TEATRO FONDAMENTA NUOVE PRESENTA...
 

gesti di teatro necessario

Venezia, Fondamenta Nuove, 28 novembre 2009
 

di Gabriele FRANCIONI

 

29/30

 

Collegamenti:

- Teatro Fondamenta Nuove

- Pathosformel

CORPI E LUMINESCENZE NEL BLACK CUBE SULLA LAGUNA

 

1-pathosformel

Volta

 

Andare a Fondamenta Nuove è, ormai, come assistere ad un continuum, uno spettacolo infinito che riassume il senso della prova aperta al pubblico e della performance “finita”.

Danza-Teatro e Musica si legano tra loro, tracciando percorsi di estrema coerenza anche tra una stagione e quella successiva.

Entrare nel black cube del TFN è, quindi, come attraversare un flusso di stimolazioni e successive analisi estetiche che - si spera per molti - è diventato necessario come lo erano le lezioni universitarie, ma senza il fardello della noia e dell’ imposizione, e come dev’essere una serata di svago, ma senza il rischio che il cervello vada in stand-by.

In particolar modo quando il ritmo degli spettacoli si fa serrato - dal giovedì al sabato/domenica - non si vede l’ora di tornare in quel buio un po’ “cavern” e d’interrompere una ricreazione anche troppo lunga (chiaramente l’ indispensabilità di TFN aumenta in inverno e assume i contorni del rifugio culturale, ma non della setta spocchiosa).

Ecco allora che dai SANTASANGRE facciamo due passi e ci ritroviamo in “Danze d’Autunno”, di cui seguiamo la seconda serata, riprendendo il nostro ragionamento su corpi presi entro linee di forza che li plasmano misteriosamente su quel palcoscenico nero.

 

PATHOSFORMEL, ensemble correttamente multidisciplinare nata a Venezia nel 2004 sull’asse Italia-Balcani, intenta a “ripensare le priorità all’interno degli elementi che compongono una partitura performativa” e a “costruire e sciogliere la forma per ripercorrere ogni volta la nascita di un’ immagine”.

 

Nel caso di “Volta”, venti minuti d’ipnosi mai provata prima, in cui il respiro sembra mancare quando viene a mancare la luce, diventiamo talpe che scavano con gli occhi nel buio totale e cercano di annullare la distanza tra sè e alcuni metacorpi che si palesano lentissimamente all’ interno del nostro orizzonte visivo: là, in basso? a destra, forse, ma lontani quanto da noi?

Estraniante, letteralmente onirico, anche perché ti senti solo e sospeso in una nube ottica senza parametri spaziali, dove la visione e il ragionamento praticamente coincidono.

Pensiero e visione, null’ altro.

 

“Lì”, luminescenze informi crescono lattiginosamente senza mai sembrare altro da anomali micro-sauri che si sondano, si toccano, si studiano, in cerca di un senso al loro nascere dal nulla del nero al qualcosa di un bianco ceruleo applicato progressivamente a parti del corpo.

 

La danza, come una fiamma fantasmatica di curve che tendono ad unirsi, porta, dopo il lungo letargo

sensoriale, all’ unione dei “sauri” tra loro, che, uno sull’ altro, formano per poco una torre incerta, ma almeno ben visibile, percorsa da un fremito che ne causa la caduta e lo sbriciolamento delle certezze appena acquisite.

 

I grumi di pre-luce sembrano ora più piccoli, dubbiosi, tartarughe di nuovo spezzate nella loro ricerca di lentezza.

Pezzetti di cera cadono dalle gambe e dalle braccia, lasciano un residuo brillante sul palcoscenico, residui di un racconto, a sottolineare che la costruzione, la progressione scenica, il senso, non comportano accumulo, ma solo sviluppo momentaneo del movimento –per così dire- dal quale è peraltro giusto aspettarsi entropiche implosioni o rapidi azzeramenti.

 

Affascinante e difficilmente dimenticabile.

 

 

2-paola bianchi

Uno

 

Ricreazione e, ora, luci accese.

 

Paola Bianchi (lunga carriera alle spalle, arricchita da collaborazioni e intrecci multiversi, come quello con Marzia Migliora) si mette in scena con nervosa flessuosità su una banda sonora -testi di Giuseppe Genna- intenta ad affossare e gettare nel cesso le frattaglie del nostro Paese senza memoria.

 

Bianchi attraversa diverse facies: prima è una silfide androgina dal capello corto e nero percorsa da linee di forza che ne contraggono i muscoli in una microdanza di scatti e allungamenti improvvisi degli arti, tenendosi appoggiata a una sedia-sgabello-pezzo-di-scrivania.

 

All’opposto, Paola assume nell’“atto II” l'aspetto di una platinata femme fatale a seno scoperto e tacco vertiginoso, sinuosamente intenta a descrivere, con i piedi, abbozzi di curve e cerchi completi sulla geografia ampia delle tavole del palcoscenico, svariando da sinistra a destra, mostrandoci spesso la schiena atleticamente essenziale e dandoci così le spalle, in un’ alternanza continua tra nascondimenti e rivelazioni, ammiccamenti e timidezze spesso legati al testo di Genna (“Italia De Profundis”).

 

Un’ultima posizione animalesca e, quindi, l’atto III: via la parrucca, un collant nero tirato sul viso viene agganciato violentemente con i denti, prima di dare inizio a nuove movenze che, questa volta, sembrano fondere i due precedenti approcci.

 

Finale e ritorno alla figura iniziale, completamente rivestita, bruscamente seria.

 

Interessante e coinvolgente l’incrocio di coreografia e testo, straziante e originalissimo nell’evocare - con libertà linguistica assoluta e associazioni libere d’immagini tra l’immaginifico e il parossisticamente realistico - il cuore nero dell’Italia dagli anni delle stragi di Stato a oggi, ma con rimandi a l’intera storia (politico-culturale) del Bel Paese. 

 

Indimenticabile il Leopardi che si auto-crocifigge in una valle boschiva, cui si legano le figure di Pasolini e Pavese, la morte dei quali è “sceneggiata” con un incalzare narrativo assai coinvolgente.

La parola che muore e lascia posto alla miseria di una ricerca compulsiva dell’ immagine bidimensionale e televisiva come passepartout di ogni aspetto del nostro (soprav)vivere.

 

 

3-chiara frigo

Post

 

Nata a Verona nel 1975, Chiara Frigo propone qui un altro a-solo al femminile, ma con affascinante corredo di semplice quanto azzeccate scelte scenografiche.

Una giovane signora in pantaloni e giacca si abbandona al rito leggero e catartico di una lenta ma continua pioggia di sabbia sul capo.

 

In realtà la Frigo è solo uno dei “pilastri” scenografici del fronte scena: gli altri sono assi di luce lungo i quali cadono altrettante cascate di sabbia.

Lei chiude il fronte all’ estrema destra.

 

Come una statua in costruzione o disfacimento - il tema della scomparsa e ricomparsa del corpo danzante/attoriale è quindi sviluppato precisamente di spettacolo in spettacolo, tra palingenesi, catarsi, purificazioni, ridefinizioni e reinvenzioni (SANTASANGRE, ad esempio) - il corpo/donna, seguendo Leggerezza e Visibilità delle conferenze di Calvino per il nuovo millennio, sosta entro la propria ridefinizione, accettandola, ma non subendola.

 

Un tempio di colonne sottili di luce e sabbia si staglia di fronte al pubblico, finché, dopo una rituale breve pioggia di pietre e terra contenute in un sacchetto appeso a mo’ di estrema colonna virtuale e rotto dalla Frigo, l’ attrice si sottopone alla radiografia di luci laterali e verticali, che servono a restituire matericità a questa terra scagliata per aria dai movimenti roteanti della testa.

 

Ancora, leggera e visibile, la Frigo riesce quindi a inventare una danza impercettibile di capelli, che giocano con sabbia, terra e pietre, riducendo a un minimalismo assai innovativo quella ricerca sul(le parti di) corpo che da sole definiscono l’ impianto di una qualunque “nuova danza”.

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pathosformel

paola bianchi

chiara frigo

Venezia, Fondamenta Nuove, 28 novembre 2009