trieste film festival

23.ma edizione

 

Trieste 19 / 25 gennaio 2012

 

Sezione Wall of Sounds

 

Panini alla mortadella, bottoni bianchi

Due lati oscuri della musica giovanile in film

di Filippo ROSSI

Intro: grande schermo musicale

Il Trieste Film Festival ha riservato una piccola ma interessante sezione dedicata alle pellicole musicali. A un folto, partecipe pubblico sono stati presentati venerdì 20 gennaio due validi prodotti: il film italiano “Freakbeat” di Luca Pastore, con Roberto “Freak” Antoni (2011; dedicato alla riscoperta del Beat italiano); e il documentario serbo “Bijelo Dugme” di Igor Stoimenov (2010; dedicato allo studio del rock dell’ex Jugoslavia). Una doppia proposta che è riuscita ad approfondire con impressionante chiarezza la storia della cultura giovanile sui due lati dell’Adriatico, anche nella scelta cronologica e filologica della proposta: abbiamo iniziato nell’Emilia Romagna di oggi, mentre Pastore e Antoni si gettano all’avventura “sulla strada” per cercare il senso e l’eredità di una grande stagione giovanile come il Beat italiano, quello dei puri anni ’50 e dei magici anni ’60; e abbiamo continuato con il più giovane Stoimenov, classe ’71, che in Serbia va alla radice del movimento giovanile slavo e, più ancora, dell’Est europeo, spostandosi un decennio dopo nei ribelli (anche per loro) anni ’70 e nei disimpegnati (anche per loro) anni ’80. Non sono mancati, come in ogni tragedia cine-rock che si rispetti, il retrogusto amaro e le macchie di sangue finali.

 

Il battito freak

“Freakbeat” è dominato dal guru bolognese Freak Antoni, già leader degli Skiantos e capofila incontrastato del Punk tricolore e del Rock demenziale nostrano, padre poetico di tutti gli Elio moderni. Ovviamente, da ottimo musicista, è anche un appassionato della cultura musicale; e la sua vera anima è Beat. Il film è in realtà il “disperato” tentativo del padre Freak, 58enne ribelle fuori tempo estraneo alla vita centrocommercializzata di oggi, di trasmettere alla giovane, aggraziata e deliziosa figlia Margherita (l’ottima adolescente Sofia Fesani, ben inserita nell’ironia del suo/nostro tempo) il perché almeno tre generazioni fa ci fu un Beat, un “battito” musicale nel grande cuore italiano. “Beat”, spiega Freak, è il suono del ritmo ma è anche, nel participio passato, “beaten”: stanco, battuto. La poesia è in questo destino contro corrente e di inevitabile, amara nostalgia, ben rappresentato nei frammenti di documentari d’epoca che, inframmezzati al lento procedere della storia, mostrano facce in bianco e nero dei giovani di allora. Tutti ingenui contestatori senza progetto, istintivi sovversivi poi uno a uno sconfitti, ma ora splendenti apparentemente per sempre. E mentre il viaggio moderno procede in furgoncino Volkswagen vintage (inevitabile), la sua meta non ha in realtà importanza: il “Graal” della musica italiana sarebbe l’improbabile registrazione di una jam session emiliana tra l’Equipe 84 di Maurizio Vandelli e il mitologico, immenso chitarrista nero Jimi Hendrix. Figurarsi. L’Equipe 84 è quella della solita, bella ma ormai noiosa “29 settembre” (di Battisti/Mogol, 1967: canzoncina psichedelica immancabile in ogni tentativo per quanto serio di analisi di quella stagione), e il film, già lento e declamatorio di suo, trova il punto più basso nell’incontro sottofinale con Vandelli stesso, supponente e fighetto “Mostro di fine livello” che svela, anzi concede non si capisce per quale infastidita alterigia, l’indizio decisivo per il ritrovamento del fantasioso reperto - trattando dall’alto in basso l’umile, dimesso, sconfitto ma simpatico Freak e la magnifica e curiosa figlioletta… Si tratta di un’inutile deviazione milanese, fuori tema con il resto e il contesto. In ogni caso sono la forma visiva, i caratteristi e l’ambiente stesso, la bella provincia emiliana, che contano; pur tra lentezze ritmiche (bestemmia, visto l’argomento!) ed errori concettuali (i giovani di oggi sono davvero tutti rintronati in discoteche “tum-tum-tum”, ignoranti e anestetizzati?). L’ottima fotografia livida, alternata tra colore desaturato che “sembra” bianco e nero e ogni tanto, caricato al massimo, diventa pura psichedelia – che è la storica deriva allucinata del genere: una deriva rabbiosa, a causa delle prese in giro subite dall’ordine costituito, ma in ultima analisi impotente, auto distruttiva; un’evoluzione preoccupante dei sogni giovanili che, qui, è evidenziata quasi senza pietà. Freak sembra dire: “Sognavamo, ma poi non riuscimmo a realizzare il sogno che, allora, divenne un incubo psichedelico; infine qualcuno di noi spaccò tutto col mio Punk. Ora siamo tutti superstiti”. Tra campi nebbiosi, pioggia sui cascinali e paesotti di campagna, Freak e figlia viaggiano dalla locale bocciofila alla stazione dei treni e si mangiano un panino alla mortadella cercando di conoscersi in un week end d’autunno. La figlia ascolta paziente i ricordi e i teneri vaneggiamenti del padre, lo segue amorevole nella sua odissea beatnik e arriva infine a capirne l’autoironica fierezza, mentre cantano e ballano motivi beat, incontrano facce antiche e ascoltano accenti tipici. Tutto scontato ma tutto dall’energia naturale. Un film lento ma sincero, omaggio a un’epoca musicale e soprattutto elegia di una regione epocale.

 

L’elefante etnico

Subito dopo, grazie alla magia del cinema, abbiamo fatto un salto concettuale e geografico meno esagerato di quanto possa sembrare. Il documentario “Bijelo Dugme” di Igor Stoimenov è di tipo classico: interviste d’epoca e moderne, immagini e filmati di repertorio e attuali, cronaca del particolare (in questo caso musicale) che si fonde con la cronaca storica. Ciò che colpisce è il fatto che queste cose, fondamentali per una parte importante dell’Europa, da noi siano praticamente sconosciute. I Bijelo Dugme sono stati i “Rolling Stones della Jugoslavia”, il cui successo oltrepassò i confini dello Stato di Tito e raggiunse ogni angolo dell’Est europeo di quegli anni, fino alla stessa madre Russia. Fondati nel 1974 dal genio della musica Rock/Etno/World balcanica Goran Bregović (nato a Sarajevo nel 1950, poi collaboratore da Palma d’Oro del grande cineasta Emir Kusturica), il Bottone Bianco (è la traduzione del nome “bijelo dugme”) colpì l’immaginario di una gioventù slava in cerca di “eroi con la chitarra elettrica” - proprio come li cercavano i giovani di Inghilterra, America o Italia. Pubblicarono tredici album vendendone oltre sei milioni di copie in un paese che non raggiungeva i venti milioni di abitanti: segnarono la storia musicale degli ultimi decenni della Jugoslavia e più di una generazione. Allo stesso modo degli Stones, fecero scalpore per le copertine provocatorie degli album - i doppi sensi sessuali erano espliciti e ancora più straordinari visto l’ambiente bacchettone in cui venivano fatti deflagrare; e per la sequela infinita di scandali da “sesso, droga e rock and roll”, nel DNA di qualsiasi band degna di questo nome. Ma ci fu di più: riuscirono fin da subito a proporre un “Hard-Blues balcanico” o “Rock da campagna”, come lo definisce nel documentario Bregović: uno stile estremo legato alle origini rurali di quella gente, per musiche e testi. L’opera di Stoimenov ritrae bene la particolarità artistica “localizzata” della band che, nei quindici anni di attività, diventò rapidamente fonte di hit e vizi “globali”. Questo da un lato esaltò i giovani slavi sognanti degli anni ’70 (proprio come lo erano i giovani beat della generazione e del film precedente); dall’altro lato indignò il ferreo regime comunista di Tito. La reazione fu, com’è ovvio, immediata: un qualsiasi regime non può tollerare ribelli di nessun tipo; l’amara ironia è che lo scatenato Bregović & scatenati compagni erano di base d’accordo sui princìpi macro-politici che unificavano quella Jugoslavia! Purtroppo il regime, fesso come tutti i regimi, con un pretesto legato alla droga imprigionò il batterista per quattro anni portandolo alla pazzia e poi al suicidio, facendone sia un capro espiatorio che un martire, come nella più terribile e popolare tradizione rock; eppure contemporaneamente ebbe nella band il classico “elefante musicale” che rappresentava un passato più sicuro di quello turbolento degli anni ’80… I Bijelo Dugme, originari del cuore del paese, la Bosnia-Erzegovina, riuscirono pur negli eccessi filo-occidentali a rappresentare l’unione spirituale della federazione jugoslava, realizzando nella pratica la comunione culturale degli slavi del sud, molto oltre quelle differenze storico-religiose che negli anni ’90 devastarono tutto. La band subì le inevitabili trasformazioni di line-up e di mode, dal Rock sinfonico passò al Glam e alla New Wave, infine all’Etnica. Intorno a lei il mondo crolla: nonostante la lotta strenua e sentita, puramente politica, dell’autore Bregović nel difendere la bellezza dell’unità delle diverse culture slave (che arrivò fino a comporre una rock song in albanese o canzoni folk dalle forti sonorità zigane), la Jugoslavia esplose nella violenza del croato contro il serbo, e peggio. Il gruppo, che si schierò con coraggio e fino all’ultimo contro i nascenti moti nazionalistici e ultra-religiosi, si sciolse nel 1989 dopo un tour contestato; poco dopo sarebbe toccato alla stessa nazione lo scioglimento nell’acido del fratello contro il fratello. Dell’ottimo documentario rimangono nella memoria, tra l’altro, le facce dei giovani dell’Est, trasfigurate nell’estasi proprio come in un “great gig in the sky” degli occidentali Pink Floyd; e la sequenza finale con l’ancora giovane Goran Bregović che ascolta, nella Sarajevo che poi sarà devastata dalla guerra civile, il concerto mattutino di chiese, moschee e sinagoghe: “Solo qui, in questa magnifica città multietnica, è possibile ascoltare questa armonia musicale di culture diverse: è bellissimo” dice amaramente, saggio ma già sconfitto profeta di imminenti sventure.

 

Epilogo: ribelli con una causa?

L’unione del semplice film beat-italiano di Luca Pastore e del complesso documentario rock-slavo di Igor Stoimenov è riuscita e ha segnato una grande notte cinematografica: se nella pellicola Freak Antoni afferma che “i Beat erano una generazione di ribelli buoni, che portavano i capelli lunghi contro il sistema ma tornavano ogni sera dalla mamma”; Stoimenov ha risposto, nella presentazione della sua opera, che “è incredibile essere qua a Trieste: per noi giovani fan slavi, negli anni del fenomeno Bijelo Dugme, Trieste era come Disneyland”. In effetti, il rock appartiene ai “bambini dentro”, da sempre e per sempre contro il potere costituito... non importa quanta mortadella abbiano mangiato o quanti bottoni abbiano sbottonato.

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23.mo trieste film festival

Trieste 19 / 25 gennaio 2012