Santasangre riesce probabilmente a definire quel luogo-non-luogo
nell’odierna pratica artistica dove si realizzano tutte le sintesi e, pur
facendo a meno del “logos” - o forse proprio per questo - ci permette di
assistere all’epifania di ciò che è oltre la multimedialità e che
nasce a nuova vita passando attraverso una definizione che ancora non
possediamo, non riusciamo a fonetizzare formalizzandola.
è come se le premesse
rigenerative del loro theatron apokalyptikon, fine e catarsi
riproduttiva, allo stesso tempo, di mondi, questo farli e disfarli, faccia
permanere, sostando silenziosa in una terra di nessuno, la parola normativa
e definitiva.
Come il Teatro del Lemming (non è un caso che Luca Brinchi
venga (anche) da quell’esperienza)
sceglie di radunarsi attorno all’idea di comunità, di koinè
contrapposta ai molteplici disfacimenti di ciò che qualcuno ancora chiama
societas, Santasangre pone il suo sguardo su un universo scenico che
riproduce tale agglomerato di umanità e cose in uno stadio ove il napalm
dell’intelletto espressivo, preso atto dello status quo, ha
coerentemente fatto strage di quella colla che creava rapporti e ha talvolta
annullato le presenze attoriali dotate di una lengua intelligibile,
restituendocele sotto forma di residualità gestuale/sonora/organica,
pre-phonè.
Le premesse teoriche - uniche, originali - sono chiarissime: immaginiamo un
universo rinnovato e un campo magnetico continuo che lo attraversa e
incrocia corpi-muscoli-ossa, che nell’apocalissi e catarsi decidono di
dimenticare residui fonetici e tecniche precostituite di ciò che andava
sotto il nome di recitazione.
Il suono e la luce attraversano con fili immaginari, o lame affilate, la
nervosa corporeità in cerca di un ritmo, di una nuova segmentata partitura
di movimenti e cadute, scatti e lente volute gestuali.
Dall’acqua di SEIGRADI alla “scissione atomica” di SINCRONIE,
SANTASANGRE procede con grande coerenza entro un territorio che chiede alla
scienza di diventare regia di una meditazione sul degrado
dell’universo-mondo, dove noi dobbiamo essere ancora…inventati. Oppure: ci
siamo, ma siamo dei pre e dei post al tempo medesimo, ma allo stesso livello
”semantico” di suono e luce.
La peculiarità di SANTASANGRE, che ha suscitato alcune reazioni di pura
naiveté tra il pubblico (ma dai, ragazzi, dov’eravate in questi anni? a
vedervi Aroldo Tieri col bisnonno o a infliggervi compulsive stagioni
teatrali ormai fuori dal tempo? sapete cos’è un ologramma? Roberta Zanardo
vi è sembrata “cattiva” perché non guardava i paganti? vabbè, la prossima
volta non scegliete come passare la serata tirando la monetina…), la loro
specificità è la stessa di Teatro Fondamenta Nuove: theatron ha
un’etimologia che comunque parte dal “vedere”, quindi la peculiarità sta nel
ragionare, semmai, sulla matrice di quel senso, che solo dopo si estende e
incrocia gli altri.
Teatro di parola? In che era geologica? E la Storia dell’arte del dopoguerra
è trascorsa inutilmente?
Ecco il rischio di internet: l’azzeramento o l’appiattimento culturale,
verso il basso, con tanto di molteplici revisionismi inclusi, di generazioni
che se gli nomini Nekrosius, Lemming e Motus pensano semmai a una congrega
metallara.
L’unicità di questo Luogo e di queste realtà culturali sta nel re-inventare
un campo d’azione che è “X”, è forse arte visiva ma con molto altro intorno:
non si va “a teatro” andando a T.F.N., non si va a teatro coi SANTASANGRE.
Si entra nella pancia del creato e si guarda a che punto stiamo.
Qualcuno (i ragazzi dei seminari) osserva e sceglie una strada che poi sarà
solo sua.
L’esclusiva inclusione della “narratività” entro un ambito organico,
gestuale, che fa a meno della parola, non sposta Santasangre verso i
territori del magnifico “EXIT_02” che ha chiuso Biennale Musica, ma, più
semplicemente, apre il varco a una zona concettuale e pratico-performativa
che è “nuova” perché incapace di sostenere l’ottusa chiusura e il peso di
una definizione, univoca o aperta che sia.
è quell’area che cercavamo
e che forse si è palesata di fronte ai nostri occhi con la perfezione di una
complessa semplicità, tanto per andare ancora di ossimori.
Roberta Zanardo produce un’introduzione in cui ragiona sul suono
primigenio, creando assi di visione muovendo le braccia che tendono il filo
di un microfono fatto arrivare a terra, sino a sfiorare il palco, ed è come
se tutto fosse al suo minimalistico esordio nel mondo.
Era partita da posizione china, al buio, raccolta vicino a un piccolo
bagliore.
In due successivi segmenti, strutturati e articolati, dove non è affatto
esclusa (anzi!) la definizione di momenti “improvvisativi”, il suo corpo
ridotto al grado zero ma già mutante, capace di re-inventarsi in
un’imbracatura cui è fuso, agisce una straordinaria serie di
scatti/piegamenti/microconvulsioni inizialmente rivolti “verso” un
cerchio di luce e le sue numerose variazioni di morphè dinamica, quindi
orientati “lateralmente” verso invisibili fonti sonore.
Ovviamente non è così, perché - come si diceva in precedenza - suono e luce
producono insieme un campo magnetico che va a costruire il balletto
organico-meccanico del corpo primigenio di Zanardo, attraverso
stimolazioni e linee-guida di cui non è dato intuire la zona/fonte di
provenienza.
Impossibile non sottolineare la straordinaria qualità dell’insieme, dove il
“talento” performativo della Zanardo (comunque eccezionale) si scioglie in
una serie di sincronismi fonottici, fonovisivi con quelle
stimolazioni “assenti” e nascoste, che risultano “improvvisati” e naturali
all’acme della loro difficoltà esecutiva.
Roberta non ci ha guardati, se non per un attimo, e non ha recitato.
Per questo le siamo grati, come siamo grati a Diana Arbib, Luca Brinchi,
Maria Carmela Milano,Dario Salvagnini e Pasquale Tricoci - scenografi,
artisti visivi, attori, musicisti, etc - per quest’Arte Ab-soluta, anzi, per
quest’“XXXX” che presto riusciremo a definire, ma già possiamo godere. |