GLAM ART & DEAD LINE(S)
Saremo cinesi, russi, indiani

di Gabriele Francioni

A) 6 PALLONI DA BASKET, 1 MILIONE E 700MILA DOLLARI

 

La bolla dell’arte continua a gonfiarsi, come e più di un animale di Jeff Koons, come uno Zeppelin che s’alza in volo alla velocità d’entrata nel mercato di cinesi, russi, e indiani. E arabi sauditi, come quel folle che si è assicurato per decine di milioni di dollari (sterline?) l’ipernoto cranio diamantato della stella (cadente ?) Damien Hirst.

Ah: le semplici stampe raffiguranti l’ambìto oggetto, a Basilea venivano vendute a 35mila euro…

Brucerà, l’Arte, come lo Zeppelin, o resisterà alla nuova ondata, che ha come unico denominatore comune il denaro neoglobal?

 

Il paradosso è che i topoi fisici da cui provengono i nuovi “collezionisti”, sono i territori, i luoghi reali che nel recente passato si costituivano a mo’di frontiere di fantasticate rivoluzioni politico-spirituali.

Il solito illuminato Zizek, unico al mondo a discutere con cognizione di causa su illegittimità del concetto di “proprietà privata”, se declinato in termini di appropriazione delle risorse –condivise- del pianeta (petrolio, foreste), ci parla di Cina e Tibet e pone tutti sullo stesso piano.

è giusto, sostiene, difendere la causa tibetana nell’attuale scorcio di violenta repressione, ma non dimentichiamo che persino quel non piccolo squarcio geografico di purezza spirituale si è presto piegato, come un monaco quasi inchinato, a precedenti forme di coercizione agite da Pechino, che funzionano a tutte le latitudini: a successive ondate, Lhasa è stata invasa da karaoke, discoteche, simboli di occidentalizzazione più o meno coatta, che ben si sposano - ricorda Slavoj Zizek - con la matrice buddista-tibetana dello spiritualismo new age dilagante in buona parte degli Stati Uniti.

 

Lo sguardo tollerante e ludico crea collegamenti e intrecci inaspettati, asfalta culture millenarie, genera fraintendimenti sulla vera natura di certe “liberazioni” o rafforzate autonomie: autonomia, sì, e da difendere, ma con quanta parte di reale diversità?

Chi può escludere, dunque, che tra qualche anno un consorzio di privati tibetani possa tornarsene da Art Basel con, sottobraccio, un tappeto di Cattelan?

Oggi il mercato lo fanno i magnati informatici indiani e cinesi - ma i russi non sono da meno - che planano su Basilea con jet privati quasi più cheap di un divertente Koons d’annata pronto a finire nella stiva (6 palloni da basket, un milione e 700mila dollari).

Investono nell’arte perché 1) è il settore generatore di ricchezza che è maggiormente cresciuto negli ultimi dieci anni, ondivago più dei titoli in borsa, ma anche fortemente influenzato dagli stessi collezionisti, dai quali dipendono le impennate del mercato; se un titolo - oops, un artista - cala all’istante, niente è più facile del venderne i pezzi per sostituirli con quelli del nuovo rampollo saatchiano2) produce status symbol a getto continuo, che i nuovi ricchi, costituzionalmente ignoranti e rozzi, comprano per mostrarli ad ospiti adeguatamente rozzi e ignoranti, come si fa con una Testa Rossa, come un tempo si faceva con un Raffaello.

 

Comprensibile è che costoro, veri inconsapevoli market designers, propendano per una giocosità aproblematica e un qualche figurativismo o intuibilità primitivo-infantile di forme e, di conseguenza, siano responsabili dell’emarginazione del concettuale, della videoarte e di tutto ciò che metta in mostra brandelli sociologici o frattaglie d’impegno politico.

La teca di Beuys esposta ad Art Basel valeva 750mila dollari: quanti Koons fanno un mignolo di Beuys?

Quanti Vezzoli servono per fare uno sputo misto a terra, sempre di Beuys?

Lo dirà la storia dell’arte, ma i critici stanno già scrivendo.

Intanto Murakami sforna Buddha di plastica.

 

 

B) YBA: YOUNG BRITISH APartHEID

 

I bovini di Damien Hirst bloccati alla frontiera giapponese e la foga del “post-young british artist” nell’acquistare i pezzi della propria opera per porli sotto costosissimi pannelli solari; il suicidio di Angus Fairhurst; la debole prova della star Tracey Emin alla Biennale Arte del 2007…tutti segni di un’epoca che si chiude e di un rompete le righe che è, more solito, conseguenza della perfidia ondivaga di Charles Saatchi, il più incredibile value-maker dell’epoca postmoderna.

 

Sentito il profumo di nuovi denari, più che di nuova linfa vitale, Saatchi si è già dedicato alla promozione di “N.C.A.” (New chinese Art) e ora porta alla ribalta un’inaspettata new wave persiana (Rokni Haerizadeh) e irachena (Ahmed Alsoudani), prevedibilmente lontana anni luce dai mezzi agnelli in formaldeide di Hirst, che intanto ripiega su Jay-Z. (*)

La festosa figuratività primitiveggiante degli artisti mediorientali della neo-scuderia saatchiana, tutta quadri, bidimensionalità e cornici, non ha bisogno d’installazioni per dar vita a quelle cosmogonie private su cui molti (Hirst, Barney, Emin, pur fatte tutte le necessarie distinzioni) hanno costruito le proprie fortune (**): qui le biografie di lotta e di guerra parlano da sole, anche se non descrivono automaticamente trame di interesse assoluto.

 

Di sicuro non proviamo brividi di vera, bruciante novità.

 

Capiamo, però, i poveri magnati di cui si diceva, che almeno sanno cos’è una figura ripresa di profilo e godono di caldi cromatismi di facile presa.

 

Tale è l’influenza di Saatchi, che in un nanosecondo è spuntato, anche da noi, qualcuno che ha preso a imitare in tempo reale l’iraniana Rokni Haerizadeh (a “Bateau Ivre”, Montepulciano, aperto fino al 28 settembre).

è bastato riconvertire l’iconografia persianeggiante in vaghi equivalenti italici.

 

Certo, già adesso molti collezionisti occidentali e gli stessi YBA tremano, temendo i possibili “saldi & svendite” del trendsetter di origine mediorientale.

 

La prima asta persiana di Sotheby’s è arrivata a due milioni e chissà se la promessa di allestire una “New Britannia” nel 2009 verrà mantenuta e/o tranquillizzerà le nuove generazioni di YYBA…

 

(*)Il grasso marito di Beyoncé Bowles, icona ingioiellata di tutta l’inutile tracotanza hip-hop, che sarebbe capace di farsi tempestare il cranio con migliaia di diamantini tanto ama Hirst, ne è pure ottimo acquirente…

(**) Si veda il fondamentale “Un sacco bello”, di Pier Luigi Sacco, Direttore del Dipartimento Arti e Disegno Industriale, Università Iuav, Venezia, su “Exibart.onpaper”, n. 49, 04/05:2008.

 

 

C) ARTE ALLA BIENNALE (CINEMA)

 

Potendo, organizzeremmo un festival di videoarte e fotografia, invitando Jeff Wall, Carlos Casas, Michael Fliri e altri.

Come detto, i nuovi flussi di capitali asiatici orientano i mercati e restringono lo spazio per quest’arte più combattiva, libera, spesso fissata sull’hic et nunc pubblico e privato, sui problemi della polis e dell’animo, un’arte sfuggente ai nuovi canoni estetici, orgogliosamente concettuale, spesso legata alla drammaticità quotidiana.

Sono le Biennali, tutte le biennali, a ospitare queste enclaves ancora potenti e diffuse, specie se devono promuovere le nuove leve, che dibattono collettivamente e transnazionalmente su nuove forme espressive.

Speriamo, a proposito di hic et nunc, che Manifesta 7, in partenza in questi giorni tra Bolzano, Trento e Rovereto, isole felici e sempre all’avanguardia anche organizzativa, abbia questo respiro collettivo e proponga “sorprese inattese”.

 

Intanto Douglas Gordon sarà nella giuria della Biennale Cinema (Concorso).

A suo modo l’artista scozzese ha saputo “usare” il cinema e l’ambito audiovisuale per altri fini, rompendo il vincolo tra qualità e narratività. Il presunto ermetismo di “Through a Looking Glass” e “24-hour Psycho” crea interferenze, cortocircuiti tra lo spettatore e una riconoscibilità (anche narrativa) che viene spezzata a favore di una riappropriazione stupita da parte di chi è coinvolto nelle video performances.

In “24” l’estenuante rallentamento del nuovo cinema muto hitchcockiano, che anticipa singolarmente lo “Slow Dancing” di David Michalek visto alla Biennale Danza di giugno, ruba qualcosa all’opera di riferimento, mostrandone potenzialità nascoste se solo si sposta il punto o il “pace” dell’osservazione e analisi.

Gordon è il manifesto che dice: il cinema ha ancora tutto per essere arte libera dai lacci dell’ipertrofico sistema produttivo/ distributivo e della presunta irrinunciabile narratività, tecnica espressiva rassicurante per (gente comune, critici etc) chi ha sempre bisogno di essere preso per mano e portato in luoghi noti, riconoscibili, familiari.

 

“Cinema” può ancora significare anomalia, straniamento, stimolo all’interrogazione, spunto, piuttosto che perfetto teorema dimostrato.

Siamo sicuri che il divertente, ironico, ultraautoreferenziale SOUTHLAND TALES sia stato rigettato un po’da tutti perché pretenziosamente demenziale e grandiosamente fiolle?

In realtà questa parodia estrema di tutti i cinema sul “futuro”, che contiene STRANGE DAYS e STAR WARS, BRAZIL e DONNIE DARKO, stimola il cervello molto più di un qualunque racconto filmico tradizionale che attinga secondo modalità convenzionali ai canoni, qui messi alla berlina, del genere di riferimento.

 

Kelly usa, specie all’inizio del film, split-screen e inserti che sanno di videogame supernovo, ma attingono anche a Peter Greenaway.

 

Kinematrix, come anticipato alcune settimane fa, sta cercando di portare il regista inglese a produrre al Lido una performance audiovisuale unica nel suo genere (se non succederà qui, sarà stato solo per problemi di sponsor e/o…piccoli intoppi su patrocinii, paternità dell’evento, francamente superabili in un contesto così variegato da arrivare a mostrare anche YUPPI DU).

La nostra rivista sta veramente producendo uno sforzo notevole in questo senso, tanto che si riprometterebbe di riprendere l’iniziativa per una riproposizione a Milano in autunno, in un contesto più ampio, dove potremmo vedere anche il Dj Spooky già “prenotato” per la Biennale del 2009  (con il nostro progetto di remix di “SYMPATHY FOR THE DEVIL/ ONE PLUS ONE” di J. L. Godard).

è giusto che i lettori conoscano alcune dinamiche interne all’organizzazione di eventi di questo livello.

 

Peter Greenaway e il suo manager sono in contatto con Kinematrix da ormai un mese, pronti con la doppia performance “TULSE LUPER-LIVE CINEMA” e “Repeopling Venaria Reale”) già compiuta nei minimi dettagli.

TULSE LUPER sarebbe un fantastico rimissaggio dal vivo delle 92 storie contenute nel film originario in 3 capitoli - tra l’altro presentato proprio a Venezia e proprio da Muller nel 2004 (…) - con apporto di Dj e live-set.Più di 20 grandi schermi 16:9 al plasma restituirebbero al pubblico, libero di camminare-sedersi-ballare, una complessità visiva che rendeva il film di partenza ostico e innaturalmente compresso nei 120 + 120 + 120 minuti del formato di partenza.

Ogni narratività viene spezzata e riconvertita in pura video-arte (qui Greenaway è un VJ a tutti gli effetti, come Dj Spooky con i suoi remix di “Kinopravda” di Dziga Vertov o il progetto “ANTARCTICA”, che potrebbe passare a Milano).

 

“VENARIA REALE” è invece il mix di scene “di corte” filmate da Greenaway per la Reggia savoiarda appena restaurata.

Lì vengono proiettate sui muri ri-stuccati insieme a bande sonore estremamente evocative, qui ritornerebbero negli schermi al plasma di cui si diceva, con accompagnamento di un’orchestra dal vivo diretta da Marco Robino.

L’occasione è unica, oltre che pertinentissima con le scelte di Muller (Greenaway fu invitato nel 2004 proprio con TULSE LUPER-3, dimostrando il coraggio del Direttore dopo le critiche canniane al capitolo-1, ed è tornato lo scorso anno con NIGHTWATCHING).

Speriamo solo che l’averlo proposto noi piuttosto che essere un progetto “interno” alla Fondazione Biennale non sia d’ostacolo alla sua realizzazione.

 

Gli sponsor sono molto dialoganti, Greenaway e il manager straordinariamente entusiasti e propositivi: qualcun altro lo è meno.

 

Se sarà, si farà in forma di evento pre-conclusivo, la notte del 5 settembre, in forma di evento-party aperto al pubblico.

 

 

Questa esposizione di opere di artisti sudamericani ha come tema centrale quello della Morte e il modo di porsi di quel continente riguardo ad essa.
La cultura occidentale ne ha fatto un tabù indicibile, mentre in Sud America la si celebra e i concetti di “violenza” e “assassinio” sono termini accettati nel parlare e vivere comuni, come semplici fatti appartenenti all’ambito del “reale”.
Sacrifici precoloniali e ritualità con grande considerazione verso la Morte, mescolati come in un “cocktail” all’influenza spagnola segnata da brutali forme di cattolicesimo medievaleggiante, hanno dato vita a tali celebrazioni del termine dell’esistenza terrena.

 

Francis Alys, in uno dei lavori, se ne esce da un negozio d’armi in Messico dopo avervi acquistato una pistola e viene notato, e arrestato dalla polizia, solo un quarto d’ora dopo.
In seguito mette in scena la stessa sequenza di eventi ma con la polizia informata sulla sua vera identità.
Le due sequenze vengono mostrate in simultanea.
Il risultato è una “piéce” di rara potenza e acume critico riguardo all’uso di armi in quel paese.
I passanti rimangono prima esterrefatti, poi riprendono le loro faccende per non essere coinvolti in quello che sta accadendo.
Nel secondo montaggio, una quantità maggiore di gente osserva la scena per la presenza dell’equipe cinematografica, ma la maggioranza decide di non guardare.

 

Abbiamo apprezzato anche un altro lavoro: la ripresa aerea di alcuni quartieri malfamati di Città del Messico, realizzata da un elicottero che si muoveva seguendo rotte circolari.
La zona è incredibilmente sovraffollata, povera e abbandonata a se stessa: l’effetto complessivo è di totale astrazione, quasi ci trovassimo in un’altra dimensione.
Un abisso impenetrabile da gente normale.
Il luogo sembra respingerti, al punto che non potrai mai più approcciarlo o comprenderlo.
Ci si sente quasi sollevati al pensiero, quando osserviamo i casermoni sovraffollati e il dedalo di strade buie e di ombre.
è comunque elettrizzante, come una “sbirciata” nel mondo sotterraneo.
L’astrazione lo rende “bello” da vedere e permette all’immaginazione di volare: ti vedi passeggiare in mezzo a quel dedalo, come in una fantasia perversa nella quale si condivide tutta la retorica romanticheggiante derivante dalla visione di troppi film sugli “slums” delle metropoli.

L’artista ha mostrato anche un terzo lavoro: un vero snuff movie anni ’70 trovato in un video-store di Città del Messico, nel quale alcuni ricchi bianchi cacciano e sparano ai nativi nella foresta, per poi seviziarli tagliando orecchi a mo’ di trofeo.
Molto disturbante, ma senza possibilità di evitare il voyeurismo indotto da immagini grottesche, per quanto reali.
Per non dire della sconvolgente facilità con la quale l’artista si era procurato i materiali, solitamente accessibili solo a chi frequenta l’oscurità degli “underworld”.
In un certo senso lo snuff-movie riassume l’intera esposizione: difficile da metabolizzare, estremamente complessa e molto, molto “dark”.

 

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