STANLEY KUBRICK FOTOGRAFO,1945-1950.
A cura di Rainer F. Crone
Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti
Palazzo Cavalli Franchetti, Venezia

fino al 14 novembre 2010

 

di Gabriele FRANCIONI

- sito ufficiale

KUBRICK: DISTANZA E CONTROLLO

Nella sala dell'Istituto Veneto dedicata alla serie “Circus”, osservando una straordinaria fotografia di Stanley Kubrick che ritrae l'acrobata su bicicletta in volo ribaltato, abbiamo pensato a “Flip” di Garry Winogrand, alla velocità esecutiva, alla sintesi intuitiva della “Street Photography”.
Forse sbagliavamo.

Il futuro regista sicuramente non scattava quanto Winogrand, ma ne condivideva l'abilità esecutiva, cui aggiungeva un innato senso del racconto.
La componente tempo, infatti, ha per Kubrick la stessa importanza del movimento, che a sua volta già contiene la prima.
Orchestrando un adeguato mix d'improvvisazione e organizzazione, infatti, Kubrick era in grado, poco più che adolescente, di strutturare vere e proprie serie d'immagini che portavano la fotografia di strada da un piano documentaristico, fedele alla regola del reportage, al livello di quasi-cinema che caratterizza le opere esposte a Palazzo Cavalli Franchetti.
La serie “Portogallo”, come le altre commissionata dalla rivista “Look”, c'introduce alla particolarissima estetica kubrickiana, che non si ferma alla semplice estrazione (dalla realtà) della matrice esistenziale dell'oggetto inquadrato, sia esso il pescatore colto nella plastica rappresentazione della fatica o il borghese ritratto entro contesti appropriati, come interni di ricchi palazzi o bar alla moda ai quali aderisce quasi strutturalmente, ma procede verso una vera e propria organizzazione densa del loro tempo di vita in forma di visualizzazione filmica.
Il soggetto viene fornito dalla rivista, lo script deve essere invece elaborato dall'autore.
In questa forzatura dell'istante fotografico, reso tempo pre-cinematografico, sta uno dei paradossi del genio del Bronx, che usava la sua prima attività come zona franca entro cui esercitarsi prima di passare a un'altra forma espressiva.
In nessuna delle due, peraltro - ecco il paradosso più grande - trovava una collocazione stabile, riconoscibile, da vero appassionato della materia che ritraeva, suscitando così il disappunto della critica.
Zero empatia nei confronti dei soggetti ripresi, nonostante la prima impressione suscitata dai volti dolenti delle donne portoghesi, dalle performance di vita del piccolo Mickey il lustrascarpe o dalla sofferta fisicità dei circensi.
L'opposto di Garry Winogrand, che utilizzava compulsivamente la macchina fotografica per rintracciare i nessi esistenziali presenti nelle immagini raccolte (100 al giorno) e aprirsi un varco verso la vita.
Le luci artificiali altissime, accecanti e contrastate, spesso usate da Kubrick per inquadrare il suo personale spettacolo di umanità varia, non fanno altro che aumentare, invece di ridurla, la distanza interiore del fotografo da ciò che riprende.
Senza le iperboli winograndiane (inclinazioni di macchina e grandangoli) dettate da una creatività cinetica e “istintiva” e rifacendosi solo parzialmente allo stile noir di Weegee -che tornerà invece come lezione necessaria quando girerà “Killer's Kiss” e “The Kiling”- Kubrick vuole segnalare la sua esclusiva attenzione per la composizione dell'immagine e il radicale distacco dalle emozioni che scorrono sotto quella superficie.

Uno street photographer freddo, però, suona come un ossimoro.

Passato al cinema, K. paleserà poi tutto il suo disinteresse anche per il “cinema verité”, l'approccio documentaristico e i dialoghi non organizzati: un entomologo di smisurato talento che scruta le dinamiche umane attraverso l'occhio di una Leica (e, in precedenza, attraverso il mirino a pozzetto della Graflex del 1941) che funge da microscopio puntato verso gli “insetti” che chiedono solo di essere inquadrati, definiti, catalogati.
Forse fu proprio la Graflex - una Rolleiflex primitiva con obiettivo da 165 mm. largo 17 centimetri - a definire la distanza (data dal mirino lunghissimo) tra Kubrick e il mondo.
La possibilità d'inquadrare la realtà guardandola dall'alto, nota a chi ha usato almeno una volta la “flex”, rafforzava invece il desiderio di controllo su di essa.
L'autore di BARRY LYNDON colloca, in definitiva, la sua arte in una sorta di terra di nessuno che non è compiutamente né fotografia-fotografia né cinema-cinema, bensì il frutto di un'analisi fredda e feroce delle possibilità formali offerte dai due media.
Non a caso, come nota Flavio De Bernardinis in “L'Immagine secondo Kubrick” (Lindau Ed., 2003), il newyorchese definiva il Cinema come “la fotografia della fotografia della realtà”, quindi elevata alla “n”, dove la fotografia è una messa a distanza delle cose del mondo e non un avvicinamento empatico verso di esse.
Ciò che conta è la messa in posa del Reale e la sua esposizione di fronte al fotografo/regista e ai suoi obiettivi.
Quando osserviamo lo shoeshiner Mickey mentre passa dal marciapiede e dalle vetrine dei negozi di scarpe ai tetti di Manhattan, dal lavoro allo svago con i piccioni, seguiamo una traiettoria formale e solo secondariamente umana.
In un contesto di questo tipo è naturale che l'artista sia interessato più alla natura e ai meccanismi della visione che ai soggetti, come ampiamente sottolineato.
Ecco allora l'ostinata attenzione dedicata ad un'umanità voyeuristicamente intenta alla moltiplicazione del guardare e dei punti di vista (si veda la foto della serie “Paddy Wagon”, dove osserviamo due poliziotti impegnati in una specie di triangolazione di sguardi dentro il furgone, o il match di lotta cui assistono gli studenti della Columbia University).
Il voyeur supremo è Kubrick stesso, naturalmente, perché innesca tutti i processi/ meccanismi appena citati e, contemporaneamente, li controlla con l'occhio della mente.
Ciò che conferisce sostanza a questa strabiliante mise en scène del reale reso sub specie d'irrealtà iper-formalizzata è la natura non bidimensionale di tale voyeurismo.
Il (non compiutamente) fotografo e il (non esclusivamente) regista, infatti, riesce a distillare l'essenza del “Vero” attraverso processi che sembrano condurre a varie forme di astrazione, mentre ci restituiscono perfettamente il senso - tridimensionale - di un contesto sociale reso, per così dire, segno grafico.
 

Non c'è pathos nelle foto della splendida mostra di Palazzo Cavalli Franchetti.
Non c'è pathos in Full Metal Jacket o in A CLOCKWORK ORANGE.
Eppure l'opus kubrickiano ha tutte le stimmate dell'analisi e della critica sociale, spietata, acuta e segnata da grande profondità: la particolarità è che, a monte di tale scandaglio, invece di un cuore o altro organo senziente sembra esserci l'occhio del computer HAL 9000 o quello di una macchina fotografica (o da presa) dotati d'intelletto.
Gli scatti dedicati alla Columbia University, con sovraesposizioni esasperate e una rigorosa simmetria nella composizione delle foto che ritraggono scienziati impegnati in misteriose combinazioni alchemiche, confermano l'affinità di Kubrick verso ambiti controllabili, scientifici, oggettivi,
Il futuro regista K., quindi, si appalesa anche in termini contenutistici, anticipando la fascinazione per la tecnica che segnerà la sua opera a partire da Doctor Strangelove and how I learned to stop worrying and love the Bomb (1965).
La mostra di Palazzo Franchetti Cavalli ha le stimmate dell'evento imperdibile per ogni fotografo o appassionato della materia e addirittura dell'appuntamento epocale per ogni studioso di cinema e semplicemente amante dell'opera di Stanley Kubrick nel suo somplesso.
 

07:11:2010

STANLEY KUBRICK FOTOGRAFO,1945-1950.
A cura di Rainer F. Crone
Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti
Palazzo Cavalli Franchetti, Venezia
fino al 14 novembre 2010