da pigmalione all'arte generativa

di Stefania ROTA

DAL MITO AL CYBORG

 

Ovidio, nel 200 d.C narra della storia di un uomo, che crea una statua e sente il bisogno profondo che la sua opera, la sua creazione possa prendere vita.

Il mito di Pigmalione non è un caso unico. Attraverso i secoli ha assunto varie sembianze e variazioni.

Un altro esempio narratoci da Omero nell’Iliade era quello della casa di Efesto, dio del fuoco, fabbro e artigiano dove tavolini a tre gambe camminavano da soli per disporsi come meglio aggradava gli ospiti e ancelle d’oro massiccio mescevano il vino.

Dalla tradizione cabalistica ebraica con il suo inquietante Golem, alla mitologia vichinga e scandinava con il gigante guerriero Morkkurkalfi.

Ma  è specialmente nel medioevo che tali miti si diffondono in tutta Europa assumendo connotazioni nuove.

A fine Duecento si narra in Inghilterra la strana vicenda di una testa di ottone parlante. Per difendere il territorio inglese dagli invasori, dice la leggenda, due frati francescani pensarono ad un immensa muraglia d’ottone che corra lungo tutti i confini.

Per realizzare la colossale opera di ingegneria, i frati progettarono una testa meccanica che calcoli e spieghi come costruire il muro.

Leggende analoghe di automi artificiali si diffondono simultaneamente in altri paesi: altri costruttori e possessori di teste parlanti sarebbero stati il vescovo Roberto Grossatesta, il papa Silvestro II, san Alberto Magno.

Anche nel Quattrocento circolavano dicerie sui sapienti capaci di costruire esseri meccanici animati tra cui Leonardo da Vinci che creò un leone meccanico in onore di Luigi XII.

Nel frattempo gli alchimisti osavano immaginare la creazione artificiale di un intero essere umano vivente. Era  l’homunculus, la cui leggenda risaliva agli gnostici del 250 d.C., che avevano fuso il messaggio cristiano con il misticismo orientale e i riti magici greci e romani.

Il più famoso di questi sapienti fu Paracelso, vissuto nella prima metà del 1500 che lasciò numerosi scritti e trattati alchemici.

In Giappone fra il 1750 e il 1780 diversi ingegneri inventano bambole capaci di spostarsi in tutte le direzioni e portare tazze di tè e sakè al padrone.

Ma i più famosi automi dell’epoca sono certamente il flautista e il suonatore di tamburo di Pierre Jacquet-Droz. Il flautista non suonava tramite un organetto nascosto ma usava uno strumento vero, emettendo aria dalle labbra e spostando le dita sui tasti.

Negli stessi anni torna a diffondersi la leggenda del Golem d’argilla, ridipinta a nuovo per i tempi nuovi e ripreso nel 1832 dal Faust di Goethe. Wagner, l’assistente di Faust, crea un homunculus seguendo una ricetta che neppure Mefistofele conosce, e quando il diavolo si domanda satirico se nella cappa del camino non sia per caso nascosta una coppia di amanti, si sente rispondere che quel vecchio modo di generare è oggi ridicolo, e solo le bestie continuano a trovarci gusto: in avvenire i cervelli destinati a pensare saranno fabbricati dai pensatori.

L’archetipo di Pigmalione è talmente forte che viene ripreso non solo dagli scienziati , dai maghi, da scrittori di fantascienza, ma anche nell’ambito fiabesco.

Ne è un esempio Pinocchio, di Carlo Collodi (1881) dove un burattino di legno prende vita e diventa un bambino.

Il più famoso mostro creato in laboratorio è però quello del Frankenstein di Mary Shelley. Nel 1818, quando il romanzo uscì, l’elettricità era l’ultimo grido scientifico: è tramite essa che Frankenstein, che è il nome del dottore e non dell’innominato mostro, dà vita alla creatura da lui assemblata con materiale tratto da cimiteri, mattatoi e aule di anatomia.

Ci sono ovvie analogie col mito del Golem: lo scienziato, infatti, crea qualcosa di cui poi perde il controllo.

E anche con L’isola del dottor Moreau di Herbert George Wells, che nel 1895 presentò la novità di non cercare di infondere la vita nella materia inanimata attraverso procedimenti più o meno magici, ma di creare forme superiori di vita (umane) manipolando quelle inferiori (animali) mediante pratiche puramente scientifiche.

Se il sogno/incubo dell’uomo costruito nel laboratorio medico o biologico era tipico dell’Ottocento, forse perché nel Novecento ha cessato di essere tale per incominciare a diventare una realtà, quello dell’uomo come macchina evoluta è invece tipico della fantascienza informatica del Novecento, che è popolata di robot, o automi antropomorfi, e di androidi, o automi indistinguibili dall’uomo.

L’attrazione dell’automa fu narrata mirabilmente nel 1816 da Ernst Hoffmann in L’uomo di sabbia, che ispirò nel 1870 il balletto Coppelia di Léo Delibes, e nel 1880 il primo atto dell’opera I racconti di Hoffmann di Jacques Offenbach.

Il mito di Pigmalione non poteva non interessare Freud, che

l’analizzò nel 1919 nel saggio Il perturbante. In una variazione del 1886, il romanzo Eva futura di Villers de l’Isle-Adam, il protagonista è addirittura l’inventore Thomas Edison, che costruisce un androide che «migliora» la modella reale sulla quale si basa.

I primi veri robot compaiono, insieme alla parola stessa (che significa

‘lavoratore forzato’), nel 1920 in R.U.R. di Karel Capek, che ispirò nel 1926 il film Metropolis di Fritz Lang. Ma naturalmente il loro cantore è Isaac Asimov, i cui robot obbediscono alle tre leggi della robotica: non devono recar danno agli esseri umani, devono essere obbedienti, e devono autoproteggersi. In seguito Asimov aggiunse le leggi dell’umanica, fra le quali quella che gli esseri umani non devono recar danno ai robot.

Più interessanti dei robot, che in fondo non sono altro che schiavi meccanici ispirati all’automazione del lavoro industriale, sono le macchine indistinguibili dall’uomo rese popolari nel 1968 dal romanzo Gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip Dick, e nel 1982 dal susseguente film Blade Runner di Ridley Scott.

Dunque, ben prima del robot reale nasce dunque il robot letterario e fantastico degli artisti. A volte come mascotte, amico dell’uomo, salvatore, simbolo del progresso benefico, altre volte come nemico, schiavo ribelle, minaccia che incombe sull’umanità, punizione divina all’uomo e alla donna che giocano all’apprendista stregone. Nella prima squadra vivono Robby, robot simpatico e impacciato del film Il pianeta proibito (1956), il boscaiolo di latta del Mago di Oz, i celeberrimi C1P8 e D3B0  di Guerre Stellari (1977), l’Uomo Bicentenario di Chris Columbus (1999) nella seconda Ash, androide traditore del film Alien (1979), Terminator (1984) e I Robot (2004).

 L’altra faccia della medaglia è l’uomo indistinguibile dalle macchine chiamato ‘cyborg’, un termine coniato da due medici nel 1960 per descrivere le situazioni di adattamento dell’uomo alla vita nello spazio.

Il cyborg è il punto d’arrivo dell’uomo protesico inaugurato dall’ingegneria delle ali di Dedalo, proseguito dalla medicina delle protesi artificiali, dei trapianti d’organo e delle terapie chimiche e genetiche, e culminato nel 1984 nel Neuromante di William Gibson, i cui personaggi sono una selva di innesti meccanici ed elettronici che possono entrare in comunicazione diretta con i computer e la rete mediante collegamenti neuronali, oggi popolari grazie alla trilogia Matrix di Andy e Larry Wachowski.

Man mano che la ricerca prosegue e l’interesse dell’uomo si sposta sempre di più verso la razionalità, ecco nascere il concetto di intelligenza artificiale.

L'espressione "Intelligenza Artificiale" (Artificial Intelligence) fu coniata nel 1956 dal matematico americano John McCarthy, durante uno storico seminario interdisciplinare svoltosi nel New Hampshire.

 Secondo le parole di Marvin Minsky, uno dei "pionieri" della I.A., lo scopo di questa nuova disciplina sarebbe stato quello di "far fare alle macchine delle cose che richiederebbero l'intelligenza se fossero fatte dagli uomini".

 

PROBLEMI ETICI

 Attraverso tutti questi secoli l’archetipo dell’androide ha sollevato numerosi problemi etici.

Non è forse un volersi sostituire a Dio e alle leggi della natura il tentare di creare una vita umana dalla materia? (dall’avorio in Pigmalione, al fango del Golem, al metallo dei primi esperimenti di robot meccanici, ai resti umani fusi con cavi e chip dei cyborg).

La naturale evoluzione dell’uomo che si crede Dio è nettamente connessa alle scoperte del proprio tempo e al contesto in cui si muovevano i creatori. Pigmalione poteva rendere la sua statua viva solamente grazie all’intervento della divinità mentre il Golem e l’homunculus venivano animati grazie alla magia e all’esoterismo. Con l’evoluzione del pensiero verso il razionalismo e l’epoca industriale l’uomo perde il contatto con la magia e il sacro diventando egli stesso fautore della sua esistenza. Ecco quindi che si assiste al proliferare di esperimenti che non impiegano più formule mistiche ma matematiche e fisiche e dove non si chiede più l’intervento di una divinità ne di forze misteriose all’esterno di se stessi ma si fa affidamento solamente sulla propria mente.

 

L’ARTE GENERATIVA E LA PERDITA DI CONTROLLO

L’arte generativa è una pratica artistica finalizzata alla creazione di un processo, vincolato da regole tramite macchine, distribuito nel tempo o nel movimento che contribuisce a realizzare o realizza completamente il lavoro artistico.

L’arte generativa si basa su un processo che, “attivato secondo un certo grado di autonomia”, produce un'opera d'arte finita. In altre parole, si succedono due atti di creazione, e due distinti “autori”: chi definisce il sistema da utilizzare e scrive il programma – il set di istruzioni, l'algoritmo – da eseguirsi; e chi – o cosa - esegue materialmente il programma. In altre parole, quello che noi continuiamo, fra qualche dubbio, a considerare l'autore si limita a scrivere delle istruzioni, che vengono eseguite – con un margine di interpretazione che può essere rilevante - da qualcuno o qualcosa d'altro. In altri termini, l'autore attiva un processo che si sviluppa autonomamente, e spesso in maniera non prevedibile, sotto il suo sguardo meravigliato. Più che all'artista come siamo abituati a considerarlo, si ha l'impressione di trovarsi di fronte a un Dio minore, che attiva un sistema e poi lo osserva vivere.

In effetti, non siamo molto lontani dalla verità. L'arte generativa ripropone, a distanza di secoli, l'idea dell'arte come “imitazione della vita”, ma della vita tende a imitare non tanto l'aspetto esteriore, quanto piuttosto le dinamiche.

La sorpresa è una componente importante nella poetica dell'arte generativa, in cui l'artista, abbiamo visto, è spesso l'osservatore incantato di un processo che si sviluppa in direzioni imprevedibili.

Quando Galatea diventa umana, Pigmalione spera che lei conservi l’ideale di purezza per cui era stata concepita. Spera di mantenere un controllo sulla sua creazione. Ma la vita non ha nessun controllo. La vita è uno scorrere, un fluire. E così Galatea diventa indipendente dal suo creatore e assume gli stessi atteggiamenti delle donne che Pigmalione tanto odiava. Cosi succede anche per il Golem e per Frankenstein: il mago e lo scienziato generano la creatura ma appena questa diventa viva rivendica la vita, l’autonomia e sfugge dal controllo.

Cosi anche per tutta la letteratura e l’immaginario cyber-punk dove la macchina pensante si ribella al uomo come metafora della vita che cerca di straripare dagli argini troppo stretti del suo fiume.

Ma se per gli esempi sopra riportati la perdita di controllo sulla propria creazione è un vero e proprio problema e una paura del creatore, nell’artista-programmatore che scrive il codice assistiamo invece ad una presa di consapevolezza della sua impotenza su quello che il codice andrà a generare e anzi al ricercare proprio quest’effetto.

Tramite la perdita di controllo assistiamo alla casualità, che è insita nella vita.

da pigmalione all'arte generativa