il ritorno di ulisse
Teatro "Malibran"
Venezia - 28-29/11/08

di Gabriele Francioni

Il 28 e 29 novembre 2008 il Teatro Malibran di Venezia ha visto, per la prima volta in Italia, la messinscena de “Il ritorno di Ulisse”, adattamento dell’opera “Il ritorno di Ulisse in patria” di Claudio Monteverdi per la regia di William Kentridge con la collaborazione dell’Handspring Puppet Company e del Ricercar Consort Ensamble.

L’allestimento dell’artista sudafricano ha visto la luce nel 1998 a Bruxelles all’interno del KunstenFestival des Arts che ne ha sostenuto la produzione. Riproporre il lavoro a distanza di dieci anni dalla nascita accompagnato da una mostra personale presso Palazzetto Tito con opere inedite, risulta essere un’operazione di particolare forza data la grande coerenza che anima e attraversa tutto l’operare artistico di Kentridge.

Come più volte in diverse interviste lo stesso Kentridge ha sottolineato, il desiderio di realizzare una regia per quest’opera è stato motivato in primo luogo dall’attrazione per il suo Prologo. Nel Prologo non vengono presentati i personaggi né spiegati gli antefatti dell’azione; in scena sono quattro figure allegoriche ad accogliere lo spettatore, le personificazioni della Fragilità Umana, del Tempo, della Fortuna e dell’Amore, figure che non compariranno più in seguito e il cui solo scopo è quello di dipingere un’atmosfera, dare l’intonazione a tutta la musica ed azione a venire. Fragilità Umana, Tempo, Fortuna, Amore fungono dunque da diapason, per consentire allo spettatore di accordare il proprio animo e metterlo in sintonia con quanto sta per vedere-ascoltare-provare.

è la stessa Fragilità Umana a parlare di sé quasi chiamando ad appello le forze che la rendono tale (Tempo, Fortuna, Amore) e a cantar con loro la tragicità della condizione umana: “fragile, misero, torbido quest’uom sarà”.

Ulisse è per antonomasia l’eroe dell’astuzia, dell’ingegno, della capacità di trovare soluzioni di fronte all’impossibilità del presente; ma un simile prologo introduce inevitabilmente qualcosa di inaspettato, un eroe (se così si può ancora chiamare) messo alle strette e quasi sopraffatto, sempre incalzato dalla necessità di dare una risposta adeguata ai continui imprevedibili rovesci dell’esistenza. Kentridge afferma che il Prologo, nei suoi temi centrali di vulnerabilità e necessità di eroismo, stabilisce il carattere di tutte le immagini che compaiono durante il racconto. Risulta quindi fondamentale la resa del Prologo nella sua versione dell’opera Monteverdiana. Sulla scena solo una struttura semicircolare in legno che accoglie i musicisti e che convoglia lo sguardo degli spettatori, a mò di teatro anatomico, verso il centro dove, sdraiato su  un lettino d’ospedale, è steso un corpo avvolto in un lenzuolo; sullo sfondo uno schermo per proiezioni. Così inizia l’opera nell’interpretazione di Kentridge: il corpo avvolto nel lenzuolo viene scoperto e  si rivela una marionetta, la marionetta di un Ulisse in pigiama; tutt’intorno uomini e donne in abito scuro (un elegante frac per gli uomini) disposti a semicerchio intorno al lettino: sono i cantanti e il marionettista. Le quattro figure allegoriche iniziano il loro canto, la Fragilità Umana pungola la testa della marionetta con una bacchetta e il corpo di Ulisse si anima sotto le invisibili mani del marionettista che ne simula il movimento del respiro sotto le coperte, mentre sullo schermo compaiono le prime immagini, i primi disegni animati, a far da contrappunto all’azione.

Ecco dunque rivelati fin dall’inizio i molteplici piani che compongono questo lavoro e che rendono possibili diversi livelli di lettura. Scenografia, marionette, marionettisti, cantanti, musicisti, videoproiezioni sono tutti elementi significanti che contribuiscono (come diversi strati, insieme eppur distinti) all’acquisizione di senso finale in questo lavoro di Kentridge.

Innanzitutto l’allestimento scenico: molte letture critiche de “Il ritorno di Ulisse”  hanno evidenziato l’esplicito richiamo, nella scelta scenografica, al modello del teatro anatomico e alla pratica della lezione anatomica così come è stata illustrata da Rembrandt nell’omonimo dipinto del 1632. Nel teatro anatomico si praticavano dissezioni di cadaveri a scopo scientifico-didattico per illustrare a gruppi di studenti dimostrazioni anatomiche. Lo spettatore è chiamato dunque ad assistere ad una dissezione, ad un viaggio di esplorazione entro il corpo e la mente umani, a partecipare ad un’esperienza che sia innanzi tutto ricerca. La tensione verso la conoscenza che in molte interpretazioni del mito di Ulisse ha motivato l’agire dell’eroe, ora è spinta sullo stesso Ulisse, indagato proprio dalle forze che lo tengono in scacco sull’essenza della sua eroicità smarrita.

Se il Prologo ci parla di una vita umana in balia di fattori imponderabili e ineluttabili, la presenza in scena per i personaggi umani di marionette e di rispettivi marionettisti pare logica e tuttavia estremamente efficace nella sua semplicità. Ogni personaggio della vicenda, ad esclusione delle apparizioni divine, risulta quindi triplicato: la marionetta che dà corpo, il cantante che dà voce, il marionettista che anima e guida. A sottolineare l’importanza di questa moltiplicazione sta il fatto che si ricorre ad essa solo per i personaggi umani, non esistono marionette né marionettisti per le figure allegoriche o per gli dei che intervengono nell’azione. E’ quindi proprio dell’uomo trovarsi non solo marionetta, agito sia dal proprio elaborato razionale ed emotivo (rappresentato dal cantante) che da forze superiori (rappresentate dal marionettista), ma anche moltiplicato nella propria identità. A differenza di altre rappresentazioni teatrali che ricorrono all’uso di marionette per la messinscena di opere liriche (basti pensare al celebre esempio del Salzburger Marionetten Theater), qui marionettisti e cantanti non sono nascosti, anzi sono esibiti e posti in relazione diretta con i rispettivi personaggi ; spesso, infatti, marionetta, cantante e marionettista si tengono per mano, a sottolineare la loro sostanziale identità. Ma esibire le componenti che formano il personaggio rivela che l’unità del Sé, l’integrità psichica dell’individuo, è compromessa e l’individuo risulta frammentato in una visione caleidoscopica.

A questa moltiplicazione, condivisa da tutti i personaggi umani della vicenda, si aggiunge l’ulteriore sdoppiamento di Ulisse. Infatti Ulisse, come già previsto dalla trama Omerica e dal testo di Bodoaro (librettista dell’opera di Monteverdi), con l’intercessione di Minerva viene trasformato in un vecchio mendico per potersi avvicinare indisturbato alla reggia, verificare la fedeltà di Penelope e vendicarsi dei Proci. Kentridge risolve questa trasformazione in un vero e proprio sdoppiamento: dall’Ulisse che giace nel letto d’ospedale sorge una nuova marionetta Ulisse, con lo stesso pigiama ma arricchito da una sorta di toga improvvisata ottenuta con un tessuto a righe identico al lenzuolo dell’Ulisse ricoverato. Sarà questo nuovo Ulisse a vivere da protagonista il definitivo compimento del suo ritorno in patria, mentre l’altro Ulisse resterà nel suo lettino e da lì assisterà alle vicende che si svolgono intorno a lui.

A differenza degli altri personaggi per i quali non si ha sdoppiamento ma molteplicità (la rappresentazione delle diverse componenti che formano la totalità del Sé), il protagonista, colui che è chiamato ad affrontare gli eventi, è sdoppiato. è significativo che a subire questa scissione sia proprio l’eroe, per definizione essere eccezionale degno di imprese prodigiose. Kentridge in questo modo crea una situazione di ambiguità, o meglio, rende possibile attribuire una molteplicità di significati all’azione scenica e alle proiezioni video. Quelli che si compiono in scena sono accadimenti reali? Veramente il doppio di Ulisse reso mendico, vecchio, eppur vivo e vitale rispetto all’altro se stesso nel letto, vive il riscatto suo e del suo popolo? Oppure ciò che accade in scena è solo una proiezione dei desideri e delle aspirazioni dell’Ulisse in ospedale? O forse gli eventi rappresentati sono visioni, sogni febbrili, allucinazioni di un eroe malato e incapace di agire? O si tratta di memorie che un Ulisse ormai giunto agli ultimi istanti di vita rivive nel ricordo?

Parimenti si può cogliere un senso di ambiguità anche a livello temporale: il tempo dell’azione può essere contemporaneo a quello dell’Ulisse a letto (nel caso in cui il doppelganger compia qui e ora le azioni messe in scena), antecedente (nel caso in cui si tratti di immagini manifestate dalla memoria di Ulisse) o ipotetico-fantastico (nel caso si tratti di abbagli dati dalla malattia o di speranze illusorie).

Questo senso di indeterminatezza non viene risolto in una definizione univoca neanche sul finale, quando, in contrasto con la gioia del canto per il ricongiungimento di Ulisse e Penelope, sul volto dell’Ulisse che ormai giace immobile nel lettino viene sollevato definitivamente il lenzuolo.

Si torna al punto di partenza, dunque, all’immagine del corpo steso sul lettino avvolto in un lenzuolo.

 

Un ulteriore ritorno.

 

Tutto ciò che è avvenuto tra l’inizio e la fine, e le letture che di questi avvenimenti si possono dare, è solo il tentativo di dare un senso e insieme ad esso un ordine; così come l’aspirazione all’eroismo può darsi solo nel tentativo di agire, nonostante forze superiori impediscano libertà d’azione e nonostante ogni sforzo sia, in fondo, unicamente preambolo alla morte e ritorno al punto di partenza.

Kentridge dice di aver tentato in tutta l’opera di rendere evidente, attraverso il suo linguaggio per immagini, il movimento oscillante della coscienza di Ulisse tra ottimismo (la convinzione di avere la meglio) e fatalismo (la convinzione che ogni cosa sarà troppo difficile). Dunque la fatica dell’impresa umana sembra, nell’interpretazione dell’artista, presentarsi non tanto nel momento dello scontro con le avversità quanto in quello immediatamente antecedente. Kentridge pare concentrare la sua attenzione sull’attimo che precede lo scontro con le forze ostili e superiori, e cioè sul momento dello sconforto: il senso di impotenza che si impossessa dell’uomo davanti alla consapevolezza delle avversità e al contempo la percezione di un’urgenza,  la necessità di una risposta e di una reazione.

Vista da questa prospettiva tutta l’opera acquista nuovo spessore e le ambiguità incontrate nella trinità dei personaggi, nel doppelganger di Ulisse, nell’indeterminatezza temporale possono essere lette come espressione delle potenzialità insite nell’esistente, le possibilità e le difficoltà dell’uomo posto davanti alla necessità della scelta.

A ribadire tutto ciò, e a svilupparlo ulteriormente, stanno le immagini video proiettate sullo sfondo. Ogni elemento è un mezzo per indagare lo svolgersi del destino e la possibilità di un suo controllo da parte dell’uomo. L’esito cui pare approdare questa indagine sembra essere l’affermazione di una costante incertezza, sia nei movimenti del destino che nelle risposte che ad esso dà l’uomo.

Le immagini video sono caratterizzate per la maggior parte da disegni animati, e solo in parte da immagini riprese dal vero, tutte comunque rigorosamente in bianco e nero con solo qualche apparizione puntuale e sporadica del colore. Il loro intervento non è continuo, appaiono in alcuni punti della narrazione per poi sparire e ricomparire in altri; si comportano dunque come uno degli strumenti musicali presenti in scena, si pongono all’evidenza dello spettatore in maniera ora più discreta ora più appariscente, creano un accompagnamento. Pare naturale la presenza di disegni animati nell’opera di un artista che da sempre lavora con questo mezzo espressivo, tuttavia giustificare la loro presenza solo in luce della sua familiarità con questa forma di linguaggio può far perdere di vista importanti considerazioni.

Kentridge ha sempre sottolineato come tutta la sua attività artistica si fondi e parta dal disegno, che per lui fondamentalmente è metafora del modo fortuito e indeterminato in cui l’uomo costruisce senso e ordine nella vita. Nel disegnare l’artista dà forma all’esistente e all’inesistente, lo organizza in un sistema di relazioni attraverso la composizione, crea una (o più) prospettiva per definire il corretto punto d’osservazione, dota di significato ciò che rappresenta e dà un nome a ciò che esprime; ma per Kentridge in tutte queste operazioni l’elemento casuale, accidentale, che porta ad adottare una soluzione piuttosto che un’altra gioca un ruolo importante.

Le sue animazioni nascono dal disegno, ne sono conseguenze dirette data la sua natura di palinsesto, di traccia mai definitiva. O forse sarebbe più corretto dire che i suoi disegni nascono dall’animazione, data l’importanza che Kentridge attribuisce all’attività fisica della mano sul foglio così come per le animazioni sottolinea l’importanza del movimento del suo corpo nel continuo avanti e indietro tra foglio e videocamera. La tecnica dell’animazione attraverso continue modifiche e cancellature è intimamente legata al motivo del fortuito così come a quello del movimento insieme dell’artista e del suo disegno. Se per Kentridge il disegno è l’espressione del tentativo di dare un senso e un ordine, il movimento (inteso sia come animazione del disegno che come spostamento dell’artista nello spazio dello studio) è espressione della ricerca di tale senso e ordine. L’artista naviga a vista, sa che se tiene la rotta interverrà qualcosa a sospingerlo avanti, a conferma del suo buon navigare; “you keep at it, and some new thought emerges”, tu insisti e qualche nuovo pensiero emerge.

L’attenzione è dunque puntata sul processo- la nascita dell’immagine e la sua trasformazione- e sulla responsabilità dell’artista all’interno di questo processo; così come nella scena l’attenzione è sui possibili significati dell’azione nel suo divenire, sull’imprevedibilità e mutevolezza degli eventi e sulla responsabilità dell’uomo di fronte ad essi, responsabilità che si esprime nella scelta.

Le immagini presentate sullo schermo sono sempre in stretta relazione con quanto accade in scena, e lo richiamano sia con rimandi espliciti (come, ad esempio, nella sfida tra i Proci,  dove le animazioni mostrano il filo dell’arco che stenta ad arrivare all’altezza giusta finchè non interviene Ulisse) che con richiami metaforici. Il corpo umano è al centro dell’attenzione nelle immagini video; i disegni mostrano parti anatomiche come fossero studi di artista o organi interni come se fossero visti da macchinari medici (raggi x, risonanze magnetiche, ecografie, scanner, ecc.). La motivazione di questa presenza è triplice: innanzi tutto Kentridge dice di essersi avvicinato a loro per il semplice fatto di esserne circondato, data la professione di neurobiologa della moglie; in secondo luogo lo stesso artista riconosce un’affinità tra le immagini cliniche e i suoi disegni, data dalla corrispondenza tra i toni di grigio e il bianco e nero; infine per i richiami immediati con il teatro anatomico e con l’invito a percorrere un viaggio dentro se stessi. Queste immagini funzionano, dunque, in maniera metaforica. Per Kentridge sono immagini di un mondo che possiamo imparare ma mai conoscere, afferrare. L’artista osserva che sono molto più intuitivamente comprensibili certe immagini di lontananza e di esterni (come per esempio le immagini che i satelliti mostrano di Marte) perché possono trovare un corrispettivo nella realtà quotidiana di cui l’uomo fa esperienza; al contrario le immagini del proprio mondo interiore mostrano paesaggi sconosciuti e incomprensibili perché di fatto, paradossalmente, estranei alla comune esperienza, intraducibili. Il senso di estraneità di ciò che più ci dovrebbe appartenere ed essere familiare, senso rappresentato simbolicamente dalle immagini del corpo umano secondo lo sguardo dei macchinari medici, viene messo in scena per creare un parallelismo tra smarrimento del presente e vulnerabilità rappresentata in scena. L’incapacità di dominare il proprio destino come componente costitutiva dell’essere uomo è ribadito attraverso queste immagini che parlano delle moderne paure di malattie, angosce per il possibile avvento di forze incontrollabili, imprevedibili e distruttive. Le immagini cliniche corrispondono, perciò, alle figure allegoriche e agli dei del libretto Monteverdiano, tanto che creano rapporti metaforici anche su questo livello: al fulmine di Giove si rifà l’immagine di un angiogramma; nel Prologo lo svelamento della marionetta Ulisse e l’inizio dell’opera sono accompagnati dall’immagine di un’ecografia che mostra il battito di un cuore fetale; la fine dell’opera e l’atto con cui il marionettista copre il volto di Ulisse sono accompagnati dall’immagine di un elettrocardiogramma piatto.

Il disegno, ricorrente più volte, che illustra un tronco umano in parte sezionato ha evidenti richiami sia con i busti dell’antichità classica, e quindi con il mondo originario di Ulisse, che con le illustrazioni del trattato anatomico di Vesalio. Il busto, inoltre, appare come il resto di qualcosa ormai perduto, come il relitto di qualcosa del passato, come una rovina. Immediato è, infatti, il collegamento ad altri disegni  proiettati che illustrano rovine di antichi templi greci o romani dalle suggestioni vagamente Piranesiane. Ma proprio nel momento in cui le associazioni rischiano di farsi troppo semplici e scontate Kentridge provoca uno slittamento: le rovine antiche si trasformano in tralicci di linee elettriche e dall’ambientazione nell’antichità classica si passa ad un’ambientazione contemporanea nell’arido paesaggio sudafricano. Kentridge inserisce, a questo punto, brani da un suo video d’animazione del 1996, “History of the Main Complaint”: la sequenza proposta è quella in cui Soho Eckstein attraversa il paesaggio sudafricano in macchina volgendo forse per la prima volta lo sguardo a ciò che lo circonda e guardando attraverso lo specchietto retrovisore ciò che si lascia alle spalle. Significativa è la scelta di questo brano. All’interno della serie “Drawings for Projection”, formata da otto film d’animazione realizzati dal 1989 al 1999, “History of the Main Complaint” svolge un ruolo particolare: è il film in cui Soho, l’imprenditore tracotante e indifferente a tutto ciò che lo attornia, inizia una trasformazione. In questo film Soho affronta il passaggio da tipo a personaggio e inizia a vivere complesse dinamiche interiori. Kentridge rende questo mutamento mostrando Soho in coma in un lettino d’ospedale collegato a numerosi macchinari che ne controllano battito cardiaco, respirazione, attività cerebrale; Soho è, inoltre, circondato da medici che sono suoi doppi, cloni impegnati in una diagnosi. Anche solo da questa sintesi risulta evidente il parallelismo tra questo video e la regia dell’artista per “Il ritorno di Ulisse”, tanto che si potrebbe vedere in “History of the Main Complaint” la tappa preliminare per la realizzazione dell’opera (analisi ulteriormente suggerita dal fatto che la colonna sonora del video sia un madrigale di Monteverdi). Ma la scelta di quella precisa sequenza allude a qualcosa di più specifico. Nel video “History of the Main Complaint” lo spettatore viaggia entro la mente di Soho e partecipa all’esplorazione del suo mondo interiore accompagnandolo nel viaggio che ricorda o sogna di fare in automobile. Kentridge allude dunque a quello che per lui è il nodo centrale anche nell’opera lirica: la presa di coscienza della complessità del reale, della sua imprevedibilità e superiorità rispetto alle forze dell’individuo, e la necessità di una presa di posizione, iniziare nonostante tutto un movimento che porti da qualche parte, nella speranza che anche solo lo spostamento nello spazio permetta una, seppur parziale, fondamentale misurazione della realtà e della propria possibilità di interazione con essa.

Le proiezioni video costituiscono dunque l’ultimo anello della catena che fa di ogni elemento in scena una parte in costante dialogo con il tutto.Lo spettatore è sollecitato ad un rimando continuo di associazioni e allusioni, ad un moto interiore ed esteriore sostenuto dalla circolarità. La circolarità si impone a livello visivo nello sguardo che parte dalla marionetta per tornare ad essa passando attraverso marionettista, video, musicisti, cantante: la marionetta, con quanto in lei vi è di perturbante, si impone per prima all’attenzione dello spettatore, e con lei la presenza del marionettista; l’interesse è quindi catturato dalle immagini video che improvvisamente appaiono a indicare ulteriori suggestioni; il carattere epifanico delle animazioni rimanda alla musica, ai musicisti e quindi al cantante; dalle evocazioni suscitate dal canto si torna infine a puntare lo sguardo sulla marionetta, ma con una tensione nuova, arricchita dai vari passaggi. A tal proposito il baritono Furio Zanasi commenta: “è un po’ strano cantare e accorgersi che il pubblico non sta veramente guardando te”; e lo stesso Kentridge osserva: “per i cantanti in questa produzione questa è l’azione recitativa: portare l’attenzione sulla marionetta” e ancora “ la cosa più importante che devono imparare i marionettisti è respirare con i cantanti”. Esiste poi una seconda circolarità, sul piano del significato, data dai rimandi contenutistici tra le varie componenti dell’opera. Ed infine una circolarità nelle interpretazioni dei creatori dell’opera, Monteverdi e Kentridge: se Monteverdi affermò che “la musica dev’esser serva delle parole”, deve cioè tendere allo stesso fine illustrato dalle parole del libretto, Kentridge muove in direzione uguale e contraria dichiarando che la sua messinscena ha come scopo accompagnare e seguire la musica, “la mia speranza è che tutto ciò renda la musica più chiara”. Monteverdi e Kentridge compiono dunque nelle loro intenzioni un cerchio, un percorso in cui si parte per tornare al punto di partenza.

Il movimento dunque - quello dei disegni animati, dell’artista nel momento di creazione, del processo stesso di creazione, dello sguardo dello spettatore sulla scena, dei rimandi impliciti presenti in tutto il lavoro - è un’altra chiave di lettura fondamentale per la comprensione dell’opera, e costituisce al contempo il trait d’union con la mostra presentata a Palazzetto Tito.

 

La personale veneziana se messa in relazione con l’opera “Il ritorno di Ulisse” acquista infatti significati che vanno oltre quelli espressi dalle singole opere, e tentare una lettura della mostra in rapporto allo spettacolo lirico pare consentito dal fatto che il progetto per la mostra è nato proprio mentre l’artista curava con la Fondazione Bevilacqua La Masa e il Teatro La Fenice di Venezia la messinscena dell’opera di Monteverdi. Lo stesso titolo della mostra pare poter creare collegamenti immediati tra nuova esposizione e riallestimento dell’opera lirica: “(Repeat) From the beginning / Da Capo”, titolo della mostra; “Il ritorno di Ulisse”, titolo dell’opera; stessa insistenza sul concetto di ritorno e di circolarità. Nelle sculture presentate alla mostra e nel video “Repeat”- per i quali rimando ad una lettura più dettagliata nei rispettivi paragrafi- il movimento circolare è intimamente connesso all’identità stessa delle opere. Come nell’interpretazione dell’opera monteverdiana, anche qui la circolarità sta ad indicare continuità, indeterminatezza, necessità di movimento per sperare di inciampare, fortuna permettendo, in una visione improvvisamente unitaria di un tutto esploso che solo eccezionalmente consente la rivelazione delle connessioni che lo tengono insieme. 

 

il ritorno di ulisse
Teatro "Malibran"
Venezia - 28-29/11/08