All’anteprima per l’Italia del suo film, che è anche una premiere Europea
dopo una pre-uscita negli Stati Uniti con solo 130 copie, James Ivory,
insieme alle due interpreti, madre e figlia, Vanessa Redgrave e Natasha
Richardson, parla di come è nato La
contessa bianca, del suo rapporto con Kazuo Ishiguro e con il
compagno produttore Ismail Merchant, scomparso da pochi mesi
La genesi del film
È un po’ complessa la storia dell’ideazione di questo film. Da
parte nostra, mia e di Ismail, c’era da tempo l’intenzione di lavorare di
nuovo con lo scrittore e sceneggiatore Ishiguro (già autore di
Quel che resta del giorno
n.d.r.). Ci siamo trovato molto bene con lui, a livello professionale e
soprattutto umano. Gli abbiamo chiesto di adattare il romanzo dello
scrittore Giapponese Junichiro Tanizaki "Diary of a Mad Old Man" ("Diario di
un vecchio pazzo", pubblicato in Italia da Bompiani) che ci era sembrato
molto interessante, con una bella storia ambientata in Giappone. Abbiamo
cominciato a lavorare alla sceneggiatura ma poi è stato Kazuo che ha
cominciato a mostrare delle perplessità e a proporci qualcos’altro. C’era un
suo romanzo di qualche anno prima, "When we were Orphans" ("Quando eravamo
orfani", edito da Einaudi) che parlava di Shanghai negli anni prima della
guerra, e lui sentiva molto l’atmosfera di questa città, voleva raccontarla
e ci ha convinto che valesse la pena. La storia del film in realtà è molto
diversa dal suo romanzo ma abbiamo conservato l’ambientazione con tutte le
sfumature dell’epoca. Anche il lavoro sulla sceneggiatura è stato piuttosto
lungo: ci sono volute 8 versioni per arrivare a quella definitiva. Alla fine
siamo riusciti a raccogliere nel film l’elemento della guerra e della sua
influenza sulla città di Shanghai, che vengono dalla storia di Ishiguro, ma
anche il senso estetico e il gusto per l’arte e la bellezza che erano
originariamente del personaggio del romanzo di Tanizaki.
Gli eroi di Ishiguro
Tutti i protagonisti di Ishiguro hanno qualcosa in comune: sono
degli eroi ossessionati. Repressi, il più delle volte, ma sempre con delle
ossessioni che danno al loro comportamento una traccia di follia: pensiamo
al maggiordomo di Quel che resta del
giorno, ma anche ai protagonisti di "An Artist of the Floating World"
("Un artista del mondo effimero", Einaudi) e "When we were Orphans". Nel
film il personaggio principale insegue un sogno e va alla ricerca della
perfezione, in quello che cerca di realizzare: c’è anche in lui una forte
ossessione che è il tratto caratteristico e che più amo delle storie di
Ishiguro.
Il personaggio di Ralph Fiennes
Ralph è stato fondamentale per il suo personaggio. Quando gli
abbiamo proposto la parte ha subito accettato, ma dopo aver cominciato a
riflettere e a lavorare sulla sceneggiatura mi ha fatto capire che c’era
qualcosa, nel personaggio, che mancava. Non sapeva nemmeno lui cosa, ma
sentiva che così com’era non era completo. La cosa mi fece pensare, ma
rimase in sospeso, per un po’, finché tornai a New York. Come d’abitudine
sono andato a trovare un mio amico, scrittore, che è cieco da quando aveva
quattro anni. Ed è strano il suo rapporto con la sua cecità: parla
normalmente con le persone e anche nei suoi libri usando frasi del tipo “ho
visto che”, “quant’è che non ci vediamo?”. Insomma: quasi a voler negare la
sua cecità, come se non volesse accettarla, anche se ci convive da sempre.
Questo mi è sembrato un tratto che avrebbe potuto completare il personaggio
di Fiennes. Ne ho parlato con Ishiguro, che è stato subito d’accordo con me.
Ismail un po’ meno, forse perché era preoccupato che questo avrebbe
rallentato molto l’azione, il ritmo del film e quindi anche reso più lunga
la lavorazione.
Girare in Cina
Lavorare in location e negli studi di Chedun è stata
un’esperienza del tutto nuova e quindi stimolante. C’era una troupe
internazionali di grandi professionisti. L’unico problema era la
comunicazione sul set, perché si parlavano almeno 5 lingue diverse: la
maggior parte delle comparse erano cinesi che parlavano non soltanto
mandarino ma anche altri dialetti; i tecnici erano quasi tutti di Hong Kong
quindi usavano il cantonese e poi, oltre all’inglese, molti parlavano il
francese. Questo ha rallentato un po’ i tempi di lavorazione ma non ha
creato grossi intoppi. Anche con le istituzioni in Cina dopo i primi
contatti i rapporti sono stati ottimi.
Lavorare con Christopher Doyle
Devo dire, prima di tutto, che Chris Doyle non era stata la
nostra prima scelta. Avevamo già un altro nome ma poi le circostanze ci
hanno portato a dover decidere e chiamare qualcun altro. È stato Ismail che
allora ha voluto Christopher Doyle. Con la sua esperienza in Asia, la sua
capacità di lavorare con troupe del posto ma soprattutto con il suo tocco
unico che tutti conosciamo…Ricordo, ero al telefono da New York con lui, in
Cina, che era molto contento ed entusiasta di lavorare al film, ma mi ha
chiesto: “…pensi che però la macchina da presa si possa un po’ muovere, ogni
tanto?” Così abbiamo girato le scene principali sempre con 2 macchine: una
fissa, a terra e un dolly.
The White Countess e Casablanca
Molti critici e giornalisti hanno parlato del mio film come di un
omaggio a Casablanca. Forse è più possibile che alcuni riferimenti siano
stati voluti da Ishiguro. Lui è un appassionato e collezionista di vecchi
film e sicuramente ha di fronte il modello di
Casablanca più di quanto ce
l’abbia io, che il film l’ho visto quando avevo 15 anni e poi non l’ho più
visto. Qualcuno ha anche parlato del film di Spielberg (L’impero
del sole n.d.r.) che racconta di una Cina in guerra. Beh, mi
sarebbe piaciuto vederlo, ma a oggi ancora non l’ho visto.
Casa
del cinema – Roma, 08/02/06 |