LAST JAPANESE CINEMA 
Appuntamento con il nuovo cinema giapponese

 

 

di Paola ALIOTO

13 Assassins alla corte dello shogun Takashi Miike

Giappone fino '800, era degli Shogun: il nobile samurai Shinzaemon Shimada riceve in segreto l’incarico di assassinare il crudele feudatario Naritsugu in seguito alla sua violenta ascesa al potere. Per mettere fine alla carriera dell'aspirante satrapo, Shinzaemon progetta, insieme a una schiera di 13 samurai, un’imboscata per catturare Naritsugu. La finalità della manovra viene esplicitamente scritta da una delle vittime dei soprusi ridotta senza braccia e senza gambe: "massacro totale".

Dopo anni di lavorazione ecco il jidai geki - equivalente nipponico del genere "cappa e spada", sovente ambientato nel periodo Tokugawa - firmato Takashi Miike. Perfettamente scisso in due parti complementari, la preparazione allo scontro e la lunga e violenta battaglia finale, 13 Assassins è uno dei film più composti ed equilibrati del regista giapponese. Remake dell'omonimo lavoro  firmato da Eiichi Kudo nel 1963,  l'opera coniuga in se modernità ed estremo rispetto della tradizione. Il cineasta nipponico riscrive le regole della lealtà del samurai secondo i canoni classici, applicandole, però, a una seconda parte che vive su un ritmo vertiginoso in cui omaggia Kurosawa con la presenza del tredicesimo assassino che sembra il clone di Toshiro Mifune ne I sette samurai, e mostrando i vari volti del codice cavalleresco nello scontro tra i due samurai Shinzaemon e Hanbei, cresciuti nella stessa scuola e ora in schieramenti diversi, spinti però dalla stessa logica di fedeltà e lealtà. Con una grande padronanza stilistica - ogni inquadratura di 13 Assassins, infatti, sembra il frutto di un lungo e meticoloso lavoro di ricerca del frame perfetto: dolly quando è il caso di utilizzarli, primi piani e controcampi fluidi - e con un’impostazione assolutamente classica, Takashi Miike si conferma un autore di grandissimo talento, capace di giocare con i generi cinematografici in una maniera assolutamente rispettosa e allo stesso tempo libera e personale. 13 Assassins, in apparenza così composto, se messo in relazione con la filmografia del regista, svela il suo essere tassello di un progetto cinematografico aperto alle contaminazioni più ardite e spericolate; manifesto di un cinema che dal confronto con se stesso sa rinascere ancora più ricco.

 

Zebraman is back!

 Anno 2025: Tokyo è stata ribattezzata Zebra City dopo gli eventi raccontati nel film precedente e in particolare dopo che l'allora ministro della difesa si è proclamato capo assoluto della città. Mentre a Zebra City l'istituzione dello Zebra Time (5 minuti ogni 12 ore in cui ognuno può compiere indisturbato qualsiasi tipo di crimine senza subirne le conseguenze legali) miete vittime e fa crescere la popolarità del sindaco, l'ignaro Zebraman – risvegliatosi da un sonno durato 15 anni, senza alcun ricordo del suo passato – dovrà prima ritrovare sé stesso per poter salvare ancora una volta la città da un perfido dittatore, il dottor Aihara, e dalla sadica Zebra Queen.

Sei anni dopo Zebraman il poliedrico regista Takashi Miike riporta sul grande schermo l’incredibile eroe a strisce. Tuttavia, mentre al centro di tutto il primo capitolo c'era la sorpresa spiazzante di come i sogni possano diventare realtà e di come per farlo e arrivare alla più imprevedibile delle svolte non ci sia bisogno di nessuna motivazione, Zebraman 2: Attack on Zebra City è una riflessione più marcata sui confini di bene e male, sulla loro separazione e sulla necessità di un bilanciamento, portata avanti con intelligente autoironia e umorismo grottesco che consentono al cineasta di utilizzare come metafora della lotta tra bene e male un elemento superficiale e ridicolo come le striscie bianche e nere del costume da zebra, impreziosendo il film con la sua caratteristica violenza (solo lui può mettere delle scene così crude in un film scanzonato) e con il sarcasmo che fa di ogni sua opera delle semi-parodie, o meglio delle auto-parodie. In questo senso, gli ultimi 10-15 minuti sono assolutamente geniali, folli, divertenti e scorretti.  E se l’universo ricreato può facilmente richiamare quello di George Orwell in 1984, le battute taglienti e il travolgente umorismo - il grido di battaglia di Zebraman è “Don't stand behind me” - , contribuiscono a sdrammatizzare quello che vuole essere, in fin dei conti, un film leggero - tra violenza, risate, azione - al di là di ogni possibile lettura approfondita.

 

Più di un semplice mistery tale: Distance di Koreeda Hirokazu

Una radio ricorda il terzo anniversario della tragedia perpetrata dai membri della setta religiosa denominata Ark of Truth: i suoi adepti diffusero un virus geneticamente modificato nell’acquedotto di Tokyo, uccidendo centoventotto persone e avvelenandone oltre ottomila. Sullo sfondo, scorrono le immagini della città e dei suoi abitanti: un giovane, Atsushi, che lavora presso un fioraio e che subito dopo va a far visita al proprio padre (o, così si presuppone) in ospedale; un ragazzo, Masaru, che distribuisce volantini di giorno e la sera trascorre del tempo con la fidanzata; un’insegnante, Kiyoka; un dirigente, Minoru, ad una riunione.

A rigor di logica ci si aspetterebbe di trovarsi di fronte a un’opera il cui plot ruoti intorno o alle vittime o ai fautori della strage: Distance, invece, racconta la vicenda attraverso gli occhi – e la memoria – di un gruppo di quattro amici che hanno perduto in quel massacro parenti o amanti (appartenenti alla setta), e che ogni anno, nell’anniversario dell’orrore, si reca sul luogo del disastro – un lago in mezzo al nulla, materiale e spirituale dove tutto è cominciato – per commemorare, ricordare. A imprimere uno scatto vitale all’azione, un colpo di scena: di ritorno dalla loro “spedizione”, i quattro, derubati della loro automobile, incontreranno Sakata, un ex membro dell’Ark of Truth che non ha preso parte all’attacco ed è sopravvissuto. Rapinato anch’egli del suo mezzo, con il calare delle tenebre, l’unica soluzione praticabile è fermarsi in quella che fu la sede della setta nei giorni precedenti il disastro: la baita in mezzo alla foresta.

Il passato, il presente, il senso di una tragedia incomprensibile e la distanza, sono i cardini sui quali Koreeda Hirokazu fa muovere una vicenda che assume fin dal principio i contorni di un thriller metafisico, di un tentativo d’indagine dell’inconoscibile.

È un percorso d’indagine e di riflessione personale quello compiuto dai singoli protagonisti della pellicola. Ma non solo: costretti a passare la notte nella stessa casa dove la setta si era riunita prima di compiere il suicidio, gli individui si confronteranno tanto con il proprio passato, quanto con quello degli altri, in un percorso di condivisione del ricordo, che tuttavia non conduce a un’identificazione per il tramite dell’esperienza comune che li lega.  Il lavoro di presa di coscienza e di recupero della memoria, troverà forma concreta attraverso il ricorso, dal punto di vista tecnico–stilistico, all’uso di flashback e di una mdp fissa, allo scopo di rievocare periodi di tempo antecedenti la separazione dai nuclei familiari e la sparizione da parte degli adepti.

È la prima volta che Koreeda utilizza l’espediente del flashback per rappresentare degli episodi di memoria. Alternando i racconti con dei flashback totalmente dissociati rispetto al tempo della storia, Koreeda trasmette il senso di alienazione e di isolamento emotivo degli adepti dalle loro famiglie, man mano che iniziano a essere sempre più “piegati” all’ideologia del gruppo. Emergono, allora, scene come quella di Sakata inquadrato da solo lungo il ponte sul lago; l’immagine di un Minoru alquanto abbattuto e tutto solo al tavolino di un locale; il fratello di Masaru che comunica al consanguineo la sua partenza il giorno stesso dell’anniversario della morte del padre. Inoltre, tramite le scene che riprendono i viventi presso la centrale di polizia, nell’interrogatorio post–attentato, Koreeda comunica allo spettatore il senso di sgomento provato dai personaggi nel momento in cui vengono a conoscenza di verità sugli amati a loro sconosciute. Le scene, girate all’interno di una stanza grigia, quasi asettica, con i personaggi ripresi in figura media, in posizione frontale, con la mdp che li riprende come se fossero a un provino cinematografico, rendono lampante una triste ovvietà: il trauma di scoprire di non conoscere più una persona amata. Accomunati da tale sofferenza, i loro ricordi individuali divengono i tasselli di un unico grande puzzle che devono ricostruire per giungere alla verità su quei terribili eventi. Come aveva fatto in Maboroshi, Koreeda utilizza il paesaggio per esprimere l’interiorità, il tumulto dei sentimenti che agitano i personaggi. E a una caotica e rumorosa ambientazione di città, sostituisce silenzi assordanti o sonanti burrasche boschive.

Koreeda continua, con Distance, la propria ricerca sui temi della scomparsa, del ricordo e della possibilità di materializzare queste entità così astratte - obiettivo intrapreso nei suoi due primi lungometraggi, Maboroshi e After Life -  e inaugura con questo film un nuovo filone che lo porta a ispirarsi a fatti di cronaca realmente accaduti.

L’assunto prende le mosse da un fatto registrato dalla storiografia giapponese nel 1995: la strage nella metropolitana di Tokyo ad opera degli adepti del culto religioso di Aum Shinrikyō. Tale evento diviene per Koreeda lo spunto per mettere in discussione la percezione del reale, per esprimere il bisogno di riappropriarsi della memoria e non perdere il legame con coloro che abbiamo amato.

Distance è ben più di un semplice mistery tale riguardo della gente in lutto che tenta di dare una spiegazione alle proprie perdite (perché i membri della setta hanno respinto le loro famiglie? Perché hanno commesso quell’atto terroristico?). Il discorso si allarga, finisce per coinvolgere la famiglia e la società giapponese in generale. I morti sono parti di noi che si sono staccate, che hanno deviato, o che forse hanno scoperto l'abisso nascosto nell'uomo. La messa in scena riproduce perfettamente questo spaesamento con continui falsi raccordi tra presente e passato. Tra vita da soli e vita insieme. In questo andirivieni tra tempi e realtà opposte, Koreeda non prende partito: le ragioni di chi è rimasto sono altrettanto valide quanto quelle di chi è partito. Su tutto vincono il dolore, sommesso ma atroce, che si nasconde nel cuore dei sopravvissuti e una compassione fortissima per l’uomo, costretto a sopravvivere in ambienti ostili e preda di interessi più forti di lui. I protagonisti ritorneranno a casa dopo la notte trascorsa nella baita abitata dai loro cari: c'è chi si mescola nella folla e ritorna con fotografie dalla sua compagna (è il caso di Masaru), chi prosegue con rassegnazione la vita distrutta di sempre (è l’esempio di Kiyoka). E chi si scopre diverso rispetto a quello che avevamo sospettato. È a lui, al colpevole–vittima, al suo umano desiderio di ricostruirsi una famiglia (inventandosi una sorella o accudendo un falso padre moribondo), che Koreeda affida il suo commiato funebre. E la scena finale vale l’estrema difficoltà di un film della durata di 132’, dal ritmo alquanto lento e che richiede una più che acuta attenzione ai dettagli. Siamo nel “presente della storia”: Atsushi si dirige verso il lago oggetto di culto. Ha con sé dei gigli. Giunto sulla passerella, getterà in acqua i fiori. Inframmezzando flashback di lui in giardino davanti a un fuoco a cui dava in pasto delle fotografie (riferimento alla volontà dell’oblio, della negazione della memoria?), Koreeda riprende Atsushi in un paesaggio circondato dalla nebbia, gelido. «Padre» la sua ultima parola prima di dar fuoco alla passerella e andare via.

Distance può lasciare lo spettatore deluso, insoddisfatto, probabilmente per quel senso di vago disagio che la sua visione causa. Ancora una volta un gruppo di varia umanità si trova a confrontarsi con ciò che resta della vita dopo la morte. Il piacere narrativo qui è messo alla berlina poiché dipende dalla capacità/volontà di concentrazione del pubblico nel ricomporre questo “puzzle film” che, come per Maboroshi e After Life, invita a una profonda riflessione sul senso della vita e sulla morte. Nella continua (ri)affermazione dell’esistenza umana come un’esperienza straordinariamente appagante, seppur non sempre in grado di fornire risposte chiare ai nostri enigmi. Saggiando la forza dei corpi sopravvissuti, pensando forme di vita alternative alla fine. Anche quando la distance sembra incolmabile.

LAST JAPANESE CINEMA 
Appuntamento con il nuovo cinema giapponese