soldi di una televisione, un piccolo investimento, per cui deve farli uscire in sala altrimenti la televisione non glieli compra; li butta lì e dopo due settimane scompaiono, staccano due o tremila biglietti, però allora questa straordinaria varietà non garantisce da sola che vengano trovati i gruppi di spettatori sensibili, giusti per questi film. Diceva prima Mario che la lingua mondiale del cinema è il cinema hollywoodiano, e che quindi è necessario inventare altre strategie linguistiche per fare breccia lì dentro: per parlare come gli americano non c'è dubbio che da una parte vi sia un sistema basato principalmente sull'entertainment, con all'interno alcuni singolarissimi cineasti sabotatori, quelli di cui mi sono interessato in particolare negli ultimi anni, da Joe Dante (cfr. intervista a Joe Dante su KMX) allo stresso Paul Verhoeven al quale abbiamo dedicato un omaggio quest'anno, cioè quelli che dall'interno riescono a non far funzionare perfettamente la macchina, in qualche modo a svitare qualche bullone in modo che il ronzio della macchina suoni differente, ma non c'è dubbio che se le abitudini di visione dei diversi gruppi di spettatori però sono sempre le stesse, è proprio quello che dice Mario, cioè bisogna anche riuscire a capire che… chi si occupa del marketing, chi fa le indagini di mercato forse delle risposte le può dare, ovvero perché questo film ha sfondato, perché in quelle condizioni particolarissime quel tema o quell'opzione stilistica sono state meglio ricevute; d'altra parte c'è anche un ragionamento molto terra terra legato ai modi di distribuzione, cioè perché a questo punto è stato possibile tenere quel film sugli schermi più di due o tre settimane, perché è stato possibile incunearsi in un interstizio? Naturalmente, io dalla Svizzera questa cosa l'ho osservata male, ma l'impressione è che per PANE E TULIPANI sia successo proprio questo: si è partiti piccoli e poi c'è stata l'intuizione di quello che il film poteva arrivare a dare, c'è stata una scommessa, c'è stato un distributore che ha deciso in qualche modo di investire altri soldi, e a quel punto sì che le cose hanno cominciato a funzionare. Nel caso di PANE E TULIPANI qualcuno che al momento giusto ha deciso di raddoppiare il numero di copie, di forzare il blocco, riuscendo a far partire la cosa. In altri casi, con altri film che magari avrebbero potuto sfondare gli operatori che avrebbero dovuto prendere queste decisioni o non le hanno prese o non se ne sono accorti in tempo".

MARIO SESTI: "Questo è vero. Il caso di Soldini però lo conosco abbastanza bene avendo partecipato attivamente almeno al suo film precedente: forse quello che dici tu effettivamente non è successo, ma
è singolare come sia sempre il pubblico a scegliere; il pubblico capisce subito quali siano i film che gli interessano veramente
. Anche se questo può sembrare un po' romantico, succede più volte di quanto uno possa credere. Io faccio questo caso anche per autori che ci sono lontani, ma che probabilmente se ce ne fossero di più, almeno sul piano commerciale avremmo più sorrisi: penso a Pieraccioni. Io ricorderò sempre che chi ha prodotto e distribuito il primo film di Pieraccioni lo ha fatto uscire a Firenze poco prima di Natale nella convinzione che sarebbe durato pochi giorni; è stato buttato lì proprio come si abbandonano i film delle piccole distribuzioni. Il pubblico lo ha scelto, è andato a cercarlo!v E' su questa schizofrenia dei due atteggiamenti che dobbiamo ragionare: o lo rifiuta completamente perché pensa che sia una cosa proprio non lo riguarda, come proporre della poesia a chi non ha alcun interesse, oppure ad un certo punto capisce che quello è il film che gli piace, è quella che, con un termine usato solitamente dai giornali, si chiama l'intercettazione. L'intercettazione, che è casuale, caotica, isterica, è il movimento che genera qualcosa, e questo si raggiunge solamente a partire da un'infinità di tentativi, dietro i quali ci sono un'infinità di energie sprecate, frustrazioni. Il caso di Soldini è esemplare, o anche quello di Piccioni, un regista che in parte è stato appoggiato, in parte la critica lo ha maltrattato, il pubblico all'inizio gli ha dato qualcosa e poi lo ha completamente rifiutato; però lui ha insistito, e anche questa è una concezione romantica, ma è l'unica di cui disponiamo, ma se per qualcuno il cinema è una cosa necessaria, per cui ho si fa o si finisce nel dimenticatoio della propria esistenza, nella più totale frustrazione, è proprio questa tensione che garantisce che dietro una serie di tentativi, dopo i quali magari io e te probabilmente avremmo rinunciato, ci sia qualcosa. Essere rifiutati tre volte dal pubblico è tanto, è tantissimo! E poi significa sottoporre la propria identità e il proprio equilibrio ad un giudizio molto severo. Il caso di Piccioni in questo senso è proprio esemplare: il suo è un cinema meno elitario, che si apre di più, e il fatto di essere rifiutato proprio quando volevi aprirti a più persone è ancora peggio. Ad un certo punto lui, con la sua soggettività che ha bisogno di comunicare con qualcun altro e che ha i giusti mezzi per farlo perché dice delle cose che interessano, si è trovato di fronte a questo martirio, però ha continuato. Ed è anche questo il bello, perché non facciamo tutto questo perché dobbiamo contribuire ad un'industria dell'economia italiana, lo facciamo perché siamo convinti che ci sia qualcosa che ci attrae al di là dei numeri, del destino individuale, è questo che ci piace, è questa la bellezza".

MARCO MULLER: "Anche perché, se non c'è il carburante per fare andare la macchina commerciale, quando un Soldini cercherà di far circolare il suo nuovo film, domani, da un romanzo, nerissimo, dell'ungherese Agotha Kristof, a questo punto verrà immediatamente bastonato perché gli diranno: "E, ma questo non lo fa un miliardo nelle arene estive!", per cui immediatamente ritorna nella lista nera dei cineasti che non sanno comunicare… e invece no! E' chiaro, come diceva Mario prima, ovviamente, se vuole, proprio perché parla di uno strato sociale che è ancora quello che vuole andare al cinema e riconoscersi in quello che vede sullo schermo, lì azzecca quella coincidenza, però lui deve potersi offrire la libertà di fare esattamente il contrario! E, invece, ormai c'è una specie di spirale perversa per cui, una volta che si azzecca un film, uno dovrebbe essere condannato sempre a ripeterlo. Cosa che è successa diverse volte nel cinema italiano, cioè di registi che hanno dovuto ripetere lo stesso film diverse volte, fino a quando non hanno esaurito il potenziale, per cui si ritrovavano inesorabilmente in fondo alla scala e dovevano ricominciare da capo, piano piano".

KMX: Non pensate, a questo proposito, che a livello stilistico proprio film come PANE E TULIPANI, OVOSODO e LA LINGUA DEL SANTO, i quali hanno avuto o potrebbero avere un grande successo presso il pubblico, e in realtà rappresentano un passo avanti compiuto dai registi verso la gente, debbano ciò alla scelta, vedi appunto Soldini, di abbracciare per la prima volta la commedia come mezzo espressivo?

MARIO SESTI: "Guarda, però, che di passi avanti verso il pubblico è lastricato l'Inferno degli Autori… io penso che siano più documentabili i tentativi falliti di passi avanti verso il pubblico che… anche i Vanzina ne hanno fatti infiniti, hanno tentati vari generi, nella convinzione che, magari, invece della loro commediaccia di Natale, potessero fare qualcos'altro e spesso, invece, sono stati duramente puniti. In generale, il passo avanti verso il pubblico non è mai quello che uno pensa di poter identificare con la commedia o… in definitiva, come tentavo di dire prima, non sai mai qual è il passo avanti verso il pubblico, fin quando non lo fai e fin quando non capisci che ha una qualità che il pubblico è in grado di apprezzare e non coincide mai, soprattutto, con quelli che vengono considerati passai avanti, in maniera un po' convenzionale, da parte della critica, come per esempio la scelta della commedia. Commedia, in Italia, significa sempre lanciare un cenno d'intesa verso il pubblico popolare. Ma non è detto. Il film di Piccioni, ad esempio, è drammaticissimo, senza riscatto, senza speranza, di un'amarezza abissale. Eppure quello è stato un passo avanti verso il pubblico, senza che prima si capisse che fosse quello. In generale, il discorso di Paolo è decisivo, ma non soltanto oggi. Un paio di stagioni fa, ma anche di recente, c'è stata questa polemica che io ritengo veramente offensiva e che la dice lunga sul grado di conoscenza delle cose del cinema: alcuni esponenti politici, in particolar modo della destra, hanno rimproverato allo Stato di finanziare opere che, in realtà, non producevano degli esiti. Basterebbe dire che quelle opere vengono prodotte proprio perché non c'è un mercato in grado di sostenerle, altrimenti che le si finanzia a fare! Però, l'anno di LADRI DI BICICLETTE c'è stato un film di Macario che fece molto di più di quanto, in proporzione, ha fatto Pieraccioni, anche mille volte di più, ma se lo chiedi al pubblico, non c'è chi se lo ricordi. Secondo questi criteri un LADRI DI BICICLETTE non lo si dovrebbe fare e la dimenticanza di questo è veramente un segno di gravità. Questo fatto che se lo Stato finanzia opere commerciali, allora che le finanzia a fare, o, se le finanzia e poi non prendono soldi allora perché le ha finanziate… lo Stato deve finanziare tutto ciò che, forse, deve essere fatto proprio perché non incontra un pubblico in quel momento, no? E questo lo dico anche da un punto di vista imprenditoriale. Una volta Coppola disse che i profitti di un film non si calcolano solo in base ai profitti che fa quando esce, ma si calcolano come si fa con i profitti di un palazzo: quante volte nel tempo riesci a sfruttarlo. LADRI DI BICICLETTE… o il più grosso disastro economico del cinema italiano, il GATTOPARDO, in realtà ha prodotto, sì, il fallimento del suo produttore, ma la banca che ha acquisito i diritti, ancora ci campa! Questo è fondamentale capire: il vero profitto di un film si calcola sui tempi lunghissimi, molto di più adesso che allora, perché gli sfruttamenti si sono moltiplicati."

MARCO MULLER: "Sempre a proposito di PANE E TULIPANI, un altro elemento riguarda la particolare scelta degli attori, perché non possiamo certo dire che il nostro attore nazionale svizzero Bruno Ganz possa essere considerato una star, e con buona pace della strepitosa Licia Maglietta, che è un'attrice straordinaria, anche lei non è una star. E questo è un sintomo interessantissimo del fatto che, in questo momento, non ci deve essere per forza il comico televisivo, il volto che tutti possono riconoscere, ecc. Ma come si fa a questo punto ad attestarsi su queste posizioni e non tornare indietro? Prendete ad esempio il caso de I CENTO PASSI, un successo di questi ultimi giorni, che è un film dove finalmente si afferma finalmente il fatto che ci siano anche altri attori rispetto ai visi consueti. Io mi sono sempre chiesto come mai i Fantastichini o gli Sperandeo del cinema italiano non venissero valorizzati meglio; una delle spiegazioni può essere che ci si è talmente abituati a costruire i film sempre su quegli stessi dieci nomi, per cui nessuno aveva più interesse. E' una questione di abitudine, la gente perde l'interesse a domandarsi perché non si possa rivolgersi ad altri, comunque bravissimi o di indubbia versatilità. Ad esempio Sperandeo ha fatto nello stesso anno I CENTO PASSI dove fa il mafioso mentre fa lo sceriffo, il giudice d'onore che combatte la mafia in un western all'italiana di Walter Toschi, UN GIUDICE D'ONORE, assolutamente e specularmente opposto come scelta stilistica e di spettacolo rispetto al film di Marco Tullio Giordana".

MARIO SESTI: "Un attimo… sempre rispetto a questi passi avanti, parlo per averne conosciuto la vicenda nel caso di Soldini; nel caso di Mazzacurati, posso immaginarmelo: si tratta di due casi di sceneggiature che arrivano sul tavolo dei produttori sostenute lungo l'intero tragitto da una voce fuori campo. E questo viene ritenuto un atto di straordinario intellettualismo, quindi sono film che poi, nel momento produttivo, non vengono concepiti come passi verso il pubblico. Un passo verso il pubblico è VACANZE DI NATALE. Tutto ciò che sta tra VACANZE DI NATALE e Tarkovskij non è considerato popolare: la percezione è questa. Si tratta in realtà di due sceneggiature molto ambizione, per cui quello che voi chiamate "passo verso il pubblico", in realtà è qualcos'altro."

KMX: Noi lo dicevamo alla luce di questa inchiesta che abbiamo condotto tra i giovani (vedi la VIDEOINCHIESTA realizzata da Andrea De Candido e Gabriele Francioni per KATAWEB CINEMA): quello che ci colpisce è vedere la loro limitatezza nel cogliere solo quell'aspetto del film. Se per caso hanno visto PANE E TULIPANI e invece gli proponiamo LE ACROBATE loro non notano assolutamente i punti in comune: al cinema ci sono andati solo per l'emergere della commedia, per cui è vero, come diceva Paolo, che non c'è stata una scelta deliberata, ma purtroppo il pubblico sembra essere arrivato al film proprio per questo. E' abbastanza drammatico…

MARIO SESTI: "Devo fare delle considerazioni generali che riguardano anche il tema della vostra inchiesta: è anche con un po' d'imbarazzo che dobbiamo prendere atto di questo scarso appeal, ma è anche vero che non sono solo motivi deteriori quelli che determinano il fatto che qualcosa come l'identità di una cinematografia nazionale non venga percepita dal suo pubblico. In questo ci sono dei fattori bassi ma anche altri non necessariamente deprecabili: il fatto che le persone con cui avete parlato avessero delle difficoltà non implica forse che non avrebbero avuto le medesime difficoltà a riconoscere il cinema tedesco, francese, ecc. Per cui anche noi dovremmo trovare un modo diverso per affrontare la questione: il perché la gente non vada a vedere il cinema italiano è forse una domanda che non è nemmeno poi così importante. Forse bisogna chiedersi quali siano le cose che riteniamo realmente necessarie, che non ci vengono date da quel cinema che invece ha un grandissimo seguito presso il pubblico, ma che, e questo è il vero problema, in realtà è un cinema limitatissimo. E' provocatorio, ma se il cinema italiano ci desse qualcosa che al contrario ci aspetteremmo dal cinema italiano, forse saremmo ancora più in difficoltà, perché non è detto che per forza dobbiamo sostenere l'Italia come se ci trovassimo in un qualche campionato mondiale; questo è un approccio che certamente non mi riguarda, ma non riguarda nemmeno Paolo e neanche voi, naturalmente. Probabilmente è anche necessario formulare questa domanda, per capire effettivamente perché non c'è un cinema che parla di cose che ci stanno molto a cuore, e ne parla così raramente tanto che poi ci scordiamo perfino quali siano queste cose; quando questo invece accade, come in PANE E TULIPANI, ci rendiamo conto di quanto ci mancano. E' il caso del film di Piccioni, ma io ci metto anche OVOSODO di Virzì, che quando venne premiato qui a Venezia ebbe una reazione critica veramente di retroguardia, soprattutto da parte dei critici italiani, per i quali il fatto che uno imitasse Germi o Monicelli fosse un autore commerciale. Quindi la domanda forse andrebbe riformulata in questo senso: perché il cinema, che anche noi critici rappresentiamo, riesce così raramente a parlare di cose che riteniamo indispensabili?"

KMX: Ma non può essere che, alla base, manchi un concreto confronto, sia tra gli autori, che tra gli autori e la critica? Ad esempio, alcuni anni fa si facevano, certamente per ragioni precise, dei film "collettivi" che erano occasione di incontro e di reciproco stimolo o sfida per gli autori. Invece oggi abbiamo l'impressione che, proprio per scelta, molti registi siano degli isolati. Noi, ad esempio, abbiamo parlato con Mimmo Calopresti e con Gabriele Salvatores (cfr. FORUM 1-b: la regia): Calopresti, in parole povere, si è detto non disposto a questo tipo di confronto, mentre Salvatores si diceva quasi speranzoso o comunque ben disposto ad operazioni di questo tipo o simili. E per quanto concerne la critica, non è possibile che, invece di limitarsi a descrivere, molti operatori provino a produrre un lavoro più costruttivo, in grado di mettere in evidenza ciò che, come diceva lei poco fa, ciò che c'è di buono, ciò che in realtà manca, nella speranza che altri imbocchino quella strada, senza per questo imitare chi ha magari individuato qualcosa di realmente buono, tornando, solo in questo senso, ad una situazione di trent'anni fa? Pensiamo ad una critica militante come, ad esempio, è stata in Francia quella dei Cahiers du Cinema…

MARIO SESTI: "Concordo perfettamente, con qualche elemento di scetticismo in più, nel senso che nella mia esperienza poi ho notato che l'antropologia dei registi è un'antropologia molto rigida e contempla sempre meno solidarietà reciproca e disponibilità al confronto. Questa cosa del confrontarsi, delle battaglia collettive… c'è stato un momento che un celebre storico ha definito "l'età dell'oro" in cui questo tipo di comportamenti è sembrato lecito, importante e raggiungibile. Secondo me si tratta di un'eccezione: in generale trovo invece inevitabile che nel territorio di questa ricerca verso il pubblico, in un campo in cui viene messa in gioco la propria soggettività, in operazioni che sono forzatamente narcisistiche, ripeto è chiaro che uno debba attaccarsi a delle cose, lavorarci, difenderle, per cui la competizione diventa pazzesca e la disponibilità al confronto esclusivamente formale. E questo mi sembra il caso di spostarlo anche sul piano della critica, nel senso che anche i rapporti tra critica e autori si svolgono, sul piano formale, all'insegna del confronto, dello scambio, poi in realtà abbiamo anche bisogno di una diffidenza reciproca, anche perché si tratta di due mestieri molto diversi, che possono coincidere solo in determinati e piccoli momenti, quando emergono dei valori che vengono improvvisamente condivisi. In generale l'interesse dell'autore non coincide quasi mai con quello del critico: io sono per uno… adesso scontro sembra una parola enfatica, ma insomma una forma di… colluttazione intellettuale, che ti vede criticare per tre volte un regista per poi, con la quarta, ammettere che finalmente ce l'ha fatta, oppure che tutto quello che ti sembrava fosse un limite è stato superato. Ma l'autore non accetta questo, e fa bene, perché è giusto che sia così. Critica e regia hanno due fini completamente diversi: il regista alimenta ininterrottamente la difesa di se stesso all'interno di un mondo professionale e psichico complicatissimo, una vera giungla. Quindi, per convincere un produttore a darti dei soldi, per spingere uno sceneggiatore a scrivere quello che vuoi, per convincere un attore o la troupe bisogna essere così convinti di se stessi da non lasciare lo spazio per un confronto; io questo l'ho capito solo dopo tanti anni. Quello che voi dite succede: io ho con dei registi dei rapporti che però sono privati, sono bipolari, soggettivi; con alcuni registi riesco in effetti sia a litigare sia a condividere le scelte, però sono casuali come gli amici che uno si sceglie nella vita, non può essere una cosa sistematica, non esiste un metodo".

KMX: I giovani che abbiamo intervistato ci sono sembrati assolutamente entusiasti nei confronti di forme d'arte quali la musica mentre, per quanto concerne il cinema, lo sentono distante anche per la mancanza di una formazione: a nessuno di loro, a differenza di alcuni stranieri che abbiamo incontrato e che già dal liceo visionano e studiano molte pellicole, l'idea di intraprendere una carriera nel cinema li respinge, non per mancanza di passione, ma per una carenza effettiva di concrete possibilità. Per questo fin dai quindici/diciotto anni spostano il cinema tra le cose che non fanno parte della loro quotidianità come, al contrario, un concerto rock. Al cinema vanno dalle due alle quattro volte all'anno, mentre ad un concerto vanno anche tre volte al mese. Secondo voi è possibile che un problema, in Italia, esista già a partire da quelle che sono le effettive possibilità di fare il cinema? Ovvero: al di là della Scuola Nazionale di Cinematografia (ex Centro Sperimentale), difficilmente accessibile e dunque scoraggiante e senza grandi prospettive, ci sembra manchi un chiaro percorso istituzionale: non ci sono, ad esempio, istituzioni simili alle università di cinema statunitensi, che segnano un percorso chiaro, mirato con uno sbocco pressoché definito. E poi: è giusto che i finanziamenti statali, quelli assegnati con l'Articolo 8 vengano quasi sempre indirizzati verso progetti di sicuro interesse nazionale (ad esempio film sulla resistenza, sugli anni di piombo, ecc.) e non in direzione di film maggiormente sperimentali, innovativi, magari anche sul piano dello stile?

MARIO SESTI: "La penso anch'io nello stesso modo, e ci sono due discorsi diversi nella vostra domanda, ovvero uno è formare uno spettatore o qualcuno in grado di trarre beneficio, informazione o semplicemente divertimento dalla maggiore conoscenza del cinema, mentre l'altra concerne il reclutamento di talenti che, per definizione, è molto affidata a caso. Negli ultimi due anni io ho avuto la possibilità di frequentare in maniera casuale ma abbastanza da vicino la New York Film Universiity, che è un posto da cui sono usciti talenti come Spike Lee o Shyamalan, il regista de IL SESTO SENSO, e la percentuale del talento non è che sia diverso. Per riprendere il parallelo che fai tu, nel cinema grava questa cosa per cui approfondisce chi il cinema deve diventare regista, ma non è detto che chi impara la musica diventi per forza un grande esecutore. Anche per ragioni di natura del mezzo e di tecnologia, uno potrebbe imparare le regole della sintassi e della grammatica cinematografica per fare meglio i filmetti familiari; perché bisogna per forza fare del cinema per mandare la gente al cinema o fare miliardi? Invece novantanove volte su cento chi va alla Scuola Nazionale di Cinema lo fa perché vuole diventare un grande regista, o un grande sceneggiatore o un grande attore. Dunque il discorso sulla formazione è assolutamente legittimo, per cui certo la scuola italiana non mi sembra all'avanguardia, ma più importante per quanto concerne l'idea generale della formazione: è un po' come l'alimentazione, se dai ad un adolescente la possibilità di non assaggiare sempre le stesse cose, perché dovrebbe avere la curiosità di mangiare qualcos'altro. Lo stesso discorso dovrebbe fare la scuola: tutti escono avendo letto il Manzoni ma solo per qualcuno è un'esperienza diciamo decisiva, e va bene lo stesso. E' grave che moltissimi escano senza aver mai visto un film di Rossellini o De Sica, ma questo è un discorso diverso rispetto a quello della formazione professionale".

KMX: E' vero, ma molti di questi ragazzi ci hanno fatto capire che se nella loro città o nelle vicinanze avessero trovato una scuola, anche privata, in grado di dar loro la possibilità di intraprendere, esattamente come accade per l'università, una scelta alternativa, anche senza diventare per forza registi, magari l'avrebbero scelta. Il problema è che non c'è proprio questa possibilità…

MARIO SESTI: "Sì, su questo sono d'accordo, e ciò d'altra parte nasconde una chance di approccio e di aggiramento al problema del cinema italiano: tutte le persone che magari vi hanno detto che non vanno a vedere film italiani perché magari non ci pensano o non la considerano un'esperienza eccitante, sono tutte persone che, secondo la mia esperienza, se gli venisse data la possibilità di trascorrere alcune ore sul set di un film italiano correrebbero. E' tutta gente interessata al mestiere del cinema in assoluto, vorrebbe parteciparvi, magari facendo il regista ma che tra il più modesto dei film americani e un film italiano di qualità sceglierebbero quasi sempre il primo: questa dunque è un particolare percorso di aggiramento che andrebbe approfondito, e per il quale forse la scuola sarebbe il luogo ideale; naturalmente tutto ciò dovrebbe implicare l'esistenza di una classe politica particolarmente disponibile e intraprendente e molte altre componenti perché, comunque, non si tratta di una cosa organizzabile solo a tavolino. Esiste comunque da diversi anni un movimento, soprattutto all'interno del sindacato dei critici, anche se con delle proposte un po' troppo schematiche e scolastiche legate all'inserimento, ad esempio, dello studio della storia del cinema, che per me sarebbe sbagliato, perché non è questa che serve ma qualcosa che potesse essere definito magari comunicazione per immagini e suoni".

KMX: Allora, per chiudere, anche alla luce di tutto quanto abbiamo detto finora, vi chiederemmo un giudizio complessivo sulla selezione italiana a questa mostra di Venezia. Cosa ne pensate di film come IL PARTIGIANO JOHNNY, I CENTO PASSI, LA LINGUA DEL SANTO, ESTATE ROMANA, ecc.?

MARIO SESTI: "Io trovo che la selezione italiana non sia felicissima, e questo non dipende soltanto dalla selezione ma dal giudizio sui film presi singolarmente che, per il mio gusto, non sono molto positivi. La selezione, comunque, è una selezione, cioè un atto assolutamente passivo: se il festival si fosse tenuto a gennaio, probabilmente Barbera avrebbe preso PANE E TULIPANI, PREFERISCO IL RUMORE DEL MARE o SANGUE VIVO, che credo sia un film straordinario, e dunque anche il mio giudizio sarebbe stato molto diverso. Dunque responsabile della qualità non è la selezione, che deve lavorare sul materiale disponibile; io comunque avrei preferito un maggior rigore, perché credo che sul cinema italiano la direzione sia stata un po' troppo disponibile al compromesso".

KMX: Non pensate che i film "minori" della selezione, come quelli di Scimeca, De Bernardi o Garrone, siano stati abbandonati senza protezione, mandati allo sbaraglio, senza quindi la promozione di una qualche sopravvivenza una volta concluso il festival?

MARIO SESTI: "Una graduzione all'interno della selezione è inevitabile poi, per il mio gusto, io avrei preferito Scimeca in concorso e Giordana fuori, ma delle scelte devono comunque essere fatte. Il problema della promozione può essere affrontato solo in minima parte dal festival, perché riguarda invece chi il film lo produce op lo mette in commercio. Guardate che lo spazio che la stampa ha dedicato a questi film non è stato ingeneroso. L'unica cosa che si può dire in questi caso riguarda lo spazio che gli si dedica nel processo dell'informazione, e in questo senso non penso che su questi film sia stato scritto poco. Il film di Garrone è un film che molto probabilmente non è stato concepito nemmeno per uscire nelle sale, perché ha una struttura di appunti notazioni diaristiche, ma nonostante questo i giornalisti ne hanno parlato, se ne sono occupati, e noi di Kataweb, ad esempio, lo abbiamo fatto anche in maniera moto approfondita e articolata. Non si deve addossare al festival la responsabilità del destino che un film avrà successivamente, questo non è giusto".

KMX: Chiediamo anche a Stefano Della Casa se ritiene anche lui che i festival maggiori possano diventare un'occasione per far incontrare gli operatori del settore e farli interrogare sulla possibilità di mettere in atto delle sinergie volte non a difendere aprioristicamente il cinema italiano, bensì a riaccendere un dibattito altrimenti carente, sulla base del quale riuscire, almeno, a ritrovare una possibile linea comune del nostro cinema. Gabriele Salvatores si è detto entusiasta dell'ipotesi di poter tornare, in futuro, a lavorare all'interno di una "tribù" artistico-creativa; Mimmo Calopresti, invece, preferisce una strada da percorrere in solitudine...

STEFANO DELLA CASA: "Guarda, io penso che, innanzitutto, si debba capire in generale che cosa sono i festival: sono tantissimi e sempre più inutili, essenzialmente per un motivo, e cioè che sono schiavi della mediatizzazione. Mi spiego: la maggior parte dei miei colleghi e delle volte anch'io, per quanto inconsciamente, ci preoccupiamo troppo di far sì che l'evento sia tale e che i giornali si occupino della manifestazione, che non di fare qualcosa che sia veramente utile ai film. Il presupposto, infatti, dovrebbe essere che i festival servano i film e non il contrario. Allora, se tu ti limiti a fare delle anteprime dei film che stanno uscendo e a prendere, di conseguenza, l'attore che è in tournée in Europa per fare il giro di presentazione del film, fai una cosa poco utile, perché io, da buon provinciale, quando sono andato a Roma, sono rimasto colpito soprattutto dal fatto che, questi divi, in realtà li vedi tutti: da John Travolta a Richard Gere a Robert De Niro, io li ho conosciuti tutti. Se i festival devono servire a questo, allora servono veramente a poco. I festival, col fatto che ormai sono così tanti, fungono da distribuzione alternativa dei film che si sa non usciranno poi in sala. Finalizziamoli, allora, a dare visibilità a quelle opere che altrimenti non potrebbero averla: film che non hanno casting, che hanno problemi commerciali, o perché troppo lunghi o troppo corti o perché non sono prodotti di "finzione". E' necessario quindi che i festival agiscano nelle pieghe del mercato, anche perché in queste pieghe ci sono le cose più interessanti del cinema italiano. Un'altra forma scorretta è quella di pensare, tra l'altro, che il cinema si identifichi con il lungometraggio distribuito nelle sale: quello è un formato che è destinato a diventare desueto. Secondo me la percentuale di cinema americano che gira per le sale (adesso siamo al 70%), e che non si combatte col protezionismo, diminuirà progressivamente in futuro. Perché non ci si chiede come mai i documentari girati da registi italiani affermati sono sempre molto interessanti, o perché i cortometraggi presentati nelle varie rassegne specifiche dicono cose che i lungometraggi non dicono o, ancora, perché gli sceneggiati italiani hanno regolarmente un successo maggiore rispetto a quelli americani? Perché "Commesse" o "La piovra" vanno molto meglio, dati alla mano, dei loro corrispondenti americani? Allora, se noi guardiamo al cinema come ad un fenomeno "espanso", che si occupi di varie cose e in mille forme, ecco, quello credo sia il "posto" in cui fare i festival. Inoltre, fare cinema è un mestiere che, alla base, ha le pubbliche relazioni, nel senso che l'uso corretto che un regista, oltre che un critico, deve fare dei festival è, oltre a quello di vedere film e di confrontarsi con altre realtà, quello di conoscere, di entrare in sintonia, di capire che cosa si chiede, che cosa può fare lui per entrare in contatto con quelli che possono farlo lavorare. Tu parlavi di Mimmo Calopresti, che, tra l'altro è un mio amico d'infanzia: lui veniva da una lunghissima esperienza di cortometraggi e documentari, ha conosciuto Nanni Moretti a Torino, quando era in giuria, e da qui è nato il fatto di poterlo avere nel suo primo film come protagonista (LA SECONDA VOLTA, ndr). Giustamente, secondo me, Calopresti adesso dice "faccio quello che voglio io": ha avuto al primo film il regista italiano più famoso all'estero! Quest'anno, a Torino, io vorrei che quelli che seguono per la RAI o MEDIASET le opere prime e seconde, venissero e, invece di usare le piantane o i riflettori, facessero qualcosa di molto semplice: un incontro con questi autori agli esordi per dire loro "io sono quello, ad esempio, che si occupa di opere prime e seconde per RAICINEMA, e voglio questo tipo di prodotto" rivolti, quindi, non alle telecamere, ma a gente che vuole fare realmente i film. Ecco a cosa devono servire i festival: smetterla di essere qualcosa per cui fai di tutto per avere sedici ore la presenza di Val Kilmer!!! Ma qualcosa che serva in tutti i modi a difendere i film che proponi: una struttura di servizio. Infatti il festival migliore è quello che non si propone come tale, al limite senza una forte identità come tale, ma nel quale anche un prodotto che duri dieci secondi o sei ore è difeso, viene portato avanti, se ne parla. Anche questa figura del caporedattore che censura se le cose di cui si parla non sono glamour, sono balle! Se uno punta i piedi, alla fine la cosa la fa uscire e ci sono mille modi per farlo. Anche perché è molto più facile intervistare Brad Pitt, che parlare di un documentario di cui non si sa niente. E poi la curiosità intellettuale della critica è ridotta quasi a zero e questo fa sì che la critica scomparirà senza lasciare traccia. Quando si ritireranno gli ultimi tre o quattro grandi quotidianisti, che comunque sono avanti negli anni, scomparirà la critica, così come è scomparsa già quella teatrale. Ormai sono solo interviste ed anticipazioni. Quando accadrà, nessuno piangerà. Voglio dire, non vedo mobilitazioni…"

KMX: Secondo te è possibile che i festival, rimanendo per adesso al caso italiano, possano fare anche di più, tentando di proteggere i film presentati oltre la scadenza della manifestazione, seguendoli anche dopo, aiutando la promozione, se non altro, delle opere prive di quel glamour di cui dicevamo…

SDC: "…sai, i festival sono comunque una struttura temporanea e in questo senso non è che possano fare poi tanto. C'è, però, un altro punto al quale indirettamente i festival possono servire. Ad esempio, Torino incassa 140 milioni di biglietti staccati nel corso di nove giorni e di film dotati del famoso glamour non ne presenta praticamente nessuno: io mi domando perché durante i festival la gente fa la fila, si scanna per vedere film sconosciuti e poi in sala non li va a vedere nessuno. Allora, in questa ottica quello che possono fare i festival è avviare un discorso di collaborazione con tutta una serie di piccole sale di nicchia nelle varie città e cercare, in qualche modo, di veicolare un po' le cose, di creare un cartello per cui il prodotto sconosciuto viene protetto, lanciato, anzi, annunciando già durante i festival che il film tale sarà presentato nel tal posto o nel tal altro. Non è certo un'impresa facile, anche perché io stesso, se fossi esercente, non so quanto prenderei certi film! Voglio dire, la cialtroneria che c'è nella critica c'è anche tra i direttori dei festival! Detto questo, però, qualcosa si potrebbe fare su questo piano".

KMX: Sempre in quest'ottica, come dovrebbero differenziarsi o, addirittura, specializzarsi le varie manifestazioni italiane? Voglio dire: quale la specificità di Venezia, Torino…

SDC: "A Torino, quest'anno noi facciamo un grande investimento sui documentari e io ho tolto anche il discorso dell'inedito, anche perché, diciamocelo, con le uscite a ridosso delle anteprime festivaliere, ormai l'inedito non è più tale, per cui rinunciare a materiale già presentato era un sacrificio senza senso. Quindi anche se sono già passati, visto che sono le tematiche ad attirare il pubblico, noi investiamo su documentari e cortometraggi. Come differenziarsi… quello che secondo me non ha senso qui a Venezia sono i "Nuovi territori": è una sezione che rimane schiacciata in mezzo a mille altre cose. Anch'io sono riuscito a vederne solamente uno, trovando anche molta difficoltà nel riuscire a raggiungere la sala in orario… Non hanno molto senso queste proposte, dal momento che qui a Venezia ci si aspetta altre cose. Devono esserci molti meno film, perché è inutile essere tutti generalisti in un momento in cui le televisioni, ad esempio, tendono tutte a diventare di nicchia, di settore, tematiche. Anche i festival devono diventare tematici e ragionare in modo tale da far sì che gli altri sappiano di trovare a Venezia una certa cosa e a Torino un'altra… A me sembra assurdo dare film come THE CELL, che esce il giorno dopo in tutte le sale…"

KMX: …forse anche i cortometraggi…

SDC: "…certo, anche i cortometraggi. E' come se in un Gran Premio di Formula 1 tu facessi correre Schumacher, Hakkinen e poi ci mettessi anche Pantani!!! Cioè, ci sono più cose, la pista è più piena, ma insomma…."

KMX: A questo punto ti chiediamo un giudizio sulle selezioni italiane degli ultimi due anni, le quali, come ha detto Marco Muller, lo fanno assomigliare un po' ad una sorta di Sundance nostrano, con film come quelli di Zanasi, Di Majo, Maderna, Garrone, vincitori, magari, di festival di cortometraggi l'anno prima, e poi un po' mandati allo sbaraglio all'interno di una selezione (quella in concorso), che mai aveva visto prima prodotti così atipici e, al limite, "vulnerabili"…

SDC: "Guarda, Venezia del mio amico Alberto ha puntato molto su cose come l'organizzazione, e penso che abbia vinto la scommessa. Per il resto risente molto della stagione, nel senso che quest'anno c'erano in uscita molti film di una certa rilevanza e lui li ha presi. Più di tanto non potrà non risentire di quello che passa il convento. Ripeto, quello che mi trova meno d'accordo è l'insistenza nella presentazione di film americani che uscirebbero comunque, giusto per far fare la passerella ad Harrison Ford. C'è anche da dire che viene messo in atto una sorta di ricatto, perché poi i giornali parlano a partire da quello… ma, come diceva Alessandro Magno, i circoli viziosi la cosa più bella è tagliarli con la spada! Secondo me, in questi casi, uno prende una decisione e decide di non fare più una certa cosa, anche se è facile parlarne senza esserne coinvolti… La selezione in concorso è comunque sempre un grande minestrone…"

KMX: E cosa sarà dei film di Scimeca, De Bernardi, Rocca, ancora più vulnerabili di quelli appena citati?

SDC: "Mah, guarda, lì bisogna lavorare sapientemente ad un mercato di nicchia, puntando su di un tessuto connettivo che pochi conoscono ma che è fondamentale ed è quello dei cineforum. Io sono nato andando a fare i dibattiti nei cineforum… e posso dire che in questi posti si ricrea l'atmosfera dei festival. Stessa cosa nel circuito dell'"associazionismo", biblioteche e simili. Adesso non esiste più nulla di questo tipo. Il fatto è che io andavo al cinema 4/5 volte alla settimana e 6/7 volte a teatro…"

KMX: …mentre adesso i ragazzi, che abbiamo intervistato per Kataweb, confessano di andarci pochissimo, alcuni anche due volte all'anno…

SDC: "Certo, però va anche detto che le nicchie bisogna andarsele a cercare, con operazioni tipo la pubblicità mirata e cose simili… Se dovessi suggerire una strada suggerirei quella. E' un lavoro molto duro…una specie di occupazione progressiva del territorio, come i Vietcong."

KMX: Il problema è che anni fa parlare di letteratura, andare al cinema o a teatro era tutt'uno con la vita sociale, con l'aggregazione tra i giovani, che non avevano bisogno di spinte per trovare interesse in una serata "culturale". Non pensi che oggi questa spinta debba essere data dalla scuola, dall'istruzione, a partire anche dai licei, come accade in alcuni paesi europei?

SDC: "Attenzione: questo è sicuramente auspicabile, ma dobbiamo evitare il rischio che i ragazzi abbiano l'approccio sbagliato a queste cose, come è capitato a me, che ho cominciato ad amare Orazio e Ovidio dopo la fine dell'università. Sul cinema bisogna fare la stessa cosa. Ovvio fare in modo che non sia palloso. Un bel concetto base sarebbe quello di far vedere le cose e non solo di parlarle e di puntare molto sulla quantità, nel senso di abituarli a molti film alla volta, invece del temino subito dopo la proiezione, facendo una specie di pesca a strascico, per cui solo alla fine puoi raccogliere. Però, sai, questo dovete chiederlo ad uno che sappia davvero di didattica, dal momento che , a parte una occasione, io non ho mai insegnato. Da spettatore, ai tempi della scuola, mi hanno fatto vedere due film (!): VINCITORI E VINTI e GUERRA E PACE, e durante la proiezione facevamo solo casino! Poi, però, ero il tipo che saltava la scuola per andare a vedere TOUT VA BIEN (CREPA PADRONE, TUTTO VA BENE, un titolo allucinante…) di Godard. Bisogna trovare il sistema per presentare in modo meno paludato e accademico possibile la cultura, e questo dipende tanto dalla scuola come dall'iniziativa e dalla carica personale di chi lo fa, che ha bisogno di grandi motivazioni personali…".

 

FORUM SUL CINEMA ITALIANO
1 - b) la regia


Hotel Des Bains - Lido di Venezia
Venerdì 8 settembre 2000
 

 

KINEMATRIX: Continuiamo il FORUM incontrando Gabriele Salvatores, che non aveva potuto essere con noi in precedenza. Torniamo sulla questione delle sinergie, delle collaborazioni "costruttive" tra operatori del settore. Credi che l'"autonomia" o, meglio, solitudine dei vari autori dipenda da cause esterne o da una volontà dei singoli di opporsi alla ricerca di una "lingua" comune, che ritroviamo in cinematografie come quelle spagnola, danese o del lontano oriente?

GABRIELE SALVATORES: "Mah, sono cambiate tantissime cose e, fondamentalmente, una : nel momento in cui non si sa dove andare, in cui è difficile individuare una tendenza, una "wave", una nouvelle vague, come potevano essere il "Cinema Novo" brasiliano, il nuovo cinema tedesco, ma anche il movimento neorealista o la commedia all'italiana, un momento in cui non si capisce bene quale debba essere il ruolo del cinema, la sua ricerca di immagini che non siano già viste, quando ormai tutte le storie sono state già scritte, ognuno fa la sua battaglia da solo, come un samurai senza i compagni, che si difende dai demoni che lo assediano, poiché non c'è un gruppo, una tribù, un esercito, un "mucchio selvaggio": c'è solo un singolo cavaliere che cerca di contrastare quello che può. Non è bello questo, perché se i samurai diventassero almeno sette e si mettessero a difendere il paesino dei contadini, forse le cose andrebbero meglio!!! Il problema è che non c'è comunicazione tra di noi come accadeva una volta. Allora accadeva che, se avevi dei problemi con la sceneggiatura, andavi in Via Veneto, incontravo te e ti chiedevo "guarda, ho questa scena qui che non so come risolvere" e tu mi aiutavi senza problemi, senza gelosie e senza darmi la sensazione di avermi rivelato un tuo segreto, perché in precedenza abbiamo già parlato di cinema e di ciò che dovrebbe essere. Adesso è molto difficile riunire diverse persone attorno ad un progetto e discuterne insieme. Prendiamo i registi presenti in concorso qui a Venezia: sono tre persone che io stimo, che ammiro (Chiesa, Mazzacurati, Giordana-ndr)... però vedi che ognuno ha fatto un cosa talmente particolare, talmente diversa che, pensando ad un ipotetico progetto comune qui e ora, sarebbe assolutamente impossibile! Verrebbe fuori qualcosa di schizofrenico...il che magari potrebbe anche essere lo specchio della situazione, ma è certamente molto difficile. Detto questo bisogna ricordare che, anche in questi ultimi tempi, sono venuti fuori dei lavori di gruppo, questa volta distinti, diciamo così, per matrice "etnica"...penso ai napoletani ( I VESUVIANI, di Corsicato, Martone, Captano, De Lillo, Incerti- ndr ) o al progetto di Antonello Grimaldi che si chiamava IL CIELO E' SEMPRE PIU' BLU, ma si trattava di altre cose, molto diverse dal passato e, in questo caso, limitate ad una singola situazione. E' quindi molto difficile lavorare insieme, anche se sarebbe auspicabile. Sinceramente credo che oggi noi siamo come degli esploratori solitari e... io mi auguro che il primo che troverà l'oro, metta il suo campo da quelle parti e comunichi la cosa a tutti gli altri!"

KMX: Entrando un po' più nel caso specifico, anche se non vogliamo con questo dire che sia un esempio da riprendere tale e quale e soprattutto esente da difetti d'impostazione e di natura "artistica", non pensi che altrove, come hanno fatto i danesi col DOGMA 95, si sia riusciti perlomeno ad aggregarsi "contro" qualcosa, posto che questo non è sicuramente l'atteggiamento più giusto?



 

GS: "Vedi, come dici anche tu è solo l'individuazione di un nemico che li ha messi insieme e, in questo senso, paga lo scotto anche di non essere un atteggiamento completamente sincero, anche se Lars Von Trier è uno dei registi che mi piacciono di più, ma di lì sono nate anche cose che sono molto discutibili...fintanto che ti difendi non sei mai propositivo. Bisognerebbe, invece, avere la forza di avere un'idea e di dire "ok, questo è il cinema come deve essere oggi", un'idea, voglio dire, d'attacco piuttosto che di difesa. Ripeto: io sarei favorevolissimo, tanto è vero che sono partito addirittura con una "cooperativa teatrale" e credo che il termine dica tutto, visto che non firmavamo neanche i testi e le regie. Dobbiamo tornare alla bottega rinascimentale, a Michelangelo e all'importanza che avevano tanto chi gli preparava i verdi e i rossi, quanto il fumista o quello che era specializzato nel disegno delle mani. Il concetto di Autore è superato, anche perché siamo in un'epoca in cui le nuove tecnologie portano con sé ruoli e competenze diverse e il lavoro d'équipe è assolutamente fondamentale. In definitiva, io sono disponibile... basta solo aspettare il momento opportuno".

KMX: E allora come mai per gli altri tuoi colleghi non è così, voglio dire è solo una questione di differenti stili visivi, di scelte personali?

GS: "Guarda che, per certi versi, devo dire che io me lo sono potuto permettere! Nel senso che sperimentare è un rischio, ma bisogna mettere in gioco qualcosa per poter rischiare e io questo qualcosa ce l'ho: ho un passato di cose che sono andate bene e, quindi, ho ricevuto molto, al punto che adesso mi sento di poter "restituire" quello che ho avuto. Diversamente, chi si trova al primo film o al secondo, dopo che il primo magari è andato così così, e vorrebbe rischiare, sperimentare... beh, è veramente molto difficile..."

KMX: ...d'accordo, ma tu hai iniziato a rischiare subito, da KAMIKAZEN...

GS: "...non sono d'accordo, perché avevo comunque il gruppo che mi proteggeva: avevo il Teatro dell'Elfo, avevo un gruppo di attori che sono cresciuti insieme a me, che si chiamano Paolo Rossi, Silvio Orlando, Antonio Catania, Gigio Alberti, Bebo Storti, che, non a caso, in seguito sono tutti diventati famosi... avevo questa tribù, mentre oggi, come si diceva prima, molti sono soli e, attenzione, la solitudine nostra è esattamente quello che vogliono quelli che comandano all'interno del cinema, che certo non vogliono cambiare il "sistema". Ci vogliono separati, assolutamente, e questo va dalla guerra, alla politica, all'arte e quindi al cinema".



 

KMX: ...e quindi secondo te c'è anche una prevenzione nei confronti di chi cerca di fare dei cambiamenti, come hai fatto tu con NIRVANA, che è pur sempre un film italiano di fantascienza?

GS: "...certamente, non lo volevano, come anche non volevano un film che si chiama DENTI...la prevenzione sta in chi deve commercializzare queste opere..."

KMX: ...e magari anche nella critica specializzata...

GS: "...beh, ma quello è così da sempre..."