INTRODUZIONE
Eludendo espressamente gli ormai
stanchi canoni citazionisti e superficialmente autoreferenziali di tanto
cinema post-moderno, i fratelli Coen, legati da un’instancabile osmosi
intellettuale, dipingono un’irresistibile parabola concettuale attraverso la
sapiente costruzione della Forma.
Film emblema della spasmodica ricerca coeniana dell’Astrazione (mai fine a
se stessa, né mai presuntuosamente matrice di senso),
L’uomo che non c’era si
dispiega lentamente e impeccabilmente davanti allo sguardo dello spettatore
sempre un pò “a parte”, continuamente coinvolto e interpellato, senza dubbio
ammaliato dalla perfezione della patina e abbagliato dai bianchi che
dominano la pellicola.
Ed è proprio la fascinazione immediata e volutamente relegata in superficie
ad essere una costante del cinema Coen; un cinema che rifiuta il significato
e si adagia sul significante giocando sul potere illusionistico del mezzo,
utilizzato come pennello cubista, decretando il passaggio, come in Braque e
Picasso, «dall’interpretazione di una realtà percepita otticamente alla
creazione di una realtà concepita esteticamente» .
Difficile è dunque, così come sottolinea Franco Marineo in uno dei suoi
saggi, tentare un’analisi esegetica ricercando coerenze oltre « il confine
fisico dello spectare, oltre la necessaria autoconclusività dell’esercizio
della visione» .
Le immagini: evidenze pellicolari la cui interpretazione è cancellata e al
cui posto domina la sottile consapevolezza del vuoto, esistenziale e
storico, ma reso concreto e visibilmente percepibile attraverso la struttura
stessa della narrazione e della composizione fotografica.
Un’iperbole visiva descrive il viaggio attraverso un’esistenza, quella del
barbiere protagonista silenzioso e paradossalmente quasi assente, mai stata
tale, percepita a distanza.
“The more you look, the less you really know” (più si guarda, meno si
apprende) recita l’avvocato Riedenshneider, incontrastabile personaggio del
film, quasi a voler suggerire in funzione di destinatore vicario degli
autori, riprendendo il principio di indeterminazione di Heisenberg, la
chiave di lettura del film.
Ciò che vediamo allora è il senso stesso del film, in cui domina una
costante distanza tra le cose rappresentate e la realtà che le ospita e un
vorticoso coinvolgimento quasi warholiano per la superficie del discorso.
Indagando l’aspetto formale quindi, sia in termini di iconicità che di
fotografia, rinvenendo determinati codici di fruizione, è possibile
rintracciare quelle informazioni insite nella natura stessa
dell’inquadratura e captare il percorso abilmente preorganizzato dai Coen,
principiando dall’essenza coercitiva della composizione (...)
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