Si
sono presi il nostro cuore sotto una coperta scura
A dodici anni dal suo ultimo lavoro, Cristiano De
Andrè ha presentato il 25 aprile scorso al "My Festival" di Patti Smith il
suo nuovo disco "Come in Cielo così in Guerra" in un concerto maturo, dalle
sonorità intense e vibranti. Cantautore, cantante e polistrumentista,
Cristiano è artista intenso, mai scontato nei suoi brani e erede del
patrimonio del padre Fabrizio in senso molto intimo: dalla profonda ricerca
strumentale alla poliedricità sonora all’attenzione per la vocalità,
dall’intensità amorosa al racconto del mondo fino alla denuncia sociale.
“Così adesso cammino e indovino dove porta quel ponte. Dove inizia e finisce
il destino dei passi verso un altro orizzonte.
E lascio i miei sogni a te, perché tu li riprenda domani. E tengo i ricordi
per me, ma come in un battere d'ali” (da "Disegni nel Vento")
Presentando le sue nuove canzoni on stage, un po’ come si faceva negli anni
Settanta, - e con forte riferimento alla grande epoca della musica
cantautoriale
- Cristiano svela al pubblico la sua
visione sul mondo: “Un disco realista", lo definisce in un’intervista. "È
inopportuno parlare di un mondo migliore se chi lo vuole non sa come
arrivarci".
Una visione certo cupa, con poche speranze in cui Cristiano affronta la
vacuità e la pochezza del nostro tempo, prendendo le distanze dalla società
e, in particolare, da questa Italietta di furbi, caste e affari sporchi.
“Chi ha creduto alle menzogne di bocche allenate a monete, alle parole di un
potere che subito si inchina ad un altro più rapace, che in trent’anni di
sottocultura mediatica tra canali e canili, a quelle lingue golose dei
mercati che per i loro tacchi rialzati hanno svenduto il Paese al peggiore
dei medioevi. A meno che non sia ancora preistoria questo parlare senza
ascoltare e non avere memoria” (da
"Credici").
Un ritratto lucido del nostro paese dove “il rosso è così meno rosso e il
nero è sempre più nero”, dove si è persa la coscienza della nostra storia,
dove la memoria dei colori politici è ormai sbiadita in una società senza
ideali e – cosa ancor più grave – senza principi: “Non la senti questa
decadenza?"
sentenzia Cristiano ancora in
"Credici"."Questo
odore di basso impero? Noi speriamo siano banditi dalla storia senza una
pagina una riga e nessuna memoria”.
In
"Come in Cielo così in Guerra"
si avverte una stanchezza a doversi
scontrare contro il mondo, quando il mondo stesso non sa o non ho ancora
scelto da che parte andare. “Questa sera le luci sono troppo forti, non mi
ritrovo più”
-
canta in
"La
Stanchezza"
-
quasi a voler rievocare le parole di Fabrizio De Andrè “Al
vostro posto non ci so stare” ("Nella
mia ora di libertà").
E si avverte
-
amaramente
-
una solitudine nella lotta per la giustizia, una solitudine
-
ancora più intensa
-
nella passione per la musica, la cultura e la bellezza del mondo e, infine,
una malinconia d’amore. “Questi ultimi anni mi hanno fatto capire che quel
solito inutile usarsi lascia un vuoto nel cuore, perché è così dolce il
tremante abbracciarsi e negli occhi vedere quel sorriso di lacrime e luce
dove si specchia l'amore” ("Ingenuo
e Romantico").
La denuncia sociale e politica continua
-
e si fa ancora più schiacciante nelle mille sfumature da
"Fiume
Sand Creek"
a
"Se
ti tagliassero a pezzetti"
-
nel ricordo del padre a cui Cristiano si accinge nuovamente a pochi anni dal
grandissimo successo della sua personalissima rivisitazione del repertorio
di Fabrizio nel tour
"De
André canta De André vol. 1"
(2009) e
"De
André canta De André vol. 2"
(2010). Una scelta forte, quella del concerto all’Auditorium, grazie alla
quale egli, nella doppia veste di figlio e interprete, riesce a condensare
il forte calibro dell’esperienza musicale paterna attraverso brani non
necessariamente famosissimi. E da valoroso polistrumentista, riesce ad
evocare sul palco i ritmi e i suoni caldi del nostro Mediterraneo in un mood
costante che va oltre
"Creuza
De Ma".
E per la mia intima esperienza, la musica deandreiana è innanzitutto sapore
e profumo. Suoni zuccherini, suoni neri e suoni agrumati che evocano in me
l’esperienza dell’allucinazione olfattiva tra i mille profumi dell’Italia e
del Mediterraneo.
Ma anche i suoni dolci e profumati dell’amore. E quello che mi ha colpito,
intensamente, in questo concerto è la grande capacità di Cristiano, da
figlio, di affrontare anche le canzoni d’amore scritte da suo padre: canzoni
che, talvolta, avrà scritto per sua madre e che, spesso, avrà scritto per
altre donne. E mi ha colpito da interprete la sua intensa capacità timbrica
che volutamente ripercorre l’apparente uniformità della voce del padre.
Una finta monotonia che Fabrizio offriva all’orecchio superficiale
dell’ascoltatore frivolo, ma che regalava infinite vibrazioni e infiniti
sussurri a chi ha amato le sue armonie e le sue poesie: per dirla con
Fernanda Pivano “Era
come se un gamelan nascosto nella foresta di Bali ti buttasse addosso i suoi
profumi, e insieme il suo suono”.
Cristiano riesce, anche all’incredibile affinità timbrica a far sussultare
d’amore il pubblico deandreiano. Sussultare d’amore, già, perché l’amore che
Fabrizio ha cantato è un amore greve di vita e leggero di meraviglia. È un
amore in cui la scoperta dell’erotismo si fa intensa e dolcissima, dove la
passione è il più sacro dei rituali dell’uomo, dove la tenerezza è intima e
sussurrata.
“Verranno
a chiederti del nostro amore. A quella gente consumata nel farsi dar retta
un amore così lungo tu non darglielo in fretta …” |