Una
guardia incappucciata osserva il pubblico che prende posto in platea. Il
palcoscenico della Cavallerizza Reale è chiuso da una tenda nera sulla quale
il titolo - Lo Splendore dei Supplizi - è proiettato in una grafia
bianca e corsiva che, tuttavia, è solo un’illusione di leggerezza poiché la
trama interna dei supplizi è fatta di fili scuri.
Che accada nel buio
di una cella, tra le mura di casa oppure nella mente, il supplizio è il
precipizio multiforme in cui la fragile natura umana precipita. Facendo eco
a Foucault e sfruttando con ironia il rapporto che il concetto stesso di
supplizio instaura con le dimensioni di interno/esterno, Fibre Parallele ha
presentato in prima nazionale al Festival delle Colline Torinesi una
creazione in quattro scene: La coppia, Il giocatore, La badante, Il
vegano.
Il supplizio, un
tempo pratica di punizione ed esercizio pubblico del potere, è affrontato
nella sua accezione contemporanea - sempre sociale - ma implicita. Nello
spettacolo appaiono situazioni limpide, ottimamente costruite, in cui
l’umano si offre all’esternazione della meschinità, della precarietà e
dell’illusione di verità che lo attanaglia. L’ambientazione è sempre quella
- chiusa - dell’interno, laboratorio di forze in opposizione. Il cuore della
ricerca di Licia Lanera e Riccardo Spagnulo è nel punto in cui la mancata
benevola accoglienza della fragilità diventa luogo di un nevrotico gioco di
frizioni. Fibre Parallele ha scelto, infatti, situazioni accomunate da una
forma di rigidità: la promessa eterna, l’ossessione (per il gioco), la
vecchiaia e l’ideologia. La struttura de Lo Splendore dei Supplizi è
circolare: due ore nettamente divise in quattro scene separate da un
intervallo centrale.
La coppia
è una cella di luce quadrata. Seduti sul divano bianco si discute incatenati
come cani al guinzaglio. Lui lavora oltreoceano, mentre lei - già vestita da
sposa - lo attende reclamando il compimento del suo progetto che,
evidentemente, è questione di vita o di morte, la sua. Il dialogo è carico e
brillante: le voci si sovrappongono, la logica si sfalda, il ritmo si scalda
e la verità si svuota, sempre di più. L’evidenza di un’incrinatura letale
non riesce a spegnere i desideri che - non assecondati a dovere - diventano
una strana fame di vita dai contorni triviali. È dolce la torta nuziale,
così come dolce vorrebbe essere l'apparente accettazione dei desideri
altrui. La coppia è luogo di supplizi poiché il rapporto è mediato da una
forma di potere, quella dei desideri dell'Io che lottano contro i desideri
del Tu. Il legame è così una reale coda di catena che trattiene gli attori
nei pressi del divano. Il gioco è sporco, è chiaro, ma il candore dell'abito
è abbagliante: non resta altro da fare che avventarsi con bramosia sulla
torta nuziale, roccaforte inespugnabile e sacra, custode e surrogato della
dolcezza della vita.
Con Il giocatore
si cambia luce. Quando l'aguzzino solleva la tenda Riccardo Spagnulo nel suo
letto si tocca cercando il piacere, un piacere simile a quello da cui è già
intossicato, e ne vuole ancora: il gioco d’azzardo, il videopoker. Emergono,
con il testo, i contorni di una vita in caduta libera, sovrapposizione di
fallimenti e miseria. Una marionetta - mossa da ventriloquo dallo stesso
attore in un dialogo ben fatto di voci alterne - è l’amico immaginario che
ascolta, rassicura, sgrida, assiste, partecipa. La scena è un nucleo di
disordine, oggetti sparsi e un pallone con cui fare goal per sentirsi -
all’occorrenza - un campione. La città di provenienza della compagnia - Bari
- traspare nella lingua, dialettale. Sono forse troppi, solamente, gli
elementi chiamati a disegnare questo quadro: c’è il sesso, i soldi, il
gioco, il calcio, il pianto, il riso, il lavoro che non c’è e pure la mamma
morta che, in scena come uno zombie dalle mani rosse, rivendica una degna
sepoltura. Procedendo per accumulazione, la scena si riempie di significati,
parole e disperazione. L’aguzzino, come una macchinetta, è il bersaglio di
monetine lanciate compulsivamente fino al pignoramento dei beni finale che
lascia nudo il corpo di Riccardo Spagnulo e nuda la scena. Ancora, è l’umano
che resta, con la sua vulnerabilità completamente esposta.
Dopo l’intervallo
La badante permette allo spettacolo di recuperare il buon filo
conduttore estetico-espressivo che il quadro precedente, coi suoi toni
grotteschi, aveva interrotto. La coppia formata dall’uomo anziano e dalla
badante è iperreale e - diversamente da La Coppia che cromaticamente
non usciva dal bianco e nero - qui la visione è punta da colori accesi: nel
personaggio maschile in verde, Licia Lanera si muove per traiettorie lineari
sorretta da un girello per anziani; lui, Spagnulo, è una badante spilungona
e multicolore alle prese con un lavoro detestato e la nostalgia di casa. In
questa scena silenziosa e rarefatta una voce off recita parti del Mein
Kampf. Le azioni del duo sono il catalogo di ciò che la vecchiaia
comporta: la sopportazione, il disgusto, la cattiveria, il desiderio del
sesso, l’affetto, l’indifferenza, ... quasi a voler dire che la morte è la
liberazione da una punizione, il supplizio per la sparizione della bellezza;
il legame forzato tra l’uomo e la donna avviene, infatti, nell’attesa della
fine. Il rapporto di potere che segna questa scena è una palla avvelenata da
rilanciarsi in continuazione: la dipendenza e la forza sono variabili
reciproche e indissolubili, che gli attori evocano fisicamente con
precisione e cruda ironia.
Ma è con l’ultimo
quadro, momento di scambio dei ruoli vittima/carnefice, che lo spettacolo si
risolve. L'aguzzino che come un prestigiatore ha condotto le scene diventa
egli stesso vittima. La forza della nota ironica, acuta, è nel non
nascondere l’amarezza. La fine è il momento in cui, sorretto dalla bravura
degli attori, tutto crolla: vittime e carnefici si confondono, l’ideologia -
una qualsiasi, verrebbe da dire - implode, il rapporto di coppia decade,
prima con l’illusione e poi con la morte, mentre il gioco d’azzardo, non più
miraggio di ricchezza, si fa concreta povertà. Il vegano è colpevole
della sua strategia alimentare, pertanto verrà punito, ingozzato a forza di
ogni alimento animale possibile. Con la scena finale Fibre Parallele porta
alle sue estreme conseguenze il paradosso iniziale, il supplizio ha una
capacità splendida, è vero: penetra la verità, la esplicita, espone il lato
fragile mettendo in luce l’inutilità di quel bordo rigido che si forma sul
contorno delle vittime e dei carnefici, per entrambi, nello stesso identico
modo.
|