UN GESÙ RACCONTATO DA PERSONAGGI DELLA QUOTIDIANITÀ
Non colpisce e non convince Enrico Corradini con il suo monologo Il
Pescatore di Nazareth, presentato in prima nazionale mercoledì 22
ottobre al Teatro Aurora di Marghera e inserito nella vivace compagine della
scena veneziana. Il secondo appuntamento di ‘Dialogo con la città’ – sezione
che promuove compagnie locali nella propria zona – propone con grande
semplicità alcune vicende sulla vita di Gesù raccontate dal punto di vista
di persone comuni e della nostra quotidianità. Ilarità e leggerezza aprono
il sipario, in una scenografia assente, composta di poche pietre sparse, una
tovaglia da pic-nic in terra con del cibo e un vaso di rose secche. Enrico
Corradini – autore del testo e unico attore sul palco – alterna momenti
solenni a battute irriverenti, accompagnato da un bravissimo gruppo musicale
che con suoni jazz e blues riesce perfettamente a restituire l’atmosfera.
I motivi gradevoli e originali di The Round Robin Band – formata da Mattia
Silli, Filippo Mosconi, Enrico Pagnin e Riccardo Sartorel – non bastano però
a dare un’unità a una narrazione che risulta troppo frammentata. Lo stesso
autore dichiara nelle note di regia di seguire ‘una linea anarchica e
beffarda’ ma ciò non giustifica un monologo che risulta spesso privo di
coinvolgimento. Sicuramente il microfono che usa Corradini per più di metà
spettacolo non aiuta a far sviluppare quel rapporto unico tra attore e
spettatore che contraddistingue il teatro, un rapporto invisibile ma che
trova attraverso la gestualità e la nuda voce dell’interprete una via per
arrivare diretto al petto di chi siede in platea. Con gran sollievo anche da
parte del pubblico, alcuni problemi tecnici hanno obbligato l’attore
mestrino a spegnere il microfono e usare il proprio timbro vocale in maniera
molto più convincente, dando all’ultima parte dello spettacolo maggior
immediatezza; il corpo di Corradini sembra più libero e riesce a comunicare
molto di più. Bella nel finale l’idea di non rivolgere lo sguardo al
pubblico, nel momento in cui con più pathos il narratore accusa Satana di
ragionare come gli uomini: è come se una colpevolezza sia attribuita allo
spettatore. Il personaggio del Nazzareno verso la fine si umanizza, non è
più il messia che mette fine a ogni rancore e che porta amore ma prova
rabbia e dolore; è un dolore che si riflette poi nel narratore, che per la
prima volta apre gli occhi e vede con lo sguardo interiore ciò che prima non
riusciva a comprendere: non si può decidere e uccidere gratuitamente solo
per proprio egoismo.
Pur essendoci dei buoni spunti, tra cui anche il divertente personaggio del
pescatore veneziano e l’immagine semplice ma piena di significato - perfetta
per chiudere la pièce - in cui l’attore rende l’idea di Cristo in croce
attraverso due canne da pesca e il vaso di rose secche, lo spettacolo non
decolla. |