KUBRICK: DISTANZA E CONTROLLO
Nella sala dell'Istituto Veneto dedicata alla serie “Circus”, osservando una
straordinaria fotografia di Stanley Kubrick che ritrae l'acrobata su
bicicletta in volo ribaltato, abbiamo pensato a “Flip” di Garry Winogrand,
alla velocità esecutiva, alla sintesi intuitiva della “Street Photography”.
Forse sbagliavamo.
Il futuro regista sicuramente non scattava
quanto Winogrand, ma ne condivideva l'abilità esecutiva, cui aggiungeva un
innato senso del racconto.
La componente tempo, infatti, ha per Kubrick la stessa importanza del
movimento, che a sua volta già contiene la prima.
Orchestrando un adeguato mix d'improvvisazione e organizzazione, infatti,
Kubrick era in grado, poco più che adolescente, di strutturare vere e
proprie serie d'immagini che portavano la fotografia di strada da un piano
documentaristico, fedele alla regola del reportage, al livello di
quasi-cinema che caratterizza le opere esposte a Palazzo Cavalli Franchetti.
La serie “Portogallo”, come le altre commissionata dalla rivista “Look”,
c'introduce alla particolarissima estetica kubrickiana, che non si ferma
alla semplice estrazione (dalla realtà) della matrice esistenziale
dell'oggetto inquadrato, sia esso il pescatore colto nella plastica
rappresentazione della fatica o il borghese ritratto entro contesti
appropriati, come interni di ricchi palazzi o bar alla moda ai quali
aderisce quasi strutturalmente, ma procede verso una vera e propria
organizzazione densa del loro tempo di vita in forma di visualizzazione
filmica.
Il soggetto viene fornito dalla rivista, lo script deve essere invece
elaborato dall'autore.
In questa forzatura dell'istante fotografico, reso tempo
pre-cinematografico, sta uno dei paradossi del genio del Bronx, che usava la
sua prima attività come zona franca entro cui esercitarsi prima di passare a
un'altra forma espressiva.
In nessuna delle due, peraltro - ecco il paradosso più grande - trovava una
collocazione stabile, riconoscibile, da vero appassionato della materia che
ritraeva, suscitando così il disappunto della critica.
Zero empatia nei confronti dei soggetti ripresi, nonostante la prima
impressione suscitata dai volti dolenti delle donne portoghesi, dalle
performance di vita del piccolo Mickey il lustrascarpe o dalla sofferta
fisicità dei circensi.
L'opposto di Garry Winogrand, che utilizzava compulsivamente la macchina
fotografica per rintracciare i nessi esistenziali presenti nelle immagini
raccolte (100 al giorno) e aprirsi un varco verso la vita.
Le luci artificiali altissime, accecanti e contrastate, spesso usate da
Kubrick per inquadrare il suo personale spettacolo di umanità varia, non
fanno altro che aumentare, invece di ridurla, la distanza interiore del
fotografo da ciò che riprende.
Senza le iperboli winograndiane (inclinazioni di macchina e grandangoli)
dettate da una creatività cinetica e “istintiva” e rifacendosi solo
parzialmente allo stile noir di Weegee -che tornerà invece come lezione
necessaria quando girerà “Killer's Kiss” e “The Kiling”- Kubrick vuole
segnalare la sua esclusiva attenzione per la composizione dell'immagine e il
radicale distacco dalle emozioni che scorrono sotto quella superficie.
Uno street photographer freddo, però, suona come un ossimoro.
Passato al cinema, K. paleserà poi tutto il suo disinteresse anche per il
“cinema verité”, l'approccio documentaristico e i dialoghi non organizzati:
un entomologo di smisurato talento che scruta le dinamiche umane attraverso
l'occhio di una Leica (e, in precedenza, attraverso il mirino a pozzetto
della Graflex del 1941) che funge da microscopio puntato verso gli “insetti”
che chiedono solo di essere inquadrati, definiti, catalogati.
Forse fu proprio la Graflex - una Rolleiflex primitiva con obiettivo da 165
mm. largo 17 centimetri - a definire la distanza (data dal mirino
lunghissimo) tra Kubrick e il mondo.
La possibilità d'inquadrare la realtà guardandola dall'alto, nota a chi ha
usato almeno una volta la “flex”, rafforzava invece il desiderio di
controllo su di essa.
L'autore di BARRY LYNDON colloca, in definitiva, la sua arte in una sorta di
terra di nessuno che non è compiutamente né fotografia-fotografia né
cinema-cinema, bensì il frutto di un'analisi fredda e feroce delle
possibilità formali offerte dai due media.
Non a caso, come nota Flavio De Bernardinis in “L'Immagine secondo Kubrick”
(Lindau Ed., 2003), il newyorchese definiva il Cinema come “la fotografia
della fotografia della realtà”, quindi elevata alla “n”, dove la fotografia
è una messa a distanza delle cose del mondo e non un avvicinamento empatico
verso di esse.
Ciò che conta è la messa in posa del Reale e la sua esposizione di fronte al
fotografo/regista e ai suoi obiettivi.
Quando osserviamo lo shoeshiner Mickey mentre passa dal marciapiede e dalle
vetrine dei negozi di scarpe ai tetti di Manhattan, dal lavoro allo svago
con i piccioni, seguiamo una traiettoria formale e solo secondariamente
umana.
In un contesto di questo tipo è naturale che l'artista sia interessato più
alla natura e ai meccanismi della visione che ai soggetti, come ampiamente
sottolineato.
Ecco allora l'ostinata attenzione dedicata ad un'umanità voyeuristicamente
intenta alla moltiplicazione del guardare e dei punti di vista (si veda la
foto della serie “Paddy Wagon”, dove osserviamo due poliziotti impegnati in
una specie di triangolazione di sguardi dentro il furgone, o il match di
lotta cui assistono gli studenti della Columbia University).
Il voyeur supremo è Kubrick stesso, naturalmente, perché innesca tutti i
processi/ meccanismi appena citati e, contemporaneamente, li controlla con
l'occhio della mente.
Ciò che conferisce sostanza a questa strabiliante mise en scène del reale
reso sub specie d'irrealtà iper-formalizzata è la natura non bidimensionale
di tale voyeurismo.
Il (non compiutamente) fotografo e il (non esclusivamente) regista, infatti,
riesce a distillare l'essenza del “Vero” attraverso processi che sembrano
condurre a varie forme di astrazione, mentre ci restituiscono perfettamente
il senso - tridimensionale - di un contesto sociale reso, per così dire,
segno grafico.
Non c'è pathos nelle foto della splendida mostra
di Palazzo Cavalli Franchetti.
Non c'è pathos in Full Metal Jacket
o in A CLOCKWORK ORANGE.
Eppure l'opus kubrickiano ha tutte le stimmate dell'analisi e della critica
sociale, spietata, acuta e segnata da grande profondità: la particolarità è
che, a monte di tale scandaglio, invece di un cuore o altro organo senziente
sembra esserci l'occhio del computer HAL 9000 o quello di una macchina
fotografica (o da presa) dotati d'intelletto.
Gli scatti dedicati alla Columbia University, con sovraesposizioni
esasperate e una rigorosa simmetria nella composizione delle foto che
ritraggono scienziati impegnati in misteriose combinazioni alchemiche,
confermano l'affinità di Kubrick verso ambiti controllabili, scientifici,
oggettivi,
Il futuro regista K., quindi, si appalesa anche in termini contenutistici,
anticipando la fascinazione per la tecnica che segnerà la sua opera a
partire da Doctor Strangelove and
how I learned to stop worrying and love the Bomb (1965).
La mostra di Palazzo Franchetti Cavalli ha le stimmate dell'evento
imperdibile per ogni fotografo o appassionato della materia e addirittura
dell'appuntamento epocale per ogni studioso di cinema e semplicemente amante
dell'opera di Stanley Kubrick nel suo somplesso.
07:11:2010
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