“Shibboleth” della colombiana Doris Salcedo è
l’ultimo di una serie di eventi organizzati all’interno dello spazio iconico
della “turbine hall” alla Tate Modern londinese, dopo nomi come Louise
Bourgis, Bruce Nauman e Anish Kapoor.
In questo caso ci si è avvalsi della sponsorizzazione della “Unliver
Company”.
è la prima volta che un
artista interviene direttamente sul “corpo materico” della Tate, lavorando
sulla “deformazione” del piano di camminamento e della pavimentazione della
Hall.
Una volta entrati, il primo approccio visivo non rivela nulla di simile agli
enormi art-works mozzafiato (soprattutto gigantesche sculture) che vengono
solitamente esposti.
Lo sguardo punta, infatti, verso le grandi altezze dello spazio espositivo,
senza peraltro trovare alcun punto di riferimento: è il vuoto.
Breve, sottile disappunto.
Procediamo lungo la hall, fino al punto in cui una frattura comincia a
rompere la continuità del pavimento.
Seguiamo il progressivo divaricarsi dei lembi della frattura: ci è chiaro,
ora, che il piano di camminamento è stato spaccato, sino a produrre un solco
di notevole larghezza.
Mentre alcuni ragazzini esplorano la grande fessura, il lavoro della
Salcedo, per quanto prevedibilmente, ci porta a ragionare sui disastri
naturali prodotti dal riscaldamento globale del pianeta, ai cretti spontanei
nelle zone sempre più inaridite.
Potremmo anche dire, a mo’ di commento, che persino l’intoccabile grandezza
iconica dei luoghi d’arte come la Tate Gallery ci appare, ora, non esente da
tali rischi.
Restiamo peraltro interdetti quando la grande frattura va a morire appena
raggiunto il muro che delimita il lato corto della Tate.
è vero che, riflettendoci,
non avremmo saputo proporre alternative a quella conclusione, anche se
continua a sembrarci illogica, date le premesse.
L’insieme, dopotutto, è impressionante e fa persino sorridere l’idea
dell’enorme lavoro svolto per produrre quel solco: sono forse impazziti alla
Tate?
Dopo aver letto le note informative su quest’opera della Salcedo e l’uso del
termine “Shibboleth” nel senso comune, sia come singolo termine, sia come
linguaggio di appartenenza a specifici gruppi o classi sociali, ci sembra di
cogliere maggiormente il senso del tutto, ora decisamente più
impressionante.
Ripensiamo, in tal senso, ai torti subiti da chi cercava riscatto e vendetta
uscendo da quei luoghi.
Fuori da ogni pedanteria o consequenzialità logica, però, non convince l’uso
di cemento e rete metallica per modellare l’interno del “taglio”: lo si
sarebbe dovuto lasciare allo stato “grezzo”, decisamente più autentico.
Comunque l’artista è riuscita a farci confrontare con le scomode verità e
antiche eredità che sono alla base di ogni razzismo condiviso e colonialismo
di sorta.
Eredità che fa da “base instabile” alla nostra cultura, così ben tradotta
nell’atto artistico della Salcedo: una frattura netta nella
“modernità”rappresentata spaccando in due il terreno sotto di noi.
è chiaro che “Shibboleth”
pone molti interrogativi sull’interazione tra scultura e spazio espositivo e
ha definitivamente cambiato la percezione dell’architettura e della
struttura complessiva della Turbine Hall: prima si entrava e si guardava
subito all’insù.
C’è un forte iato tra questa opera e le gigantesche sculture normalmente
accolte in tale spazio espositivo, spesso semplicemente messo a disposizione
dell’“ego” dell’artista che espone.
Nonostante ciò, pensiamo che non ci sia niente di male nell’essere attratti
e catturati dalle sempre più sconvolgenti, altissime sculture della Tate e
per quanto la Salcedo abbia toccato punti interessantissimi col suo lavoro,
anche grazie al supporto scritto, avremmo preferito una “convenzionale”
scultura tipica della Tate.
TATE GALLERY
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