IN memoria

Eric rohmer

4/4/1920-11/01/2010

 

di Marco GROSOLI

 

Nell’angelo di Paul Klee, Walter Benjamin vedeva quel movimento stesso che chiamiamo “Storia”. Si viene sbalzati in avanti, nel futuro, mentre con lo sguardo si guarda indietro, al passato.

Ecco: del movimento della “Nouvelle Vague”, Eric Rohmer era quella che guardava indietro affinché tutti gli altri venissero sbalzati in avanti. Fu lui il più attaccato alla Classicità (cinematografica e non), fu lui a preparare l’humus di una forma di modernità (la “Nouvelle Vague” appunto) che di speciale ha proprio il vedersi come “il classico con altri mezzi” piuttosto che come una banale tappa evolutiva di un progresso in cui è sempre più difficile credere.

Già nel 1948, quando era un giovane professore che si cimentava nella critica cinematografica, scrive un articolo che viene elogiato subito nientemeno che dal sommo sacerdote dei futuri Cahiers du Cinéma André Bazin. E che, grazie a una solida preparazione istituzionale nelle arti tradizionali, pone le basi per poter vedere il cinema non solo come un’arte, ma come la dissoluzione/compimento di tutta l’arte fino ad allora conosciuta. “Il cinema, arte dello spazio”.

Un titolo che con chiarezza retorica tutta rohmeriana descrive già un cinema che, come il suo, si fonda sulla chiarezza cristallina della relazione tra gli esseri, una trasparenza geometrica che non arretra davanti al suo lato oscuro, a quell’opacità che inevitabilmente riaffiora quando si tenta di mettere insieme lo spazio e la parola, il visivo e il sonoro, la natura e il linguaggio.

Dopo essere stato tra i migliori critici dei Cahiers du Cinéma, ovvero uno di quelli i cui scritti permettono meglio retrospettivamente di distinguere la “politica degli autori” (quella che vedeva “l’autore” come il principio estetico fondamentale, e di riferimento, dell’opera) dalla sua vulgata banalizzata, Eric Rohmer è, tra i “giovani turchi” della rivista, quello che arriva al successo dietro la macchina da presa più tardi di tutti. Mentre i primi anni ’60 sono tutti degli esordi registici dei Truffaut, Godard e Chabrol, sarà solo al terzo lungometraggio (più svariati corti) che Rohmer conquisterà la ribalta – e solo grazie a una testardaggine che ha pari soltanto nella sua riservatezza (è il meno pubblico e mondano di tutta la “Nouvelle Vague”).è il 1966, l’anno di La mia notte con Maud.

Famoso per aver realizzato tre straordinari “cicli” di film (i “racconti morali”, le “commedie e proverbi”, i “racconti delle quattro stagioni”), Rohmer ha proceduto per decenni variando impercettibilmente sempre lo stesso schema, sempre le stesse configurazioni amorose di uomini e donne presi nella rete che intreccia insieme le parole e le immagini.

Da questa rete, comunque, il luminoso classicismo rohmeriano in un modo o nell’altro si districa sempre. E si sforza di tracciare linee e figure per dirci che, in un qualche modo, ci si districa sempre. Ma come la sua “ariosa quadratezza” finisce sempre per riassorbire olimpicamente il sintomo inassimilabile che schizza fuori angosciosamente, forse il cuore della sua filmografia sta proprio nelle sue derive eccentriche, quei film fuori ciclo che Rohmer ambienta nel passato calandosi nei dispositivi artistici dell’epoca e cavandone fuori una sintesi in cui il dispositivo non c’è più, ma c’è solo lo scheletro che innerva i suoi presupposti spaziali. La poesia e la pittura medievali in Perceval (1978), la letteratura romantica de La marchesa von… (1976), le tele tardo-settecentesche di La nobildonna e il duca (2001)… forse è lì che emerge più chiaramente come Rohmer sia quello che, guardando indietro, sia stato quello che più ancora di tutti gli altri della “Nouvelle Vague” è stato sbalzato in avanti. Fino ad usare, ancora in La nobildonna e il duca, il digitale in uno dei modi più intelligenti mai sperimentati. O a dipingere in Agente segreto (2004) una straordinaria testimonianza dell’onnipotenza acefala delle immagini nella società dello spettacolo, la cui semplicità immediata è in perenne complotto contro tutti i complotti e riesce a non perdere mai contro di loro; una riscrittura finalmente convincente di quel concetto troppo poco rilevante nonostante i mille tentativi di ridefinizione, che si chiama “postmoderno”. Dopo averci fatto vedere e sentire che cos’è il nostro presente (usando naturalmente gli anni ‘30) in modo così spaventosamente lucido, a Rohmer non rimaneva altro che tornare alla sua dimensione preferita: l’eterno, il classico, la perfezione senza tempo. Nei boschi di Gli amori di Astrea e Celadon (1997) sono un’altissima, atemporale, definitiva sintesi del rincorrersi amoroso infinito della natura e del linguaggio. Due illusioni che, superando le reciproche incomprensioni e grazie alla provvidenziale mediazione dello Spazio, diventano un’unica realtà.

 

 

IN memoria

Eric rohmer

4/4/1920-11/01/2010